Il prossimo 20 maggio si perfezionerà una svolta politica senza precedenti nella storia dell’ancor giovane democrazia taiwanese, scaturita da una transizione moderata negli anni ’90 dopo oltre quarant’anni di regime autoritario. A quattro mesi dalle elezioni presidenziali e parlamentari tenutesi il 16 gennaio 2016 e tre mesi dopo l’inaugurazione della 9a legislatura il 1° febbraio scorso, la leader del Partito democratico progressista (Dpp) Tsai Ying-Wen (蔡英文) assumerà la carica di Presidente della Repubblica di Cina (Taiwan). L’anno 2016 fissa così due significativi primati con riflessi non soltanto su Taiwan, ma su tutta la più ampia realtà di quello che è stato denominato il “commonwealth cinese.” In quest’ambito Taiwan è ora l’unico esempio compiuto di democrazia dell’alternanza, avendo il partito nazionalista (Kuomintang, Kmt) – storico detentore del potere nell’isola – perso per la prima volta contemporaneamente il controllo sia della Presidenza che della maggioranza parlamentare. L’elezione alla Presidenza di una donna non proveniente da un lignaggio politico segna una seconda, decisa discontinuità, che rende Taiwan unica nel panorama dei paesi di retaggio culturale confuciano.
Taiwan è in se stessa una realtà di notevole rilievo: al netto della sua collocazione strategica in Asia orientale, e del robusto apparato militare che la presidia, i suoi 23,5 milioni di abitanti – una popolazione paragonabile a quella dell’Australia – presentano un PIL pro-capite pari a oltre 22.600 USD, non lontano da quello della Corea del Sud (27.000 USD) e 3 volte maggiore di quello della Repubblica popolare cinese. In termini aggregati, l’economia taiwanese è al 22° posto al mondo per Reddito nazionale lordo (540 miliardi USD), dinnanzi a paesi come Norvegia, Polonia o Belgio. Sul modello di stati sviluppisti est-asiatici come il Giappone, Taiwan ha fondato per decenni la propria crescita economica sul settore manifatturiero, che nel 2015 contribuiva ancora per più del 30% al Prodotto interno lordo. La sua competitività è stimolata dal forte investimento in ricerca e sviluppo, in crescita costante fino ad attestarsi su valori prossimi al 3% de
l PIL nel 2013, pur in presenza di un ruolo decrescente dei finanziamenti pubblici (23,5% sul totale degli investimenti in R&D nel 2014, rispetto al 35% di un decennio prima).
La proiezione economica taiwanese a livello internazionale è di conseguenza assai robusta: nel 2013 Taiwan risultava in 19a posizione sia come investitore a livello globale che per interscambio commerciale. Sul primo versante, con 14 miliardi USD di flussi verso l’estero, gli investimenti diretti esteri taiwanesi in uscita sono cresciuti del 9% sull’anno precedente, in continuità con un’espansione costante dal 2010. Nello stesso anno l’isola è anche risultata una destinazione appetibile per gli investimenti altrui: 4 miliardi USD, + 15% sul 2012. In termini di import/export, 570 miliardi USD portano Taiwan a pesare per l’1,54% del commercio mondiale: l’Enabling Trade Index 2014 stilato dal World economic forum (Wef) dà ragione di questa vivacità sottolineando come Taiwan sia nelle prime 20 posizioni al mondo rispetto a tutti gli indicatori più salienti in fatto di efficace predisposizione agli scambi con l’estero: efficienza aministrativa, trasparenza, qualità del sistema doganale, infrastrutture avanzate, diffuso accesso all’ICT, ambiente operativo adeguato.
Soltanto un parametro esaminato dal Wef si discosta clamorosamente dalla media: in termini di accesso ai mercati esteri, Taiwan si colloca al 137° posto su 138 paesi considerati. È questa una delle distorsioni più evidenti prodotte dal peculiare status internazionale di Taiwan, che è riconosciuta come stato indipendente con la denominazione “Repubblica di Cina (Taiwan)” soltanto da 22 paesi, tra cui la Città del Vaticano come unico caso europeo. Tra gli anni ’60 e ’70 il resto del mondo – incluse le organizzazioni internazionali, a partire dall’ONU nel 1971 – ha trasferito il riconoscimento diplomatico quale unico governo legale della Cina alla Repubblica popolare cinese (Rpc), che considera Taiwan una provincia temporaneamente al di fuori del proprio controllo, frutto delle dinamiche della Guerra fredda, quando gli Stati Uniti impedirono il completamento della vittoria comunista consentendo al governo nazionalista sconfitto sulla terraferma di mantenere in vita la Repubblica di Cina sull’isola. Nell’ottica di stabilizzare le relazioni tra le due sponde dello stretto senza rinunciare al proposito di completare la riunificazione del territorio cinese, Pechino ha fissato come criterio irrinunciabile per intrattenere relazioni con altri stati l’adesione di questi ultimi al principio dell’esistenza di un’unica Cina, che comprende Taiwan, con capitale Pechino. Accedendo a questa richiesta, la stragrande maggioranza dei paesi mantiene con Taiwan relazioni sovente intense ma non ufficiali e pertanto in molti casi non può offrire a interlocutori istituzionali o imprenditoriali taiwanesi le medesime condizioni normalmente praticate ad altri stati.
