L’omosessualità nel cinema cinese: contraddizioni e prospettive

Il primo riferimento all’omosessualità nella letteratura cinese si riscontra nell’espressione “ricercare l’intimità dei favoriti” (bǐ wán tóng, 比玩童), una delle trasgressioni fatali alla famiglia e allo Stato citate nella Esortazione di Yi (Yī xùn, 伊训), un capitolo probabilmente redatto nel IV secolo a.C. dello Shāngshū 商书, la sezione dedicata alla storia della dinastia Shang nel Libro dei documenti (Shūjīng, 书经). Strettamente legato a tale espressione e concetto sarà il termine che più frequentemente indicherà l’amore omosessuale maschile dopo la dinastia Han, ovvero luántóng  (娈童), giovane favorito di un principe. Nella Cina imperiale, l’omosessualità maschile (i riferimenti a quella femminile sono rari e poco espliciti) è descritta come pratica comune, ma per lo più ricondotta a rapporti di sudditanza o al mondo della prostituzione, soprattutto all’interno di ambienti letterari e teatrali. In entrambi i casi, il rapporto tra signore e favorito o quello tra gentiluomo e attore, erano da intendersi in termini prettamente gerarchici: non si trattava di “amore”, ma piuttosto dell’affermazione di una superiorità in campo sociale ed economico da parte di esponenti dei ceti più abbienti e dotati di maggior prestigio.

I documentari del regista e attivista Fan Popo riprendono, senza filtri, alcuni temi trattati in questo numero di OrizzonteCina: primo tra tutti quello dei rapporti tra giovani individui LGBTQ e i loro genitori, e di come questi nuclei familiari possano arrivare a sfidare i preconcetti delle società occidentali legati al presunto monolitismo della cultura familiare tradizionale in Cina.

Questo genere di rapporti è ben rappresentato nel celebre film del 1993 Addio mia Concubina (Bàwáng bié jī, 霸王别姬) diretto dal celebre regista Chen Kaige e ambientato però in epoca successiva al crollo dell’Impero (la storia ha inizio nel 1925). A partire dalla dinastia Qing (1644-1911), alle donne fu proibito frequentare il palcoscenico, così i ruoli femminili (dàn, 旦, nell’Opera di Pechino) finirono per essere interpretati esclusivamente da attori di sesso maschile. Douzi (nome di scena Cheng Dieyi, la concubina), da sempre innamorato del suo compagno di palcoscenico Shitou (nome di scena Duan Xiaolou, il re di Chu) è costretto a “vendere il proprio corpo” ad un ricco signore fin dalla più tenera età: “La tradizione dell’opera vuole che la concubina soccomba in un modo o nell’altro” sentiamo pronunciare mentre il ragazzino viene affidato alle mani del suo carnefice. A partire da questo momento l’amore omosessuale di Cheng Dieyi per Duan Xiaolou è narrato dal regista attraverso una sorta di ritualizzazione: spettacolo e realtà si confondono fino a sovrapporsi nella scena del suicidio finale.

La maniera apparentemente disinvolta con cui gli storici cinesi trattarono gli episodi di amore omosessuale incentrati intorno alla figura del sovrano non è tanto il portato di un atteggiamento omofobo ma esprime piuttosto una totale indifferenza: che l’imperatore avesse amanti maschi e femmine (entrambi riconducibili ad un’unica categoria, quella di pǐ, 癖, o “propensioni, inclinazioni”, senza connotazioni di genere) era cosa risaputa e accettata fintanto che queste relazioni non rischiavano di mettere in pericolo lo Stato. Da un certo punto di vista tale modus vivendi non si discosta poi molto da quello attuale. Se consideriamo la famiglia nel senso confuciano del termine (solo relazioni familiari ordinate e gerarchizzate possono garantire l’armonia sociale), allora il nucleo familiare diventa il microcosmo di una società in cui, nel migliore dei casi, l’omosessualità non viene contestata in quanto tale, ma in quanto ostacolo al matrimonio finalizzato alla procreazione.

