A quasi vent’anni da quando il movimento studentesco reformasi ha contribuito alla caduta del regime di Suharto nel maggio 1998, i problemi persistono nelle tribolate regioni di Aceh e Papua. In entrambe queste aree sono presenti movimenti indipendentisti di lunga data, ed entrambe hanno registrato il rinvigorimento di questi movimenti dopo la fine della dittatura. Da allora, però, le due regioni hanno seguito traiettorie diverse, e adesso presentano problematiche differenti.
Ad Aceh, la caduta di Suharto ha contribuito alla crescita del gruppo ribelle Free Aceh Movement (in indonesiano Gerakan Aceh Merdeka, GAM), giunto a controllare gran parte delle zone rurali della provincia. Il governo centrale ha risposto ponendo la provincia sotto legge marziale e lanciando nel 2003 la più grande offensiva militare nella storia del Paese. Il conflitto, iniziato nel 1979, si è poi concluso quando la magnitudine dello tsunami del 2004 ha ridimensionato le ambizioni politiche di Giacarta e del GAM, costringendoli a sedersi al tavolo delle trattative. Le due parti hanno firmato un accordo di pace il 5 agosto del 2005, dopo che il GAM aveva rinunciato alla richiesta di indipendenza e Giacarta aveva concesso una larga autonomia e ritirato la maggior parte dell’esercito (TNI) dalla provincia.
L’11 luglio 2006 il parlamento indonesiano ha approvato la “Legge per Governare Aceh” (LoGA), un documento che ha codificato parte degli accordi presi con la firma della pace. La LoGA ha posto le basi per una pace duratura, soddisfacendo alcune delle rimostranze storiche degli acehnesi. In particolare, il governo centrale ha ricompensato e sostenuto Aceh con aiuti finanziari aumentando le percentuali destinate alla provincia di alcuni flussi del budget nazionale fino al 2028. La LoGA ha anche permesso ai membri del GAM di partecipare alle elezioni politiche, prima come candidati indipendenti ed eventualmente attraverso partiti locali – due eccezioni nel contesto politico indonesiano di allora.
Il GAM si è trasformato nel ‘Partai Aceh’ nel 2008, ma prima di allora gli ex membri del gruppo ribelle avevano già rapidamente raggiunto il controllo del panorama politico ed economico della provincia. Questo successo però non ha portato a un lieto fine poiché il GAM si è presto frammentato in fazioni che competono, anche in modo violento, per la conquista del potere politico e lo sfruttamento delle risorse economiche. La commissione per la supervisione delle elezioni di Aceh ha registrato 57 casi di violenza politica durante le elezioni per il governatore del 2006, 91 durante le elezioni legislative e presidenziali del 2009, e 167 durante le elezioni per il governatore del 2012. Tali violenze includono omicidi, rapimenti, atti di vandalismo e casi di intimidazioni e minacce contro l’elettorato. Come spiegato dall’Institute for Policy Analysis of Conflict, la faida più recente è tra l’attuale governatore, Zaini Abdullah, e il vice governatore, Muzzakir Manaf, entrambi ex GAM ed entrambi candidati per la poltrona di governatore alle prossime elezioni che si terranno entro il 2017 (si veda anche il contributo di Giacomo Tabacco in RISE/4, N.d.R.).
Nel frattempo, la corruzione e il patrimonialismo rimangono endemici, e i benefici della pace non hanno raggiunto la maggior parte dei 4,4 milioni di acehnesi. Aceh continua a essere una delle province più povere dell’Indonesia con, secondo l’UNDP, quasi un terzo delle famiglie nelle zone rurali al di sotto della soglia di povertà. Tanti tra gli Acehnesi lamentano che il GAM non abbia introdotto un sistema di governo trasparente, efficiente e a favore dei poveri, come si sperava, ma abbia per contro continuato a sfruttare le risorse della provincia come facevano i militari e i rappresentanti del regime centrale durante il conflitto. Addirittura, come appurato direttamente dall’autore durante un recente periodo di ricerca ad Aceh, alcuni degli ex membri del GAM parlano di un “ritorno alla guerra.” Resta però da chiarire chi rappresenti ora il nemico.
