Mali: Risolvere un conflitto a partire dal territorio "umano"

Nel 2017 il Mali festeggia il cinquantasettesimo anno d’indipendenza. Nel 1960, infatti, la storica colonia francese si trasformò in Federazione del Mali, di cui faceva parte anche il Senegal. In seguito alla scissione, avvenuta a pochi mesi di distanza, il Mali divenne ufficialmente una repubblica indipendente. La frammentazione è l’eredità più forte che la politica coloniale del divide et impera ha lasciato tra le diverse etnie sedentarie e nomadi che ancora oggi popolano il Paese. La contrapposizione più evidente e aspra è quella tra il sud, ricco ed efficiente, e il nord disomogeneo e turbolento, prevalentemente abitato da tribù nomadi. Le etnie che vivono nel nord del Paese sono numerose e la disomogeneità politica del Mali non è quindi riducibile a mera conseguenza della colonizzazione che ha piuttosto contribuito ad accentuare uno squilibrio già esistente nella società maliana. Gli abitanti del sud attribuiscono al nord la responsabilità di aver impedito il raggiungimento dell’unità nazionale e questo risentimento sembra aver influenzato le scelte politiche ed economiche di Bamako negli ultimi sessant’anni. Ogni decisione presa sembra infatti improntata a favorire la crescita delle regioni meridionali a scapito di quella dei territori “ribelli” settentrionali, controllati solo mediante un’ingente opera di militarizzazione. Dal 1960 a oggi, il Paese ha subito ben quattro insurrezioni promosse da tribù nomadi di Arabi e Tuareg del nord: la prima nel 1963, seguita da quelle del 1991 e del 2006 per finire con quella più recente del 2012.

Nel 2011 gli esuli tuareg confinati in Libia e tornati in Mali dopo la caduta del regime di Gheddafi crearono il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA). Poco dopo, il 17 gennaio 2012, le fazioni ribelli che popolano le regioni del nord si unirono sotto la guida del MNLA. Nel corso dei decenni, però, l’Islam radicale si è fatto strada nel Paese sfruttando la latitanza del governo centrale e, nonostante i primi incoraggianti successi, il MNLA non è riuscito a preservare a lungo la coalizione tra Tuareg e Arabi. Dal MNLA si è infatti distaccato il movimento jihadista Ansar Dine, capeggiato da Iyad e Ghali, noti entrambi per essere vicini sia a al-Qa’ida che a AQMI (al-Qa’ida nel Maghreb Islamico). Oggi oltre a Ansar Dine sono attivi in Mali il MUJAO (Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa occidentale) e el-Mourabitoun, responsabile dell’attacco all’hotel Radisson Blu nel novembre 2015. Con l’aiuto di questi ultimi, Ansar Dine riuscì ad assumere il controllo della rivolta nelle regioni del nord, accantonare il programma politico del MNLA – che il 6 aprile 2012 aveva dichiarato l’indipendenza dei territori dell’Azawad – e sostituirlo con i propri punti programmatici, cioè imporre la shari’a e riabilitare la figura politica degli Ulema, gli anziani capi religiosi. La capitale Bamako veniva intanto sconvolta dal colpo di stato militare del 22 marzo 2012 che pose fine al mandato presidenziale di Amadou Toumani Touré.
Seguì un succedersi di operazioni militari che coinvolsero svariati attori internazionali, fra cui l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Francia che rispolverò così il suo ruolo di garante della pace nel variegato panorama etnico del Mali. Nel gennaio 2014 la Francia lanciò l’operazione Serval – sostituita in seguito dall’operazione Barkhane – che riuscì a disperdere temporaneamente le milizie jihadiste, senza però risolvere in alcun modo né le tensioni tra nord e sud né quelle tra le diverse etnie. L’intervento internazionale è stato utile a confinare i terroristi, ma l’elevato numero di morti, il clima di terrore, il susseguirsi di interventi militari invasivi hanno accresciuto il risentimento popolare nei confronti delle operazioni di pace, fomentando ulteriormente la retorica jihadista, già alimentata da aneddoti sul colonialismo e sulle conseguenze disastrose dell’ingerenza occidentale in Africa. L’esito negativo degli interventi militari e umanitari degli ultimi anni è la conseguenza dell’incapacità della comunità internazionale di analizzare e comprendere il territorio maliano non solo e non tanto in termini “geografici”, quanto piuttosto in termini “umani”.