Il concetto di pietà filiale (xiàoshùn, 孝顺) è ancora oggi saldamente radicato come virtù fondamentale e parte integrante della concezione cinese della famiglia e della società. Non adempiere ai propri doveri filiali, tra cui quello del matrimonio, genera un persistente senso di colpa tanto che molte persone omosessuali, pur accettando il proprio orientamento, percepiscono la loro diversità come un tradimento nei confronti dei genitori e preferiscono scendere a compromessi piuttosto che uscire allo scoperto facendo coming out. Il compromesso consiste spesso in un matrimonio di facciata. In questo modo, agendo secondo la morale prescritta, non viene pregiudicata la loro reputazione né quella della loro famiglia e pertanto essi stessi e la propria famiglia non “perdono la faccia” (diūmiànzi, 丢面子). Fino a qualche tempo fa, il matrimonio di copertura era essenzialmente quello con un partner eterosessuale ignaro delle tendenze sessuali del proprio coniuge. Questo fenomeno si è diffuso a tal punto che per indicare le donne eterosessuali sposate a uomini gay si è adottata la parola tóngqì (同妻, “moglie omo”).

In anni recenti invece, soprattutto tra gli omosessuali dell’ultima generazione, anche grazie ad alcune app e siti di incontri che lo facilitano, si è diffuso il cosiddetto “matrimonio cooperativo”, in cui entrambi gli elementi della coppia sono gay. In realtà il problema della pressione famigliare è di più ampio respiro e coinvolge l’intera società. Poiché l’etica sociale cinese prevede che ci si sposi entro i trent’anni, i giovani che non hanno trovato il proprio partner sono spesso costretti a mentire e, per far fronte alle pretese dei familiari c’è chi improvvisa una compagna o un compagno da mostrare ai genitori nel momento del bisogno. Questo è il caso di uno dei protagonisti del film The Night (Yè, 夜) del regista indipendente Zhou Hao, presentato al Festival di Berlino nel 2014 e vincitore del Dong Film Fest nel 2016: una storia di gioventù allo sbaraglio che trascorre le proprie nottate in un vicolo anonimo di una non meglio identificata metropoli cinese. Senza radici e senza prospettive, i protagonisti sono costretti a vendere il proprio corpo. In un attimo di folle lucidità il ragazzo (Gardenia) propone alla sua collega (Narciso) di prestarsi a essere presentata ai genitori come la propria compagna. Questo a dimostrazione che la pressione legata al matrimonio si espande a macchia d’olio nell’intera società cinese.

Fu soprattutto a partire dal 1949 che l’atteggiamento nei confronti dell’identità di genere e il triangolo famiglia-matrimonio-riproduzione divennero sempre più rigidi, con il risultato che l’omosessualità cominciò ad essere definita “estranea alla cultura e alla tradizione cinesi”. Ancora una volta è necessario però fare una riflessione sull’intera società. Dopo il 1949 infatti, il ruolo del singolo individuo nella società è interamente subordinato alla necessità collettiva di costruire la nuova grande nazione cinese. In quest’ottica è facile comprendere come lo spazio per l’espressione delle diverse identità di genere fosse non solo limitato, ma addirittura inesistente. Nel 1950 il governo emanò una prima, fondamentale normativa a favore della parità tra i sessi. La cosiddetta “legge del matrimonio dei cittadini della Repubblica popolare cinese” aboliva i matrimoni combinati previsti da vecchi codici feudali e caratterizzati dalla totale disparità tra uomo e donna e sanciva eguali diritti per ambedue. Paradossalmente però, proprio nel momento in cui a livello legislativo e giuridico la condizione femminile pareva migliorare, la donna vedeva di fatto la propria autonomia e identità affievolirsi, mentre veniva del tutto rimossa nell’immaginario collettivo la sfera della sessualità.

