I n un recente articolo apparso sul Wall Street Journal si legge che l’espressione “made in Ethiopia” potrebbe un giorno non troppo lontano sostituire la nota formula “made in China”, che proietta l’immagine della Repubblica popolare cinese (Rpc) quale “fabbrica del mondo”. Come noto, anche per l’economia cinese il vantaggio comparato – fattore che modella la geografia delle catene di produzione globale – si sta assottigliando sempre più.
Secondo un rapporto pubblicato nel luglio 2013 da Stratfor Global Intelligence, le economie emergenti che occuperanno il vuoto lasciato dalla Cina, avviata verso un nuovo ciclo economico, sono 16: quattro in America Latina (Messico, Nicaragua, Repubblica dominicana e Perù), otto in Asia (Bangladesh, Cambogia, Indonesia, Laos, Myanmar, Filippine, Sri Lanka e Vietnam) e quattro in Africa (Etiopia, Kenya, Tanzania e Uganda). Noti come i “Post-China 16”, questi paesi presentano alcune similarità con la Rpc che li renderebbero terre d’opportunità economiche promettenti.
Guardando all’Africa, tutti e quattro i paesi indicati si collocano nell’area subsahariana e sono parte della cosiddetta Africa “emergente”. L’immagine (ancora largamente diffusa in Italia) che li rappresentava quali terre aride e condannate alla povertà lascia spazio a una nuova narrazione, che attribuisce alla nascente classe media africana – secondo alcuni già una realtà – un ruolo importante.
In questo scenario l’Etiopia richiede una riflessione a sé. Se è vero che negli anni 2000 la strategia promossa da Pechino verso il continente africano è stata dominata da un’esigenza strutturale di approvvigionamento da parte della Cina di risorse naturali ed energetiche, verso la fine del decennio l’engagement cinese si è diversificato. Da alcuni anni l’interesse cinese si è diretto verso paesi la cui crescita economica non è resource-driven e la cui struttura industriale – in piena fase di sviluppo – offre opportunità di investimento in diversi settori, tra cui spiccano i settori agricolo e manifatturiero. L’Etiopia sembra promettere molto ai suoi investitori: il paese – a cui il 9 maggio 2014 Moody’s ha assegnato il rating B1 per la prima volta nella sua storia –, ha registrato una tasso di crescita superiore al 10% nell’ultimo decennio e le previsioni 2014-2019 stimano un 7% annuo. È il secondo paese più popoloso del continente africano (circa 90 milioni di abitanti) con un mercato interno in espansione; occupa una posizione strategica (“crocevia tra Africa, Medioriente e Asia”) e svolge un ruolo stabilizzatore nel Corno d’Africa. Al regime autoritario del Fronte democratico rivoluzionario d’Etiopia è stata attribuita la capacità di garantire un clima di stabilità interna – non senza violazioni delle libertà politiche e civili della popolazione – favorevole agli investimenti. Questo nonostante il grado di rischio da un punto di vista politico e giuridico resti alto (categoria Ocse 7), come anche la difficoltà nel fare business (per Doing Business 2014 l’Etiopia è al 125mo posto su 189 paesi).
Per questi e altri motivi, la Cina ha accresciuto enormemente negli anni il proprio coinvolgimento in Etiopia: nel 2012 sul totale degli investimenti diretti esteri (Ide) in entrata nel paese, il 12,5% provenivano dalla Rpc (121,56 milioni di dollari; elaborazione su dati del Ministero del Commercio e Unctad) e con la stessa Cina avveniva il 19,54% del totale dello scambio commerciale (2,8 miliardi di dollari; elaborazione su dati Itc). Sempre nel 2012 circa il 60% del capitale cinese investito è stato assorbito dal settore infrastrutturale, in particolar modo trasporti, energia elettrica e idroelettrico. È infatti noto come la Cina stia contribuendo in modo importante alla costruzione della rete infrastrutturale, in particolare alla realizzazione dell’autostrada Addis Abeba-Adama, inaugurata il 5 maggio dal primo ministro etiope Haile Mariam Desalegn e dal suo omologo cinese Li Keqiang. L’engagement cinese in termini economici è tangibile anche considerato il numero di lavoratori cinesi che ogni anno sono impiegati nel paese: solo nel 2012, erano 6.802 secondo fonti statistiche cinesi. Si tratta di numeri molto significativi, tra i più elevati dell’Africa “emergente” a sud del Sahara, anche se inferiori all’Algeria dove sono di stanza oltre 40.000 lavoratori cinesi oppure all’Arabia Saudita (35.579) e persino al vicino Sudan (12.064).
“Se i cinesi sono presenti e vi investono da oltre un decennio, significa che il paese offre grandi opportunità economiche da cogliere” – argomentano diversi interlocutori italiani, per lo più del ramo imprenditoriale. Opportunità che Pechino intende massimizzare anche attraverso l’Eastern Industrial Zone, la zona economica speciale (Zes) per il 100% di proprietà cinese, ma aperta a investitori da tutto il mondo. Espressione diretta della politica “Go Global” (zouchuqu, 走出去) della Rpc, la Zes è stata istituita al fine di sfruttare al meglio la molteplicità di opportunità offerte dal settore manifatturiero etiope, dove convogliare il 26% degli investimenti cinesi nel paese. Ubicata a circa 32 km da Addis Abeba, la Zes è oggi operativa (dopo alcuni rallentamenti nella fase di costruzione avviata nel 2006). Tra le 19 aziende che operano all’interno della Zes vi è Huajian Group, attivo nel settore delle calzature e che ora intende investire oltre 2 miliardi di dollari per creare un’altra zona industriale esclusivamente dedicata alla produzione di scarpe. L’obiettivo, nelle parole di Taddesse Haile, ministro dell’Industria, è fare dell’Etiopia un centro mondiale per la produzione tessile. Non solo: diverse multinazionali – Heineken, KFC e Unilever – operanti nel settore dei beni di consumo, soprattutto food & beverage, hanno già trasferito parte della produzione in Etiopia. Oggi l’Etiopia, nelle parole dei suoi leader, guarda alla Cina quale esempio positivo di sviluppo per una transizione di successo da paese a basso reddito a uno a medio reddito entro il 2020, obiettivo stabilito dal piano quinquennale approvato dal governo etiope nel 2010. Fin dalla sua fondazione nel 1991, la Repubblica federale e democratica di Etiopia, soprattutto nella persona di Meles Zenawi, ha guardato con favore alla Cina avviando una fase di cordialità e cooperazione nelle relazioni diplomatiche ed economiche. Nei trent’anni precedenti – quando l’Etiopia era guidata da Hailé Selassié prima (1930-1936 e 1940-1974) e Mènghistu Hailè Mariàm poi (1974-1991) e le relazioni internazionali erano dominate dalla logica della guerra fredda – i rapporti tra i due paesi erano stati mutevoli e complessi. Come ricorda David H. Shinn, ex ambasciatore Usa in Etiopia, dal 1949 la Rpc ha però dedicato uno sforzo politico “speciale” all’Etiopia, a dispetto delle difficoltà di contesto. Sforzo di cui si intravvedono oggi i primi frutti.
L’autrice sta conducendo un progetto di ricerca sull’engagement politico ed economico cinese in Etiopia e sulle implicazioni che questo comporta per gli interessi italiani nel paese. A tal fine, sono in corso interviste di ricerca con rappresentanti istituzionali e imprenditoriali del sistema Italia, sia in Italia sia in Etiopia. Gli esiti del lavoro di ricerca saranno pubblicati nell’autunno 2014.
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