Fino agli anni ’80 del Novecento Pudong era un’immensa risaia. Poi nel 1990 l’area fu destinata a zona di attrazione degli investimenti stranieri, e con il famoso viaggio a sud (nanxun) di Deng Xiaoping nel 1992 Pudong divenne simbolo e vetrina del rilancio delle riforme e dell’apertura in Cina dopo la quarantena post-Tiananmen imposta internamente dall’ala conservatrice del Partito e, sul piano internazionale, dall’Occidente. Oggi Pudong ospita il centro finanziario di Shanghai e i più alti e spettacolari grattacieli cinesi. Non stupisce quindi che qualsiasi intervento pubblico che riguarda Pudong si presti ad apparire metafora e messaggio cifrato di azioni di governo di più ampio respiro a livello nazionale, così come catalizza l’attenzione delle maggiori potenze economiche mondiali.
Una risonante fanfara ha accompagnato l’inaugurazione, lo scorso 29 settembre, della China (Shanghai) Pilot Free Trade Zone (Sftz), la zona sperimentale di libero scambio di 28 chilometri quadrati che comprende in realtà quattro distretti tra loro separati: la zona logistica di Waigaoqiao, il Shanghai Waigaoqiao Bonded Logistics Park, l’area portuale di Yangshan, e l’aeroporto internazionale di Pudong.
Benché la Sftz sia stata pubblicizzata come la prova generale di una nuova era di liberalizzazioni commerciali, al momento del suo lancio la retorica non è supportata dalla realtà giuridica: la lista dei settori di prodotti e servizi vietati all’interno della zona comprende più di 1.000 voci, e per ora i sei settori immediatamente aperti agli investimenti sono rappresentati dai servizi finanziari, dai servizi navali, da alcuni servizi commerciali (ad esempio, telecomunicazioni ad alto valore aggiunto), professionali (come servizi legali e di consulenza finanziaria), culturali e sociali (nell’istruzione e nella sanità). Bisognerà attendere quindi i regolamenti attuativi per comprendere la reale portata del progetto. Per ora l’interesse dei grandi gruppi rimane vigile ma tiepido: se, da un lato, i prezzi immobiliari nelle aree selezionate (e in quelle adiacenti) sono andati alle stelle, gli edifici sono tutti stati venduti, e i corsi azionari delle aziende dei settori per ora ammessi nella Sftz sono triplicati, dall’altro, Citigroup resta l’unica banca Usa ad essersi insediata nella zona.
Conoscendo la realtà cinese, molti imprenditori si chiedono se la Sftz costituirà anche l’occasione per sfoltire l’intricato groviglio di procedure e permessi amministrativi che rendono spesso costoso e difficoltoso investire in Cina: finché questo interrogativo non sarà sciolto, la cautela è d’obbligo. Nell’economia digitale del XXI secolo, inoltre, non ha più senso parlare di libero commercio senza la libertà digitale: Pechino è disposta a permettere nella zona l’accesso a Twitter, Facebook e al New York Times? Come riporta il Financial Times, all’annuncio di liberalizzazione digitale dato dal South China Morning Post ha fatto immediato seguito la smentita ufficiale del Quotidiano del Popolo. L’incertezza complessiva permarrà probabilmente fino al Plenum del Comitato centrale di novembre, quando sarà più chiara la direzione scelta dal governo per la politica economica dei prossimi anni: la stessa assenza del premier Li Keqiang (uno dei più ardenti sostenitori della Sftz) alla cerimonia inaugurale della zona può significare che le carte non sono ancora tutte state scoperte e non c’è ancora un vincitore al tavolo da gioco. Alcuni analisti, come Henry M. Paulson, ex Ministro del Tesoro di George W. Bush, sono ottimisti sugli intenti riformistici del governo cinese, poiché (1) i leader hanno compreso appieno che il modello di crescita va cambiato; (2) il gruppo dirigenziale al potere è sufficientemente forte per premere l’acceleratore del cambiamento; (3) in un contesto globale di insicurezza economica, non ci si può più concedere il lusso di ritardare le riforme interne, necessarie per iniettare nuova linfa nell’economia cinese; (4) le aspettative della pubblica opinione sono molto elevate e non possono essere tradite senza pagare un dazio significativo in termini di stabilità sociale.
Forse la grande novità e il vero segnale di una possibile svolta epocale della Sftz stanno nella liberalizzazione dei servizi finanziari: è da qui che probabilmente partirà un giorno l’allentamento dei controlli sui tassi d’interesse – che, come noto, hanno tradizionalmente penalizzato il risparmio interno – e la completa convertibilità del renminbi (Rmb): le uniche due riforme che potrebbero lanciare la Cina al centro della finanza e del sistema monetario mondiali.
Pare se ne siano accorti i conservatori inglesi, molto sensibili per tradizione imperiale a percepire il tramonto delle egemonie e l’alba di una nuova era: il recente viaggio a Pechino del sindaco di Londra, Boris Johnson, e del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne è un chiaro segnale in tal senso. Secondo le dichiarazioni rilasciate durante la missione, Londra è pronta a investire nella zona, a fare diventare la City il centro mondiale dell’emissione e dello scambio di strumenti finanziari denominati in Rmb, e ad accogliere investitori cinesi nel Regno Unito, promettendo anche di ridiscutere a Bruxelles l’assetto ipertrofico della burocrazia comunitaria. Le profferte britanniche sono state tanto accorate da spingere un giornale liberal come The Guardian a definire “supplicante” l’atteggiamento del governo britannico.
In un lungo articolo sul China Daily Roger Gifford, il sindaco della City, ha ricordato come, per stabilire un circuito virtuoso tra Pechino e Londra, sia necessario che i servizi finanziari prodotti o veicolati nella Sftz vengano offerti anche all’esterno – in ciò replicando l’effetto di spillover che caratterizzò le zone economiche speciali degli anni ’80 – e che le aziende diventino consapevoli della possibilità di emettere fatture in Rmb.
Il successo della Sftz potrebbe anche segnalare la fine del dibattito – in voga soprattutto negli anni ’90 – sul declino di Hong Kong e sulla corrispondente ascesa di Shanghai come hub finanziario: secondo Raymond Yeung, un analista del gruppo bancario ANZ, c’è complementarietà tra i due centri, che si reggono su sistemi giuridici diversi, hanno una diversa proiezione geografica, e registrano una diversa capacità di elaborare prodotti finanziari ad alto valore aggiunto. Yeung ritiene che l’ascesa di Shanghai non oscurerà Hong Kong, così come la City – avendo ceduto da tempo il primato a Wall Street in termini di capitalizzazione del mercato azionario – è rimasta il primo mercato per lo scambio valutario: il sottinteso è che Londra non si lascerà sfuggire l’occasione di agganciarsi – tramite Hong Kong – alla rinascita cinese sulla scena finanziaria globale.
Un solo commento finale, in termini di discorso sulla globalizzazione: non si comprende davvero perché il termine “riforme” sia ormai equiparato ovunque a “liberalizzazione”, come se non fosse stato proprio l’eccesso di liberalizzazione e di complessità degli strumenti finanziari derivati ad allontanarci dall’economia reale e a trascinarci in una Grande recessione di cui non si intravede ancora una fine sostenibile. Il rischio è invece che la crisi del debito americano acceleri il passaggio del testimone a un nuovo egemone, accompagnato ancora una volta – come gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra – dalla Gran Bretagna, sulla quale davvero – in termini di influenza delle idee economiche liberali, di forza degli interessi e di potere di condizionamento dei flussi finanziari globali – sembra non tramontare mai il sole.
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