Nel cinema cinese, la figura della donna fino ad allora costruita dall’occhio maschile dietro la cinepresa come un oggetto da ammirare e concupire, spesso ridotta a feticcio di sensuale pregnanza, viene drasticamente ribaltata, trasformata in un’icona che incarna la propaganda del Pcc sullo sfondo dei vessilli della patria riguadagnata. Tuttavia lo sguardo maschile è ancora dominante: l’autorità patriarcale ha cambiato volto, ma non del tutto sostanza. Nell’ambito cinematografico l’avvento del comunismo ha contribuito a destrutturare la già precaria identità femminile e a ricondurla interamente nell’alveo della sovranità maschile: basti pensare all’attrice Xie Fang, i cui personaggi sono plasmati sull’immagine dell’eroina patriottica Hua Mulan e, anche dal punto di vista fisico, vestono sempre più in modo androgino man mano che politicamente abbracciano le idee del Partito, che li forma e li modella nel corpo e nella mente. Se persino le donne perdono le propria specificità e la loro identità, non rimane certo alcun margine per narrare l’omosessualità. Anzi, questa è utilizzata spesso e volentieri come strumento per screditare avversari politici accusati di immoralità e collusione con i valori corrotti dell’Occidente.

Solo nel periodo successivo alla Rivoluzione culturale si assiste ad un lento ma progressivo miglioramento della condizione delle comunità LGBTQ cinesi. A metà degli anni Ottanta viene abolita la legge del 1956 che condannava l’atto omosessuale e si stabilisce che chi viene accusato di sodomia sia perseguibile solo in “circostanze riprovevoli”; nel 1997 invece viene totalmente rimosso il reato di sodomia, con il risultato che la persecuzione legale e l’oppressione degli omosessuali, a detta degli attivisti cinesi, diminuiscono notevolmente. Ma è solo nel 2001 che l’associazione degli psichiatri cinesi ha cancellato l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. Nonostante le numerose conquiste dell’era delle riforme, nella società permane tuttavia un atteggiamento non di rado discriminatorio. Mentre a metà degli anni Novanta nascono i primi locali gay in grandi città come Shanghai e Pechino, nel 2008, in occasione delle Olimpiadi di Pechino, si assiste nuovamente ad arresti, retate, minacce e chiusura di buona parte dei suddetti locali. Mentre nel 2001 all’Università di Pechino viene organizzata la prima edizione del Beijing Queer Film Festival, nel 2005 la stessa Università si rifiuta di ospitare la seconda edizione che viene spostata dal regista e attivista Cui Zi’en nel distretto artistico 798 di Pechino.

Sarà Cui Zi’en, classe 1958, a dare il via ad un vero e proprio cinema queer cinese con la sua opera del 2002 Enter the Clowns (Chǒujiǎo dēngchǎng, 丑角登场) che sottolinea in maniera del tutto nuova come il modello dominante dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale sia ormai sbagliato e superato. I suoi lavori successivi mantengono intatta questa prospettiva ma si spingono al di là della rappresentazione dei singoli personaggi omosessuali. Ciò che interessa il regista va ben oltre l’omosessualità, ormai mero strumento per destrutturare le fondamenta della società cinese. Lo si può cogliere in modo esplicito nella trilogia girata tra il 2004 e il 2005: Withered in a Blooming Season (Shàonián huācǎo huáng, 少年花草黄), Refrain (Fùgē, 副歌) e My Fair Son (Wǒ rúhuā sì yù de érzi, 我如花似玉的儿子) che tematizza la degenerazione e la decadenza dell’istituzione familiare. Con l’avvento al potere di Deng Xiaoping nel 1978, la società cinese si vede costretta a mutamenti improvvisi: “La Cina della Rivoluzione Culturale e la Cina di oggi potrebbero essere paragonate all’Europa del Medioevo e a quella contemporanea, a un europeo servirebbero quattrocento anni per sperimentare due epoche tanto antitetiche, mentre ai cinesi ne sono stati sufficienti quaranta”, afferma Yu Hua in La Cina in dieci parole (Shí gè cíhuì zhōng de Zhōngguó, 十个词汇中的中国). Tale trasformazione investe anche la struttura familiare: divorzi (Withered in a Blooming Season), abbandoni (Refrain) o genitori costretti ad andare a lavorare lontani da casa (My Fair Son) sono eventi traumatici ormai all’ordine del giorno. Ne consegue che molti bambini crescono con un unico genitore o con i nonni. Da analoga situazione prende l’avvio la trilogia di Cui Zi’en. Quest’ultimo sottolinea l’importanza di costruire nuovi rapporti interpersonali per lasciarsi alle spalle la vecchia morale: il dolore dovuto al distacco e alla separazione dalla propria famiglia e dal proprio paese può essere superato solo attraverso la solidarietà degli amici e dei partner. Ecco allora che alla centralità della famiglia si sostituisce quella della coppia, senza differenze di genere né di orientamento sessuale. Questa metamorfosi della società trova corrispondenza nella destrutturazione del linguaggio cinematografico: continui campi lunghi privi di profondità, illuminazione soffusa, ambienti claustrofobici e uso della camera a mano per costruire immagini ‘traballanti’ che sottolineano anche a livello estetico la sua sfiducia nella Cina contemporanea.

