Il 2010 è stato probabilmente l’anno peggiore per la diplomazia cinese dal 1989. I rapporti con tre partner cruciali – Unione Europea, Giappone e Corea del Sud – sono peggiorati a causa di una serie di crisi non ancora del tutto risolte, mentre quelli con gli Stati Uniti rimangono ambivalenti, complicati strutturalmente dagli squilibri del sistema economico internazionale e dalla progressiva riconfigurazione dell’equilibrio geopolitico nel Pacifico occidentale.
Già danneggiate dal fallimento della Conferenza Onu sul cambiamento climatico di Copenaghen, le relazioni sinoeuropee hanno subìto un deterioramento ulteriore all’indomani del fallimentare vertice bilaterale dell’ottobre scorso. A questo difficile quadro diplomatico si associa una latente diffidenza del pubblico europeo verso la Repubblica popolare cinese (Rpc), come emerge dal più recente sondaggio del Pew Global Attitudes Project. Un discorso analogo vale per i cittadini giapponesi e coreani, con l’aggravante che l’indice di gradimento nei confronti della Cina non è soltanto molto basso (26% e 38% rispettivamente), ma in continuo calo. A deteriorare l’immagine della Rpc agli occhi di giapponesi e coreani sono stati le rivendicazioni territoriali cinesi nel Mar della Cina orientale e il sostegno fornito alla Corea del Nord all’indomani dell’affondamento di un vascello della marina sudcoreana nel marzo scorso.
Hanno forse ragione gli osservatori più pessimisti che ritengono ormai archiviata la peaceful rise cinese?
I vertici politici della Rpc parlano di “ascesa pacifica” per descrivere l’approccio con cui intendono gestire il ritorno della Cina a una posizione di primato in Asia e la sua nuova centralità globale. Non significa però che danno per scontato l’esito del processo, né che intendono rinunciare agli strumenti più tradizionali di politica di potenza. E in effetti lo scenario strategico regionale è in rapida evoluzione, non solo nel campo degli armamenti (la Cina è seconda solo agli Stati Uniti per le spese nel comparto Difesa), ma anche delle dottrine strategiche.
Nell’ambito della difesa, l’inizio del 2011 appare in continuità con il crescendo di clamore registrato nelle ultime settimane dell’anno scorso da una serie di sviluppi inattesi. A dicembre si è diffusa la notizia che Pechino progettava il varo della prima portaerei cinese, evento ora atteso per la fine di quest’anno. Negli stessi giorni l’ammiraglio statunitense Robert Willard, a capo del Comando per il Pacifico, ha affermato che le forze armate cinesi potevano già contare su un missile balistico anti-nave, il DF-21D, già collaudato e nelle prime fasi di operatività, capace di colpire vascelli in movimento a oltre 2.000 Km di distanza (molto di più del raggio di azione dei bombardieri eventualmente imbarcati sugli stessi vascelli).
In questo già delicato contesto la missione a Pechino del Segretario alla Difesa Usa Robert Gates – la prima dal 2007, preparata con l’obiettivo di stimolare la fiducia reciproca anche in preparazione alla visita del Presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti questa settimana – è stata oscurata dall’inaspettato test di quello che potrebbe essere il primo caccia “invisibile” prodotto fuori dagli Stati Uniti. Il fatto che il test di volo sia avvenuto poche ore prima del colloquio bilaterale tra Gates e Hu Jintao e che il Presidente cinese fosse apparentemente ignaro di questa coincidenza di tempi non ha certo contribuito a mitigare l’inquietudine di Washington sulla reale efficacia della catena di comando civile a Pechino.
