La Cina è divenuta il primo esportatore mondiale, ed è noto che il paese stia esportando in misura crescente prodotti ad alta tecnologia. Tuttavia, un’analisi che si limitasse a studiare i flussi commerciali con i criteri di misurazione tradizionali sarebbe fuorviante. Infatti, in Asia orientale dagli anni ’80 del secolo scorso ha preso forma un sistema di network produttivi che sta radicalmente cambiando il paradigma del commercio internazionale, con rilevanti conseguenze sulle dinamiche di funzionamento degli accordi commerciali multilaterali.
Come si vede dalla figura sottostante, tutto ebbe inizio negli anni ’80 quando le multinazionali giapponesi, soprattutto dopo la rivalutazione dello yen imposta dagli Stati Uniti con gli accordi del Plaza del 1985, iniziarono a delocalizzare intere fasi della produzione in Corea, a Taiwan e in altri paesi dell’Asia sudorientale, a partire dalla Malesia. Mentre gli anni ’90 e 2000 vedono la comparsa degli Stati Uniti e della Repubblica popolare cinese (Rpc) all’interno del network produttivo regionale, attorno al 2005 si era già verificato un riorientamento delle dinamiche produttive attorno all’hub cinese, divenuto uno snodo cruciale per i flussi commerciali in Asia. Infatti, Taiwan, le Filippine, la Thailandia, la Corea, Singapore e la Malesia sono divenuti tutti paesi fornitori della Cina, relegando il Giappone a una posizione più defilata, anche se indirettamente rilevante soprattutto attraverso gli investimenti a Taiwan e in Malesia.
Se la Cina viene definita spesso come “la fabbrica del mondo”, scomponendo le esportazioni in quote di valore aggiunto emerge un quadro più complesso. La Cina infatti è divenuta “l’assemblatore dell’Asia”: nel 2006 quasi i 2/3 delle importazioni cinesi di beni intermedi provenivano dall’Asia orientale. La Cina rivende i prodotti finiti principalmente in Europa e negli Stati Uniti (tra il 1992 e il 2006 la quota delle esportazioni cinesi di prodotti finiti dirette in Asia orientale è scesa dal 55 al 26,5%). Anche se la quota del processing trade sul commercio totale della Cina sta declinando, essa è ancora elevata: è infatti passata dal 49% (55% delle esportazioni e 42% delle importazioni) del 2000 al 39% del 2010 (47% delle esportazioni e 30% delle importazioni). Pertanto, la crescita cinese dipende dalle esportazioni tanto quanto dalle importazioni, e l’alto contenuto tecnologico di quest’ultime potrebbe spiegare il “paradosso di Rodrik”, secondo cui le esportazioni cinesi sono più sofisticate rispetto a quanto ci si dovrebbe attendere dal livello (medio) di sviluppo della Cina.
In altre parole, se non si considera l’alto valore aggiunto delle importazioni for processing, non si coglie appieno il significato del ruolo svolto dalla Cina nel commercio mondiale. Ad esempio, un iPod che viene registrato nelle statistiche commerciali come export cinese del valore di 150 dollari in realtà ha un valore aggiunto cinese di soli 4 dollari, poiché il restante valore incorpora semplicemente la somma dei costi della componentistica importata. Ancora, un recente studio accademico rivela che, mentre il costo di produzione totale di un iPad è di 275 dollari, il valore aggiunto in Cina è di soli 10 dollari. Dal momento che la componentistica per l’elettronica rappresenta una parte significativa dei beni scambiati tra i paesi asiatici, la differenza tra i due valori assume un significato rilevante. Se alle statistiche commerciali si applica il criterio del valore aggiunto si hanno risultati interessanti: ad esempio, secondo stime del settimanale The Economist il deficit di 300 miliardi di dollari Usa registrato dagli Stati Uniti nei confronti della Cina nel 2011 scenderebbe a soli 150. Inoltre, un rapporto dell’Unctad redatto per il G20 rivela che un apprezzamento del renminbi non necessariamente consentirebbe una riduzione del deficit statunitense, poiché renderebbe più care le merci importate e rilavorate per le esportazioni: in sostanza, lo squilibrio è di natura multilaterale e non bilaterale. Infine, scorporando il valore della componentistica importata, ancora nel 2005/2006 più dell’80% delle esportazioni manifatturiere cinesi era ancora composto da beni labour-intensive, segno che l’ascesa della scala tecnologica è un processo lungo e per nulla scontato.
L’integrazione della Rpc nei network produttivi globali dà ai paesi dell’Asia orientale nuove opportunità di specializzarsi in una specifica fase della lavorazione dei prodotti il cui assemblaggio finale avviene appunto nella Cina continentale. Non ci sarebbe quindi competizione, ma complementarietà, con il resto della regione. È stato calcolato infatti che un aumento dell’1% delle esportazioni cinesi è associato con una crescita dello 0,51% delle esportazioni totali del Giappone, dello 0,42% di quelle coreane, dello 0,70% delle esportazioni thailandesi, e addirittura dello 0,89% di quelle delle Filippine. Sul versante cinese, un aumento dell’1% del Pil determina un aumento delle importazioni dai paesi dell’Asia orientale maggiore di 0,7 punti percentuali rispetto all’aumento delle importazioni dai paesi Ocse.
S’impongono a questo punto due considerazioni finali. In primo luogo, la leadership cinese si trova di fronte al dilemma tra continuare ad accogliere capitale straniero (che, come noto, è fortemente coinvolto nell’assemblaggio di prodotti per l’esportazione), secondo il paradigma neoliberale del technoglobalism, o puntare invece a rafforzare l’apparato tecnologico interno, ricorrendo anche a vecchie e nuove forme di protezionismo (technonationalism). In secondo luogo, il processo di regionalizzazione senza regionalismo dell’Asia orientale sembra non avere bisogno delle aree di libero scambio (Als) tradizionalmente basate sull’abbattimento delle barriere tariffarie: infatti, la stragrande maggioranza della componentistica per l’elettronica e non solo attraversa ormai le frontiere duty-free. La recente proliferazione delle Als nella regione sembra quindi avere un significato più politico che economico all’interno della complessa opera di tessitura di amicizie e alleanze che vede sullo sfondo il delinearsi di una nuova partita a scacchi tra Cina e Stati Uniti.
—
“Il Gruppo dei BRICS, sempre più variegato, non appare in grado di intraprendere azioni concrete ed efficaci per migliorare la governance mondiale, piuttosto segnala... Read More
Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved