Dal 2004, quando il primo istituto è stato inaugurato a Seoul sotto lo sguardo vigile di Hu Jintao, la proliferazione di istituti e classi Confucio si è rivelata inarrestabile raggiungendo ogni angolo del globo. In meno di dieci anni, infatti, l’Office of Chinese Language Council International (conosciuto come Hanban) ha supervisionato l’istituzione di oltre 400 nuovi istituti e 600 classi in più di 100 paesi. La differenza tra istituti e classi sta nel fatto che mentre i primi si collocano all’interno delle università, le seconde vengono invece istituite tramite accordi con scuole di grado inferiore. Proprio questa peculiare strategia di penetrazione delle varie realtà tramite partnership con istituzioni locali può sicuramente essere considerata la causa primaria di un’espansione tanto rapida quanto capillare. Ciò ha infatti permesso di contenere sensibilmente i costi: a titolo esemplificativo basti notare che nel 2009 il budget di Hanban non ha superato il 145 milioni di dollari USA, contro il miliardo di cui ha goduto il British Council.
Nonostante tale sviluppo rappresenti una prova incontrovertibile di quanto il brand dell’ascendente potenza cinese stia facendo sempre più presa a livello globale, la forte interconnessione tra l’Hanban e il Ministero dell’istruzione della Repubblica popolare dà adito a timori e speculazioni.
Analizzando la localizzazione di istituti e classi bisogna innanzitutto chiedersi in che misura quest’ultima sia frutto di una precisa strategia messa in atto a Pechino. Intervenendo sulla questione, la dottoressa Xu Lin, direttore generale di Hanban, ha sottolineato come la Cina, dovendo interagire con le istituzioni locali, non possa decidere unilateralmente l’apertura di nuovi istituti. A tale premessa ha fatto però seguire l’auspicio di un incremento della presenza di istituti nei paesi confinanti. Si può quindi dedurre che la Cina monitori attentamente la mappa globale, mirando ad incentivare la creazione o l’aumento dei propri istituti laddove lo ritenga prioritario. Ciò permette di qualificare la distribuzione globale degli Istituti Confucio non solo come effetto dell’incontro tra domanda ed offerta, ma anche come risultante di un interesse politico specifico.
Passando ai numeri, emerge immediatamente la netta preponderanza dei continenti americano ed europeo, che da soli contano più dei tre quarti del totale. I dati aggregati di istituti e classi mostrano, infatti, come l’America ospiti quasi la metà delle sedi sul totale mondiale mentre in Europa se ne trovano circa 300, ovvero oltre un quarto del totale. Tuttavia altrettanto chiaramente emerge anche una differenza di fondo tra i due continenti: in quello americano la logica prevalente è quella della concentrazione, mentre in Europa prevale una prassi di diffusione. Gli Stati Uniti vantano infatti 97 istituti e 357 classi seguiti dal Canada con 13 e 18 rispettivamente, mentre nell’America centrale e meridionale la presenza è molto ridotta, con pochi centri negli stati più importanti (ad esempio 10 in Brasile) e nessuno in ben 21 paesi. Per contro, l’Europa mostra la massima capillarità, con un istituto in tre paesi su quattro. L
’Occidente risulta dunque la destinazione privilegiata. Ciò potrebbe sembrare una logica conseguenza del suo grado di sviluppo: da un lato, vi è garantita una domanda costituita da giovani altamente istruiti e desiderosi di affacciarsi verso il mondo cinese; dall’altro, vi si trova un contesto favorevole per eventuali spin-off o iniziative estranee al settore dell’istruzione. In effetti, correlando il numero di istituti e classi al Pil dei vari paesi si ottiene un coefficiente di correlazione pari a 0,91. Eliminando però gli Stati Uniti dall’equazione, tale dato cala a 0.57 e appare quindi rilevante, ma molto meno decisivo.
Ma quali altre ragioni spingono Hanban a favorire l’apertura di nuovi istituti all’estero? La crescita dell’interscambio commerciale potrebbe spiegare il loro rapido incremento in Asia centrale, dove a un aumento di oltre 40 volte dei commerci tra 2000 e 2012 sta corrispondendo un rapido fiorire di istituti. Ma questa ipotesi non trova conferma se si considera il caso dell’America meridionale, che nello stesso lasso di tempo ha visto l’interscambio passare da 10 a 200 miliardi di dollari. Il caso dell’Asia centrale potrebbe fare pensare che le risorse rappresentino una spinta decisiva, ma la quasi totale assenza di istituti nella penisola arabica e la scarsità in Africa suggeriscono il contrario. Anche vicinanza e influenza politica non sembrano così decisive. Negli stati confinanti si trova infatti solo il 5,7% degli istituti (ma questo spesso è dovuto a difficoltà nei rapporti bilaterali come nei casi di Vietnam, Corea del Nord o India). Quanto all’influenza politica, non è facile misurarla e in ogni caso, se le relazioni sono tese, alla volontà cinese potrebbe non corrispondere il nulla osta del paese ospitante.
Una costante, tuttavia, esiste e – nonostante possa apparire banale – finora non è mai stata rilevata: la lingua inglese dal 2004 a oggi sembra aver infatti costituito il principale fattore di attrazione. L’anglosfera intesa in senso stretto, ovvero Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia, Irlanda e Nuova Zelanda, conta non solo un terzo degli istituti, ma oltre l’80% delle classi. Verosimilmente ciò deriva non tanto da motivazioni politico-economiche quanto da considerazioni pratiche: Hanban fa evidentemente affidamento sulle crescenti competenze nella lingua inglese tra i cinesi, frutto dell’investimento massiccio compiuto dal paese negli ultimi decenni.
Basato sull’articolo “Gateway to China”, pubblicato in Longitude, No. 35 (February 2014), p. 58-63.
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