Prima del riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese nel 1970, l’Italia era legata da rapporti diplomatici al governo nazionalista di Chiang Kai-shek, costretto a rifugiarsi a Taiwan dopo la sconfitta contro i comunisti di Mao Zedong nella guerra civile del 1946-49.
La Fondazione della Repubblica Popolare da parte di Mao nell’ottobre del 1949 aveva messo in imbarazzo i governi dei paesi alleati degli Stati Uniti, Italia inclusa. Sia il governo comunista di Pechino che quello nazionalista di Taipei si ritenevano, infatti, i governi legittimi di tutta la Cina e ciò imponeva agli altri Paesi di decidere quale dei due riconoscere. Alcuni paesi europei come la Gran Bretagna, grazie al suo rapporto speciale con Washington e ai suoi interessi storici in Cina, si mossero immediatamente per il riconoscimento del regime comunista di Pechino. L’Italia, membro “debole” della NATO dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, dovette invece accodarsi alla scelta di Washington e mantenere il proprio riconoscimento alla Repubblica di Cina, ossia al regime nazionalista di Chiang a Taiwan.
L’alleanza tra Pechino e Mosca siglata nel 1950 e l’intervento cinese nella Guerra di Corea (1950-53) avrebbero consolidato i fronti diplomatici, trasformando Taiwan in uno dei pilastri dello schieramento di alleanze in funzione anti-comunista costruito da Washington in Asia orientale.
In Italia socialisti e comunisti premevano per il riconoscimento del regime di Pechino. Una parte dei democristiani e del mondo economico italiano riteneva inoltre che la mancanza di contatti con la Cina continentale costituisse un fattore limitante per un paese come l’Italia nel pieno dello sviluppo economico. Grazie all’attivismo dei socialisti, a partire da Pietro Nenni, e all’appoggio di alcuni leader democristiani come Aldo Moro – che vantava ottimi rapporti con il Premier cinese Zhou Enlai – si giunse alla creazione dei primi rapporti economici tra i due paesi e all’apertura nel 1964 di due uffici commerciali a Roma e a Pechino. La rapida trasformazione del sistema internazionale e il contemporaneo mutamento nella politica interna italiana e cinese negli anni a seguire avrebbero spianato la strada alla soluzione definitiva del problema.
La rottura dell’intesa sino-sovietica, maturata nel corso degli anni ’60 e sfociata negli scontri sul confine lungo il fiume Ussuri nel 1969, insieme con la contestuale degenerazione della Rivoluzione Culturale in Cina, spinsero Mao a riportare l’ordine nel paese manu militari e a cercare una collaborazione con l’Occidente per proteggersi dalla minaccia sovietica. La nuova disponibilità cinese al dialogo fu ben accolta dall’amministrazione Nixon, insediatasi nel 1969, consapevole del vantaggio strategico che una cooperazione con Pechino le avrebbe concesso sia nel confronto bipolare con Mosca che per la soluzione del conflitto in Vietnam.
Il 1969 fu un anno cruciale anche per la vita politica italiana. Alla crescente pressione sociale dal movimento operaio e studentesco e alle tensioni create dai terrorismi di diversa matrice, si rispose con la formazione del primo governo democristiano, presieduto da Rumor, con l’appoggio organico dei socialisti. Nenni ottenne il dicastero degli esteri e, per convincere l’ala sinistra del partito della validità del compromesso con i democristiani, annunciò immediatamente (gennaio 1969) alla Camera l’intenzione di avviare un negoziato per la normalizzazione delle relazioni con la Cina popolare.
La contemporanea apertura del negoziato con Pechino avviata dal Canada ridimensionò l’eccentricità dell’iniziativa di Nenni agli occhi di Washington e ne facilitò l’attuazione. I colloqui ebbero luogo a Parigi – che aveva riconosciuto la Cina popolare già nel 1964 e ospitava dunque una sua ambasciata – e si distinsero in tre fasi influenzate dagli sviluppi di politica interna e internazionale.
I cinesi chiedevano che l’Italia: a) riconoscesse la Repubblica Popolare come il solo governo legale rappresentante il popolo cinese; b) riconoscesse che Taiwan ne era parte integrante e rompesse tutti i rapporti con la ‘cricca’ di Chiang Kai-shek; c) sostenesse il diritto della Repubblica Popolare ad ottenere il posto che le spettava in seno alle Nazioni Unite. Le posizioni iniziali erano rese incompatibili dalla volontà italiana di trovare una formula che le consentisse di evitare rotture traumatiche con Taiwan, mantenendo con essa contatti commerciali e culturali.
La fine della Rivoluzione Culturale, sanzionata dal IX Congresso del Partito Comunista dell’aprile del 1969, gli scontri al confine con i sovietici e la conseguente ripresa dei colloqui con gli americani avrebbero reso più morbide le posizioni di entrambi i protagonisti del negoziato: se i cinesi avevano bisogno dell’Occidente per rafforzarsi contro la minaccia sovietica e ottenere il seggio all’ONU, gli italiani sentivano ora che la loro iniziativa era compatibile con gli interessi dell’Alleanza atlantica o, come disse il sottosegretario di Stato americano Alexis Johnson, addirittura premonitrice di “una svolta nei rapporti con la Cina comunista”.
Il 6 novembre del 1970 si giunse dunque ad un comunicato congiunto nel quale il governo italiano riconosceva il governo della Repubblica Popolare Cinese come l’unico governo legale della Cina e “prendeva atto” della dichiarazione cinese secondo cui Taiwan era parte inalienabile del territorio della Repubblica Popolare Cinese.
La formula si rivelò una sintesi ottimale delle esigenze politiche e diplomatiche dei due paesi in quel determinato frangente storico. La Cina da parte sua otteneva il riconoscimento diplomatico dell’Italia – membro della Nato e fedele alleato statunitense – a scapito di Taiwan, compiva un ulteriore passo avanti per la conquista del seggio all’Onu (che avrebbe ottenuto nell’ottobre del 1971) e spianava la strada alla normalizzazione con Washington. L’Italia riusciva a ottenere, grazie alle mutate condizioni internazionali, un risultato storico dal punto di vista diplomatico senza tuttavia venire meno alla fedeltà atlantica e evitando di riconoscere esplicitamente Taiwan come parte integrante della Repubblica Popolare.
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“For the Trump administration, China’s being defined not as a rival, but as an enemy. It would be interesting to understand the effect of... Read More
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