Sul fronte opposto, le autorità di Taipei affermano tuttora di rappresentare un governo pienamente sovrano. Tuttavia, nel corso dei decenni tale rivendicazione di sovranità ha subito una progressiva metamorfosi: se fino agli anni ’90 essa era incentrata sul medesimo principio dell’esistenza di un’unica Cina e sulla pretesa “estensiva” che la Costituzione della Repubblica di Cina (1947) fosse la legittima carta fondamentale dell’intera Cina, nel 1991 – con il primo di sette cicli di revisione costituzionale – il governo taiwanese ha riconosciuto che i propri poteri regolati dalla Costituzione e dalle leggi nazionali sono validi solo nelle aree sotto il proprio controllo. Da qui si diparte il percorso di maturazione della democrazia rappresentativa taiwanese, con importanti implicazioni sull’identità civica e sulla fisionomia politica di quello che è de facto uno stato indipendente a tutti gli effetti.Lo strumento utilizzato dal Kuomintang per temperare la divaricazione della traiettoria politica di Taiwan rispetto alla Rpc è stato il “Consenso del 1992”, sulla base del quale Pechino e Taipei concordano sul fatto che esista un’unica Cina ma accettano di divergere sull’interpretazione di quale sia detta Cina, se la Rpc o la Repubblica di Cina (Taiwan).
Non sorprendentemente, con lo sviluppo di piattaforme politiche competitive a Taiwan, questo principio non è condiviso dall’intero arco costituzionale. Proprio qui sta una delle discontinuità più rilevanti prodotta dalle recenti elezioni: il Dpp e la Presidente-eletta non aderiscono al Consenso del 1992. Questo non significa che Tsai Ying-Wen intraprenderà un percorso che porti alla proclamazione dell’indipendenza de jure di Taiwan dalla Cina – secondo una formula delle “due Cine” o “una Cina e una Taiwan”. L’unico predecessore di Tsai alla Presidenza non proveniente dai ranghi del Kmt, l’ex Presidente Chen Shui-Bian (陳水扁, anch’egli del Dpp, in co-abitazione con una maggioranza parlamentare Kmt), aveva spinto in questa direzione tra il 2000 e il 2008, provocando forti tensioni con Washington, contraria alla destabilizzazione dello stretto. Pechino rispose approvando una legge “anti-secessione” nel marzo del 2005, che dispone l’uso di mezzi non pacifici in caso di tentata secessione dalla Cina di una parte del territorio nazionale, o di completo esaurimento degli strumenti per la pacifica riunificazione del medesimo.
La principale sfida che Tsai dovrà affrontare in ambito internazionale sarà dunque quella di ridefinire le relazioni con Pechino in maniera tale da non disperdere i frutti del riavvicinamento tra le due sponde dello stretto perseguito dal suo predecessore Ma Ying-Jeou (馬英九), mantenendo al contempo fede alla promessa di fondare il futuro delle relazioni con Pechino su negoziati trasparenti e sulla volontà del popolo taiwanese. Tsai e il suo partito hanno ottenuto un chiaro mandato in tal senso: oltre la metà (56,1%) dei 12 milioni di elettori taiwanesi che si sono recati alle urne hanno scelto la leader del Dpp come nuovo Presidente, abilitandola con una maggioranza assoluta di 68 seggi su 113 nello Yuan legislativo (il parlamento monocamerale di Taiwan).
La netta vittoria del Partito democratico progressista è da leggersi anche nei termini di una reazione di rigetto rispetto alle politiche della precedente amministrazione, accusata di un eccessivo avvicinamento alle posizioni cinesi. A fronte di una moderata crescita economica, certamente trainata dall’approfondirsi delle relazioni economiche con la Cina continentale, Taiwan ha sperimentato una decisa accentuazione della dipendenza dal più grande vicino: i 130 miliardi USD di interscambio con la Cina sono più del doppio rispetto al volume degli scambi commerciali con gli Stati Uniti, e la crescita è costante e accelerata dal 2007 (+40% nell’arco di 8 anni). Il timore che Taiwan potesse progressivamente cadere nell’orbita di Pechino anche oltre l’aspetto economico ha contribuito a innescare una vivace mobilitazione della società civile taiwanese, a partire dagli oltre 3 milioni di giovani cittadini tra i 15 e i 25 anni. Esperienze come il “Movimento dei Girasoli” – che nel marzo del 2014 mobilitò oltre 500.000 persone portando all’occupazione del Parlamento e, brevemente, della sede del Governo – hanno evidenziato come sullo sfondo di rivendicazioni puntuali di carattere economico e sociale si trovi il grande tema della trasformazione dell’identità taiwanese. Quest’ultima è il prodotto in costante evoluzione dell’interazione tra forze e dibattiti interni e internazionali sviluppatisi nell’arco dei decenni, che la società taiwanese ha assorbito e rielaborato senza consentire al potere politico di esprimere – e ancor meno imporre – una fisionomia ufficiale cui Taiwan debba conformarsi. Spetta ora alla nuova Presidenza, pietra angolare del sistema istituzionale taiwanese, farsi interprete di questo processo nel prossimo quadriennio.
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