In una Bielorussia profondamente lacerata dalla situazione economica, sanitaria e sociale, le elezioni presidenziali del 9 agosto 2020 hanno riconfermato l’incumbent Lukashenko, “l’ultimo dittatore d’Europa”, con oltre l’80% dei voti. La campagna elettorale è stata costellata da una serie di misure restrittive e repressive senza precedenti e, a quasi cinque mesi dai risultati elettorali, le azioni di protesta nelle strade e nelle piazze bielorusse continuano a suscitare la preoccupazione dell’Unione Europea e della Russia di Putin, seppur con motivazioni diverse.
L’opposizione politica in Bielorussa è rappresentata da tre donne che sfidano un uomo notoriamente misogino, lottando per la difesa dei diritti civili e politici e opponendosi all’idea di uno stereotipo di donna “incubatrice”, dedita alla famiglia.
La front woman dell’opposizione, Svetlana Tichanovskaja – ex insegnante di lingua inglese e moglie del famoso blogger Sergej Tichanovskij (autore del canale YouTube Strana dlja zhizni nel quale denuncia casi di corruzione e le ingerenze dei siloviki) – ha apertamente sfidato il Presidente, riuscendo nell’impresa di unire le diverse opposizioni sino ad allora frammentate, poco coese e inefficaci.
La Tichanovskaja è stata, infatti, sostenuta anche da Veronika Tsepkalo, moglie di Valerij Tsepkalo, ex ambasciatore bielorusso negli Stati Uniti – a cui non sono state riconosciute dalla commissione centrale elettorale ben 130.000 delle 220.000 firme raccolte per la registrazione alla competizione. Tichanovskaja è stata sostenuta anche da Maria Kolesnikova, rappresentante del comitato elettorale di Viktor Babariko, già Presidente della banca Belgazprombank con forti legami con il colosso energetico russo Gazprom e, come tale, percepito in Bielorussia come l’uomo di Putin nel tentativo di estromettere Lukashenko dal potere. Babariko era riuscito a raccogliere 425.000 firme, ma è stato arrestato il 18 giugno con l’accusa di evasione fiscale, eliminando, così, l’avversario politico più temuto da Lukashenko.
In un tale contesto, quelle che Lukashenko ha definito “povere ragazze” hanno rappresentato un’importante novità nell’offerta politica della Bielorussia che ha potuto avvalersi dell’azione collettiva di migliaia di sostenitori che hanno espresso solidarietà nei confronti dell’arresto dei candidati presidenziali.
Tuttavia, al grande consenso elettorale ottenuto da Lukashenko nei seggi – stimato però solo al 3% da alcuni sondaggi e osservatori elettorali locali – la commissione elettorale ha attestato la sfidante Tichanovskaja al 9,9% (per i suoi sostenitori si tratterebbe invece del 70-80% dei voti), seguita dall’1,68% di Anna Kanopazkaja, l’1,13% di Sergej Cececen’ e l’1,04% di Andrej Dmitriev.
Dinanzi alle accuse di “un’evidente frode elettorale” a vantaggio di Lukashenko, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare, in gran parte pacificamente, mentre si diffondono nei social media le immagini di pestaggi cruenti a opera della polizia, di persone ferite, di spari e di sommosse che richiamano alla mente i reportage di Maidan a Kiev nel 2014. All’ondata di scioperi e proteste nelle città e nelle periferie della Bielorussia, Lukashenko ha infatti risposto con arroganza e cinismo, gridando al golpe, dispiegando tutte le unità combattenti dell’esercito lungo il confine occidentale e avvalendosi delle misure repressive della polizia per porre fine alle manifestazioni popolari attraverso migliaia di arresti, centinaia di feriti e due morti.
Non è la prima volta che la “piazza” contesta la rielezione di Lukashenko, ma rispetto alle reazioni del 2015 vi è stato un risveglio civile e una maggiore consapevolezza della grave situazione nel paese che ha determinato una spinta dal basso al processo di democratizzazione bielorusso. Le elezioni bielorusse sono sempre state criticate anche dagli osservatori elettorali dell’OSCE-ODIHR perché inadeguate rispetto agli standard democratici minimi, ma mai come in questo caso la mancanza di trasparenza è stata così evidente.
Cinque mesi dopo, la situazione è ancora molto articolata e in continua evoluzione, influenzata da dinamiche interne ed esterne alla Bielorussia. Sul piano della politica interna, Lukashenko ha manifestato la volontà di avviare un percorso di riforma costituzionale suddiviso in alcune fasi: 1) i deputati della Camera dei rappresentanti raccolgono le proposte dei cittadini; 2) gli esperti avviano una discussione nazionale sugli emendamenti da applicare alla carta costituzionale; 3) viene creata un’Assemblea del popolo bielorusso per favorire la discussione sui cambiamenti da apportare; 4) l’indizione di un referendum costituzionale; 5) l’indizione di nuove elezioni presidenziali nel 2022.
Si tratta di una proposta che troverebbe, in parte, la condivisione dell’opposizione politica, sebbene possa costituire un’occasione per Lukashenko di temporeggiare e, quindi, rimanere ancora al potere nella speranza di un ridimensionamento dell’intensità della protesta e di limitare il ruolo dell’opposizione in questa delicatissima fase. Gli eventi hanno, infatti, sinora dimostrato che Lukashenko ha inasprito le azioni repressive con torture, minacce e l’arresto di chi non riconosca l’esito elettorale, come nel caso del noto poeta Dmitrij Strocev, imprigionato a seguito della sua partecipazione alle proteste e rilasciato dopo un mese.
