Prima o poi doveva accadere: a ottobre in Cina il tasso di inflazione ha raggiunto, su base annua, il 4.4% (a fronte di un obiettivo previsto del 3%), il livello più elevato degli ultimi venticinque mesi, causando anche un crollo della borsa di Shanghai. L’ascesa dell’inflazione è dovuta soprattutto all‟aumento dei prezzi alimentari (+10,1% annuo), che costituiscono un terzo dell’indice dei prezzi al consumo. Ciò ha un profondo significato politico: poiché le spese per il cibo rappresentano in media la voce principale del bilancio delle famiglie cinesi, un loro aumento può alimentare lo scontento sociale, e dar quindi luogo a proteste e disordini. A causa della pessima stagione del raccolto (dovuta a inondazioni e a siccità, a seconda delle regioni), in Cina quest’anno c’è scarsità di riso, grano, zucchero, prodotti ortofrutticoli…
In vista dell’annuale “Central Economic Work Conference” (Pechino, 10-12 dicembre), in cui le più alte cariche dello stato discutono delle questioni monetarie e macroeconomiche, le autorità hanno adottato misure volte a porre sotto controllo l‟inflazione e a scoraggiare la speculazione sui prezzi. La banca centrale ha aumentato per ben due volte la quota delle riserve obbligatorie per le banche (portandola al 18%), per costringerle a ridurre il credito: infatti, secondo il Financial Times, l’obiettivo di mantenere il livello dei prestiti nel 2010 entro i 7.500 miliardi di yuan (contro i 9.600 miliardi registrati nel 2009) non sarà rispettato, avendo le erogazioni già raggiunto i 6.900 miliardi nei primi dieci mesi di quest’anno (senza contare il peso della “finanza informale” che sfugge ai controlli). I tassi di interesse a un anno sui prestiti e sui depositi sono aumentati per la prima volta dal 2007 (dal 5,31% al 5,6% e al 2,25% al 2,5% rispettivamente). Gli autocarri che trasportano prodotti agricoli sono stati esentati dal pagamento del pedaggio autostradale. Le esportazioni dei fertilizzanti sono state limitate. Il governo ha invitato le amministrazioni locali ad alzare la guardia contro incette sospette di beni di consumo, ha introdotto sussidi per le famiglie più povere, ha immesso sul mercato scorte statali di derrate alimentari, e non ha escluso controlli amministrativi sui prezzi.
Già nel 2008 l’autorevole Barry Naughton segnalava in un articolo la “trappola triangolare” in cui rischia di finire il governo quando deve ridurre l‟inflazione, che storicamente in Cina è vista come un segno di uno stato debole e incapace di garantire l’ordine. Il governo centrale “oscilla” tra tre diverse misure: una stretta monetaria e fiscale; l’apprezzamento dello yuan; i controlli sui prezzi. Attualizzando il concetto, se il paese deve continuare a crescere, la politica monetaria non può essere eccessivamente rigida; l’apprezzamento dello yuan – ulteriormente rafforzato dalla massiccia immissione di liquidità (quantitative easing) che sta attuando la Banca federale americana – non solo è già in corso (il valore dello yuan, su base annuale, è aumentato del 6% contro il dollaro da giugno) mentre la banca centrale desidera una maggiore stabilità della moneta, ma potrebbe addirittura rafforzare le spinte inflattive, se avesse come effetto una massiccia ondata di investimenti in yuan attratti da una maggiore redditività del capitale; infine, il controllo dei prezzi è una misura che allontanerebbe la Cina dallo status di economia di mercato che il paese vuole vedersi riconosciuto dai paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) prima del 2016 (anno della scadenza della clausola Omc che definisce la Cina una non-market economy in materia di applicazione di dazi antidumping).
Inoltre, come sottolinea Michael Pettis in un provocatorio intervento sul suo blog, in un paese con un sistema finanziario represso non è detto che il rialzo dei tassi di interesse porti a un contenimento dell’inflazione. Secondo l’autore, il vero motivo del rialzo dei tassi starebbe nella necessità, ben nota alla banca centrale cinese, di riallocare in maniera efficiente il capitale (dalle banche e dalle imprese alle famiglie), poiché gli squilibri dell’economia cinese (malgrado le tante rassicurazioni ufficiali) stanno continuando a crescere. Per ottenere un riequilibrio, il rialzo dei tassi dovrebbe essere molto più elevato di quanto le autorità monetarie sembrano disposti a fare. Se ha ragione Pettis, prima o poi un intervento drastico sarà necessario: potranno (e vorranno) i nuovi capitalisti cinesi sopportarne l’impatto?
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