Punto di riferimento delle comunità LGBTQ di ultima generazione è l’attivista e regista Fan Popo, classe 1985, la cui opera più significativa, Mama Rainbow (Cǎihóng bàn wǒ xīn, 彩虹伴我心) del 2012 può essere letta come una sorta di manifesto o, meglio ancora, come una lettera aperta alla società e al governo. Il lavoro consiste nella raccolta di sei storie narrate da madri di ragazzi/e omosessuali provenienti da tutto il paese che raccontano la propria esperienza di accettazione dell’orientamento sessuale dei figli. Il lavoro è stato fatto in collaborazione con PFLAG China, acronimo di Parents and Friends of Lesbians and Gays (Tóngxìngliàn qīnyǒu huì, 同性恋亲友会), un’associazione che ha lo scopo di promuovere il dialogo tra gli omosessuali cinesi e i propri genitori, argomento spinoso e molto sentito dalle comunità gay visto il ruolo fondamentale svolto dalla famiglia. Nel film colpisce l’assenza di genitori contrari all’omosessualità dei figli. Parlando con Fan Popo si scopre però che questa scelta narrativa non è stata voluta ma imposta dalle condizioni sociali vigenti: non è stato infatti possibile dialogare in alcun modo con le famiglie più conservatrici e di conseguenza sono emerse solo le testimonianze di maggior apertura.

Nella Cina continentale, i film a tematica omosessuale sono legati principalmente al cinema indipendente e cioè a registi che lavorano e producono al di fuori del sistema degli studi cinematografici nazionali (Zhang Yuan, Li Yu, Cui Zi’en, Fan Popo, ecc.). La situazione è molto diversa a Hong Kong e Taiwan, dove le stesse tematiche compaiono già nei film di genere a partire dalla fine degli anni Novanta. Ne sono chiari esempi Happy Together di Wong Kar-wai (1997) e Lan Yu di Stanley Kwan (2001). Quest’ultimo caso è molto interessante: non si tratta solo di una coproduzione Cina-Hong Kong (il film è stato prodotto da Zhang Yongning), ma è un’opera che mette in evidenza alcune problematiche tipicamente cinesi. Innanzitutto il rapporto mai risolto tra città, rappresentata qui dal ricco Chen Handong, e campagna, impersonata da Lan Yu. Si tratta di una dicotomia ancora presente, che investe anche le comunità LGBTQ: è del tutto fuori discussione che una persona omosessuale proveniente da una zona rurale del Paese possa sentirsi integrata in un locale gay di Shanghai e Pechino. In questo modo si creano ulteriori distanze e fratture anche all’interno delle varie comunità LGBTQ. Il film in questione è tratto dal libro Beijing Story che ha conquistato i lettori di tutto il mondo, pur rimanendo in patria un testo clandestino e presente solo in rete.[1] L’autore infatti rimase anonimo e si firmò tóngzhì, 同志, letteralmente “compagno”, termine che viene ora utilizzato per indicare le persone LGBTQ.

Nonostante alcuni episodi di maggior apertura come la proiezione nei cinema mainstream del primo film a tematica LGBTQ, Seek McCartney di Wang Chao nel 2015, tra il 2016 e il 2017 si assiste al progressivo irrigidimento della censura cinese. Agli attivisti del movimento LGBTQ cinese non resta che rifarsi ironicamente alla celebre esortazione del padre della nazione cinese Sun Yat-sen ai propri seguaci: “La rivoluzione non è ancora avvenuta, i compagni devono continuare ad impegnarsi!”.

[1] Beijing Story (Beijing Gushi, 北京故事) è un romanzo autobiografico scritto da un autore anonimo, presumibilmente tra il 1996 e il 1997.

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