Non tutti i progressi compiuti dalla Rpc nella produzione di armamenti sempre più sofisticati sono egualmente suscettibili di alterare il panorama della sicurezza regionale. Il varo della portaerei – in realtà un restyling di un vascello sovietico mai ultimato e acquisito dall’Ucraina dopo la dissoluzione dell’Urss – non costituisce in sé una minaccia, quanto una mossa volta a riaffermare la volontà di Pechino di proiettare le proprie forze in futuro anche in teatri extra-regionali. Molto più immediati sono i costi imposti alla marina statunitense dai notevoli progressi compiuti dall’industria militare cinese nella produzione di dispositivi di sea denial (volti, cioè, all’interdizione di uno spazio marittimo a unità avversarie), in particolare sottomarini capaci di eludere la sorveglianza altrui – inclusa quella delle squadre navali di Washington – e nello sviluppo di strumenti offensivi in campo missilistico e cibernetico. Gli esperti pongono l’accento sulla rapidità dei progressi compiuti dagli ingegneri della Rpc, misurabili anche in termini di profittabilità delle aziende del comparto militare, brevetti depositati e livelli educativi in seno alle forze armate. Se questa dinamica dovesse continuare, è lecito attendersi che l’ancor ampia forbice che separa la Cina dalle potenze più avanzate in campo tecnologico si riduca nettamente nel prossimo decennio.
Il relativo insuccesso di Pechino nel rassicurare i paesi vicini circa i propri obiettivi geopolitici di medio-lungo termine contribuisce a spiegare gli elementi di simmetria riscontrabili nelle nuove dottrine strategiche nazionali elaborate, in rapida successione, da diversi paesi della regione. I casi più emblematici sono quelli dell’Australia e del Giappone, due alleati-chiave di Washington, ma intimamente legati alla Cina da articolati rapporti commerciali e finanziari. Seppure con vari caveat, sia Canberra, sia Tokyo – rispettivamente nel maggio 2009 e nel dicembre scorso – hanno di fatto indicato nei propri concetti strategici la Cina quale potenziale minaccia per la sicurezza nazionale.
In Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030, il governo australiano ha posto l’accento sull’espansione delle dotazioni militari delle principali potenze della regione e sul rischio conseguente che si aggravino i dilemmi di sicurezza e che si incorra in errori di valutazione che possono provocare anche gravi incidenti, data anche la mancanza di meccanismi di prevenzione. Alle forze australiane è richiesto di operare anche oltre il proprio “teatro d’azione primario” (il territorio nazionale).
In effetti, Canberra ha avviato una massiccia acquisizione di armamenti, che include – secondo il Military Balance 2010 dell’International Institute for Strategic Studies – il raddoppio del numero di sottomarini e il varo di otto nuove fregate. Estremamente significativa anche la recente decisione del governo australiano di intensificare la cooperazione con gli Stati Uniti. I colloqui bilaterali su difesa e sicurezza AUSMIN che si sono svolti a Melbourne nel novembre scorso prevedono un numero crescente di visite ed esercitazioni congiunte, nonché un accesso facilitato alle basi australiane per le forze Usa. Il punto è cruciale, data la pressione cui Washington è sottoposta affinché riduca il profilo di basi cruciali come quella giapponese di Okinawa.
Il governo giapponese non può, da parte sua, rinnegare completamente gli impegni assunti con l’elettorato dal Democratic Party of Japan (Dpj), il partito di maggioranza relativa, salito al potere nel 2009, prevalendo per la prima volta nel secondo dopoguerra sul conservatore Liberal Democratic Party (Ldp). La riduzione della pressione sulle comunità locali interessate dalla presenza militare statunitense rimane prioritaria.
Tuttavia, le National Defense Program Guidelines pubblicate dal governo giapponese lo scorso 17 dicembre non segnalano alcun allentamento delle tensioni e contrasti che sono alla base della permanenza delle forze Usa. Il documento mostra però che Tokyo è consapevole della necessità di ridefinire la sua prospettiva strategica. La necessità di proteggere il nord del Paese (in particolare l’isola di Hokkaido) dai russi è tramontata da tempo, nonostante l’irritazione per una recente visita del Presidente russo Medvedev in una delle vicine isole Curili meridionali, che Mosca sottrasse alla sovranità di un Giappone ormai piegato nel 1945. Il nuovo concetto strategico accentua, invece, la necessità di tutelare le isole Nansei (o Ryukyu), che costituiscono la prefettura di Okinawa a sud dell’arcipelago nipponico e si affacciano direttamente sul Mar della Cina orientale, a breve distanza da Taiwan. Questi sviluppi, uniti alla possibilità che nei prossimi mesi le autorità giapponesi firmino una dichiarazione congiunta con il governo della Corea del Sud per stabilire un accordo formale di cooperazione nell’ambito della sicurezza, non rimarranno senza conseguenze sull’assetto strategico dell’Asia.
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