La traiettoria di Papua è stata diversa. La fine del regime di Suharto è stata ricevuta in questa regione all’estremo est dell’arcipelago indonesiano con un rinnovato entusiasmo per l’indipendenza. Il sostegno per la causa indipendentista è molto diffuso a Papua, e la regione è stata teatro di scontri sporadici sin da quando è stata annessa all’Indonesia nel 1969. I nativi di Papua lamentano in modo particolare l’insediamento dei migranti provenienti da altre zone dell’Indonesia e lo sfruttamento delle risorse naturali locali da parte del governo indonesiano e di conglomerati internazionali. Ma il gruppo ribelle di Papua – the Free Papua Movement (in indonesiano Organisasi Papua Merdeka, OPM) – non ha mai avuto il sostegno popolare di cui ha goduto il GAM, e non è mai stato tanto disciplinato, militarizzato e attivo quanto il GAM. Il punto debole dell’OPM è la sua frammentazione, che ha a sua volta le radici nel livello di diversità sociale che contraddistingue la regione. I circa 1,8 milioni nativi papuani sono divisi in 312 tribù e, nonostante il sentimento antiindonesiano abbia contribuito a creare un’identità regionale, non è stato sufficiente a sradicare l’identificazione primaria degli individui con le rispettive tribù.
In parte proprio per la debolezza dell’OPM, il movimento pro-indipendenza è trainato da gruppi studenteschi e da alcune denominazioni cristiane presenti nella regione, dove la popolazione è a maggioranza cristiana. Per esempio, dopo la caduta di Suharto, una delegazione di 100 papuani ha incontrato il Presidente B. J. Habibie a Giacarta nel febbraio 1999 e ha formalmente chiesto l’indipendenza. L’apice di questa spinta pacifica per l’auto-determinazione è stato il secondo congresso di Papua tenutosi a Jayapura qualche mese dopo e al quale hanno partecipato circa 15.000 persone. Ma la realtà è che a Papua non c’è stato uno tsunami e non c’è stato nessun catalizzatore per cambiamenti politici sostanziali.
L’unico tentativo da parte del governo centrale di venire incontro ai papuani è rappresentato dalla legge di autonomia speciale del 2001. Ma seppur in teoria espansiva dell’autonomia, la legge non è stata mai attuata in modo soddisfacente e ha solo aumentato la sfiducia dei papuani verso il governo. Nel frattempo Giacarta ha continuato a militarizzare la regione, l’ha divisa in due province (Papua e Papua Ovest), contravvenendo alla stessa legge per l’autonomia speciale, e non ha mai smesso di sostenere la migrazione a Papua di musulmani giavanesi. Secondo il censimento del 2010, la popolazione delle province di Papua e Papua Ovest è adesso di 3.593.803, di cui oltre la metà è composta da coloni indonesiani nonpapuani e dalla loro prole.
Alcune fonti a Papua hanno detto all’autore, nel corso degli anni, di sentirsi vittime di un lento “genocidio religioso e culturale.” Il termine ‘genocidio’ in questo contesto è stato usato in uno studio dell’università di Yale del 2004 che discuteva di come l’afflusso di non-papuani indonesiani stia diluendo l’etnia papuana a tal punto che può essere considerato un “elemento di genocidio.”
La speranza tra gli attivisti pro-indipendenza è di coinvolgere la comunità internazionale e forzare l’Indonesia a indire un referendum per l’indipendenza, come l’allora presidente Habibie fece per l’ex provincia di Timor Est nel 1999. Questa strategia ha però finora portato a un relativo sostegno di alcuni dei paesi delle Isole del Pacifico e di alcuni isolati politici occidentali. Durante il convegno del Forum delle Isole del Pacifico tenutosi lo scorso settembre, per esempio, il Segretario Generale del Forum, Dame Meg Taylor, ha detto che Papua Occidentale è un argomento delicato per i governi del Pacifico, ma un argomento che deve essere discusso. Giacarta però non ascolta, e ragioni di geopolitica dettano che le Nazioni Unite e le potenze democratiche regionali, Australia e Nuova Zelanda, siano altrettanto sorde.
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