Inoltre, il 26 ottobre ha avuto luogo uno sciopero nazionale al quale hanno partecipato numerose associazioni, categorie e persone che hanno aderito all’ultimatum della Tichanovskaja che ha chiesto le dimissioni di Lukashenko. Oltre alle numerose manifestazioni quotidiane di questi mesi, questo sciopero ha aumentato il numero delle persone arrestate e le sistematiche repressioni nei confronti dei manifestanti. Tra questi si segnala l’arresto della professoressa di lingua italiana, Natalia Dulina, che ha promosso diverse azioni di protesta e scioperi tra i docenti universitari. Tutti i professionisti, intellettuali, giornalisti, che hanno aderito allo sciopero nazionale, sono stati arrestati, minacciati, licenziati e considerati dei potenziali terroristi. Allo stesso modo centinaia di studenti universitari sono stati arrestati e picchiati nonostante i diversi tentativi dei docenti di proteggerli.
Dinanzi alle continue azioni violente vi sono state immediate reazioni politiche in ambito internazionale già a partire dal giorno dopo le elezioni di agosto. Tra queste, la posizione dell’UE è stata espressa in un tweet della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen che ha scritto: “Non c’è posto in Europa per chi bersaglia e reprime con violenza chi protesta pacificamente. I diritti fondamentali in Bielorussia devono essere rispettati. Chiedo alle autorità di assicurare che i voti dell’elezione di ieri siano contati e pubblicati accuratamente”. Considerazioni simili sono state espresse dal portavoce tedesco Steffen Seibert che ha evidenziato “irregolarità sistematiche” e l’uso della violenza contro manifestanti pacifici. Del medesimo avviso anche il Primo Ministro polacco Mateusz Moraviecki che già ad agosto aveva chiesto un summit europeo straordinario per evitare altra violenza.
Dopo il vertice straordinario dell’UE sul “caso Lukashenko”, il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, il Presidente francese Emmanuel Macron e la Cancelliera Angela Merkel hanno cercato un dialogo con la Russia per sottolineare l’importanza di porre fine alle violenze contro i manifestanti e avviare un dialogo costruttivo e inclusivo per risolvere la crisi bielorussa. Una scelta non casuale che evidenzia la consapevolezza che senza l’intervento del Cremlino difficilmente l’Europa potrebbe incidere sulle dinamiche bielorusse. Nel frattempo, il 6 novembre l’UE ha avviato una serie di sanzioni economiche e restrittive a 59 persone tra funzionari e politici – inclusi Lukashenko stesso e il figlio, consigliere per la sicurezza nazionale – che includono il divieto di viaggiare nell’UE e il congelamento dei beni delle persone o entità interessate oltre al divieto ai cittadini e alle società dell’UE di mettere a disposizione fondi per chi è colpito dalle sanzioni.
Mentre gli Stati Uniti non sono sembrati particolarmente interessati ad assumere un ruolo significativo – probabilmente perché troppo concentrati sull’appuntamento elettorale americano di novembre –, la Cina e la Russia hanno immediatamente riconosciuto la rielezione di Lukashenko. In particolare, il Cremlino ha apprezzato l’iniziativa politica di avviare un processo di riforma costituzionale e l’apertura al dialogo con l’opposizione attraverso l’incontro di Lukashenko con Babariko e alcuni prigionieri politici, benché sia ragionevole pensare che si tratti di un tentativo da parte del Presidente di cooptarli e applicare il principio del divide et impera all’interno dell’opposizione bielorussa.
Sebbene nell’ultimo decennio le decisioni politiche di Lukashenko non siano sempre state in sintonia con quelle della Russia, il legame fra Mosca e Minsk si è fortemente rinsaldato non solo per motivi di natura economica e di sicurezza, ma per interessi reciproci. Da un lato, Lukashenko ha bisogno del sostegno politico, ed eventualmente militare, della Russia per mantenersi al potere e non lasciare spazi di manovra all’opposizione; dall’altro, Putin non può consentire che la Bielorussia avvii un percorso che la allontani dalla propria sfera di influenza, favorendo l’avanzamento ai suoi confini dell’Occidente. Non solo. Quanto sta accadendo in Bielorussia costituisce un avvertimento alle varie fazioni del Cremlino sulla necessità di concretizzare la procedura di successione di Putin, temporaneamente rimandata dopo il voto nazionale dello scorso 1° luglio.
Al momento la strategia più efficace per la Russia è quella di mantenere un dialogo costante, anche con l’opposizione, da cui scaturisca una fase di “transizione guidata” nella quale l’indizione di nuove elezioni possa favorire l’individuazione di un/a nuovo/a candidato/a, capace di mantenere una posizione equilibrata tra Est e Ovest, ma, soprattutto, che possa garantire buoni rapporti economici e strategici con la Russia. Sarà, indubbiamente, una transizione lunga, difficilmente “democratica” con effetti drammatici per il popolo bielorusso.
Per saperne di più
Clark, M. (2020) Warning: Lukashenko Escalates Crackdown in Likely Response to Increased Risk of Kremlin Itervention, Institute for the Study of War. Disponibile su: https://www.jstor.org/stable/resrep26444
Suzdaltsev, A. (2020) “The Crisis of the Union State of Belarus and Russia”, Mirovaia ekonomika i mezhdunarodnye otnosheniia, 64(3).
Way, L.A. (2020) “Belarus Uprising: How a Dictator Became Vulnerable”, Journal of Democracy, 31(4).
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