Due estremità concettuali si rivelano utili per delineare i rapporti tra l’ASEAN e la Cina: l’ideologia e il pragmatismo. Probabilmente non consentono di entrare nei dettagli, né di ricostruire interamente la storia, né di fare giustizia delle sofferenze, ma consentono un’operazione di sintesi. Sono propedeutiche a disegnare la cornice entro cui il reticolo delle posizioni è compreso e il gioco delle alleanze giustificato. Esse non analizzano la complessità, ma offrono gli strumenti per interpretarla.
Quando nel 1967 l’ASEAN viene fondata a Bangkok il mondo è nella fase forse più pericolosa della Guerra fredda. L’ideologia, più della politica e indiscutibilmente prima dell’economia, guida le relazioni internazionali. In Asia la situazione è certamente più tesa che in Europa, dove la ricostruzione ha prevalso e la convivenza con il blocco sovietico non prelude a conflitti militari. Questi al contrario sono presenti e sanguinosi in Asia: basti ricordare la guerra in Indocina, l’armistizio armato in Corea, l’irrisolta questione di Taiwan, le guerriglie comuniste nel Sud-est asiatico. La posizione della Cina, seppure con divergenze non secondarie, è allineata a quella dell’Unione Sovietica. I cinque Paesi che firmano la dichiarazione fondante di Bangkok sono invece tutti schierati con gli Stati Uniti e danno vita a un blocco regionale che deve agli aspetti strategici e militari la sua ispirazione immediata. È una scelta drammatica e obbligata, motivata dal timore del sostegno di Mosca e Pechino alle sovversioni interne. La messa fuori legge del potente Partito Comunista Indonesiano e gli eccidi che ne seguirono – soprattutto della minoranza cinese – rappresentano l’aspetto più cruento di questa contrapposizione. La Cina non poteva dunque che condannare apertamente l’ASEAN, etichettandolo come un blocco di nazioni traditrici dei loro cittadini che per mantenere il potere si era schierato con l’imperialismo statunitense.
Da entrambe le parti l’appartenenza identitaria non consentiva indugi. Mentre la retorica e le operazioni militari prevalevano sul dialogo, sarà necessario aspettare il maggio del 1974 per registrare le prime relazioni diplomatiche con un Paese ASEAN, quando Pechino e Kuala Lumpur si scambiano gli ambasciatori.
Nei pochi anni precedenti in realtà molti avvenimenti avevano cambiato un panorama già complesso. Innanzitutto, l’ASEAN si avviava speditamente a contrastare il sottosviluppo. Le sue società uscivano dall’indigenza, una classe media si affermava, retaggi atavici venivano sconfitti. Si trattava di successi parziali, disomogenei, talvolta contraddittori, ma certamente cospicui. A essi, la Cina non poteva rimanere indifferente. L’estremismo della Rivoluzione Culturale, con la sconfitta di Lin Biao, volgeva al termine e ricomparivano sulla scena politica la lungimiranza e l’acume di Deng Xiao Ping. Infine, la rottura del blocco socialista, addirittura con scontri armati tra URSS e Cina, imponeva alla dirigenza cinese un ventaglio di opzioni sulle quali costruire le proprie alleanze. Agli inizi degli anni ’70 dello scorso secolo si gettano le basi per un inedito multipolarismo, suggellato dall’incontro di Mao e Nixon. Senza quella famosa stretta di mano, l’avvicinamento tra la Cina e l’ASEAN non sarebbe stato così prossimo.
Uno stimolo ulteriore appare evidente dopo la morte di Mao e la svolta denghista del 1978-79. La Cina ribalta progressivamente la sua impostazione politica, auspica l’imprenditoria privata, cerca alleanze pragmatiche, si impegna per recuperare forza e autonomia. Il percorso economico ha bisogno di stabilità, non di agitazione permanente. I Paesi dell’ASEAN – molto più singolarmente che l’intera Associazione – diventano interlocutori ineludibili. Offrono contemporaneamente diverse soluzioni economiche a Pechino: serbatoi di materie prime, fornitori di tecnologia, acquirenti di prodotti cinesi. In un clima sociale meno teso, si allontanano i conflitti etnici interni che avevano spesso condotto verso pesanti discriminazioni nei confronti delle minoranze cinesi nei Paesi ASEAN. Il sospetto di essere agenti di Pechino e il ruolo nevralgico che detenevano negli assetti economici avevano spesso causato una miscela di risentimento sociale e di pesanti persecuzioni. La diaspora cinese, dopo i contatti delle capitali ASEAN con Pechino, può dedicarsi con profitto reciproco all’intermediazione economica e alla produzione industriale.
Pur avviato, questo percorso non è stato né facile né veloce. Le convenienze reciproche erano evidenti, ma gli ostacoli permanevano. Il più consistente riguardava la penisola indocinese, con l’influenza dell’URSS sul Vietnam e la conseguente invasione della Cambogia. Negli anni ’80 tutta la penisola era sotto la longa manus di Mosca. Soltanto con gli storici avvenimenti del 1989-1990, compresa la repressione di Tian An Men, si irrobustisce il percorso verso il riconoscimento formale dei rapporti e il mutuo vantaggio economico tra la Cina e l’ASEAN. Nel 1990, in una situazione di isolamento internazionale, Pechino stabilisce piene relazioni diplomatiche con Giacarta e Singapore. Paradossalmente è proprio la città-stato – dove oltre il 75% della popolazione è cinese – a essere l’ultimo Paese ASEAN a riconoscere il governo della Repubblica Popolare Cinese. È uno dei simboli del tramonto dell’antagonismo ideologico e l’apertura a una visione più redditizia – con il metro quantitavo della crescita del Pil – delle relazioni internazionali. Quando, nella seconda metà degli anni ’90, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia aderiscono all’ASEAN la Guerra fredda, in questa parte di Asia, è consegnata alla storia. Non esistono più nemici; l’obiettivo è crescere insieme e dividersi equamente la ricchezza creata.
In questo contesto la Cina svolge un ruolo cruciale, per sé e per i dieci Paesi dell’Associazione. Ne diventa in pochi anni il primo partner commerciale, uno dei maggiori investitori, spesso ne è alleato nelle più importanti questioni mondiali. Gli interessi prevalgono, anche quando confliggono con le visioni internazionali. La Cina e i Paesi ASEAN (a cominciare da Singapore) sono ad esempio uniti nel condurre rapporti e affari con il Myanmar durante l’imposizione delle sanzioni. Hanno trovato così radici negli anni i principi più redditizi: la non interferenza negli affari interni di ogni Paese, l’accento sulla cooperazione tra governi, l’interesse cogente a coltivare la crescita economica. Le differenze dimensionali, le tradizioni storiche, i ricordi di un passato prossimo non hanno impedito il perseguimento di un comune sviluppo e il collettivo apporto alla nascita del “secolo dell’Asia”. La forma più eclatante di questa nuova partnership è stata la sigla del trattato di libero scambio tra il blocco ASEAN e la Cina denominato China ASEAN Free Trade Agreement (CAFTA). Entrato in vigore il 1° gennaio 2010, il CAFTA rappresenta il trattato di libero scambio che coinvolge il maggior numero di persone al mondo. Il successivo passaggio dell’invio di ambasciatori tra l’ASEAN e la Cina, nel 2012, rappresenta soltanto una formalità diplomatica, l’epilogo di un percorso straordinariamente innovativo ed efficace.
Tuttavia, nuove inquietudini si affermano con forza nel Pacifico e riempiono le cronache quotidiane. Subisce scossoni pesanti il nuovo equilibrio che si era creato. La sua sintesi, forse eccessiva ma veritiera, ne tratteggia i due bastioni: per l’ASEAN la sicurezza è assicurata dagli Stati Uniti, la crescita dalla Cina. I primi garantiscono il versante politico, la seconda quello economico. È proprio questo bilanciamento – così vantaggioso per l’ASEAN – a essere messo in discussione dalla politica estera ondivaga di Washington in Asia e soprattutto dal rinnovato espansionismo cinese. Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale possono dividere il fronte comune dell’ASEAN, secondo i rapporti con i singoli Paesi. Non tutti hanno contese territoriali e ognuno di essi ha diverse leve negoziali. Non è assente il pericolo di una frammentazione delle relazioni, e soprattutto di un loro raffreddamento. Dimostrerebbe l’alternanza di cicli di pragmatismo e ideologia, questa volta con la maschera del nazionalismo indossata dai militari.
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