Il Mali ha una popolazione complessiva di 14.5 milioni di abitanti: la popolazione del nord del Paese conta 1.3 milioni di persone, suddivise in diverse etnie – fra cui Tuareg, Arabi, Fulani e Songhay – ciascuna con la propria leadership, i propri miti e le proprie tradizioni. Tuareg e Arabi rappresentano insieme circa il 60% della popolazione settentrionale. I Tuareg predominano nei territori di Timbuktu, Gao e Kidal, mentre gli Arabi abitano principalmente le regioni di Gao e Timbuktu. Nessuna delle due comunità è completamente coesa. Nella sola regione di Kidal, ad esempio, la comunità tuareg è frammentata in più di sessanta sottogruppi caratterizzati da una complessa struttura gerarchica che divide la popolazione per ceto, dai nobili Ifoghas agli umili Imghad. A Gao e Ménaka è forte la presenza degli Idnan, degli Iwellemmedan e degli Chaman-Amas, mentre a Timbuktu le comunità principali sono quelle Iwellemmedan e Kel Intar. Gli Arabi, invece, si dividono essenzialmente in Tilemsi, i Kounta e i Berabiche. I primi – e in particolar modo la tribù dei Lamhar – sono noti per la loro influenza sui traffici regionali e per avere forti connessioni con le cellule terroristiche di AQIM e MUJAO. I Berabiche – che vivono a Timbuktu e nella regione tra il confine con la Mauritania e il nord della regione di Kidal – hanno supportato la protesta del 2012, creando il Fronte Nazionale per la Liberazione dell’Azawad e il Movimento Arabo dell’Azawad. Nonostante le comunità arabe abbiano supportato le insurrezioni dei Tuareg fin dall’indipendenza, esse non hanno mai smesso di tessere rapporti commerciali con il ricco ed efficiente sud. I Fulani discendono dal regno di Macina che rimase prospero e mantenne la struttura organizzativa del regime teocratico musulmano fino all’arrivo dei francesi nel 1893. Essi mantengono tuttora un ruolo preminente nella società maliana e la loro presenza all’interno delle élite politiche ed intellettuali indica che alcune comunità del nord vengono incluse nelle strutture del governo centrale, benché numericamente siano pesantemente sottorappresentate. Tra le comunità del nord perfettamente integrate nella vita politica della capitale Bamako spiccano i Songhay, da cui proveniva anche l’ex-presidente Amadou Toumani Touré
La crisi del 2012 ha evidenziato l’incapacità del governo maliano e della comunità internazionale di gestire la complessità di legami etnici, gerarchie, costumi, esigenze e rivendicazioni. La strategia militare adottata fino a questo momento ha avuto come conseguenza un ulteriore inasprimento delle acredini tra i diversi clan. Sottovalutando le comunità locali, il governo centrale e i suoi partner internazionali hanno perduto nel corso dei decenni la loro fiducia, ragione per cui è stato più semplice per le milizie ribelli ottenerne il supporto. Una società diversificata come quella del Mali si interfaccia da secoli con l’eterogeneità della popolazione e con i conflitti locali. L’imposizione di uno Stato centralizzato è stata una delle cause principali del malcontento tra le popolazioni delle aree periferiche e uno dei fattori scatenanti di tutte le insurrezioni succedutesi nella storia del Mali. La crisi del 2012 è quindi solo l’ultima di una serie di crisi interne che la diplomazia internazionale non è riuscita a risolvere.
Il governo di Bamako potrebbe iniziare un processo di riforma delle istituzioni esistenti per renderle più rappresentative della diversità interne e più efficienti nel garantire condizioni di vita migliori alle popolazioni indigene. Una di queste istituzioni potrebbe essere l’Alto Consiglio delle Autorità Territoriali, organismo nato nel 1992 proprio per far fronte alle istanze degli autoctoni ma che in poco tempo ha assunto il ruolo di vicario del governo di Bamako nelle regioni del nord. Un’altra iniziativa costruttiva del governo di Bamako potrebbe essere quella di attribuire ai leader locali ruoli di maggiore responsabilità legale, come è successo in Niger o Burkina Faso. Possedendo un ruolo sociale e una leadership morale che conferisce loro immediata autorità, i leader locali sono infatti figure indispensabili nella mediazione dei conflitti di carattere etnico o religioso. La riscoperta di tecniche di mediazione “tribale” come la Sinankuya o cousinage à plaisanterie – che sono parte della cultura popolare dell’intera Africa occidentale – e la riscoperta del dialogo interreligioso potrebbero costituire ottimi punti di partenza per la risoluzione pacifica dei conflitti.
Al di là degli esempi positivi provenienti da altri Stati, è possibile trovare tentativi di risoluzione pacifica dei conflitti anche nella storia recente del Mali. Nel 1992 l’inaugurazione dell’Espace d’Interpellation Démocratique e successivamente dell’Espace de Concentration Génerale, entrambi spazi di dialogo tra governanti e governati, hanno rappresentato due ottimi tentativi di rinsaldare il rapporto e la fiducia tra istituzioni e cittadini, lasciando che le popolazioni nomadiche locali prendessero confidenza con la nuova legge costituzionale.
Quel che è certo è che la risoluzione della crisi in Mali richiede soluzioni innovative e modi creativi di reinventare la presenza dello Stato all’interno del territorio per trasformarne la percezione da parte dei cittadini. Il coinvolgimento di attori internazionali ha sortito effetti minimi e ha avuto come principale conseguenza l’indebolimento dell’autorità delle strutture statali giudicate incapaci di mantenere l’ordine tanto dalla popolazione quanto dalle milizie ribelli. Le operazioni militari degli ultimi anni hanno dimostrato che il dispiegamento militare non si traduce automaticamente nella messa in sicurezza del territorio. L’introduzione di soluzioni “endogene” da parte del governo e l’inclusione di autorità locali all’interno dei processi decisionali potrebbe risanare la fiducia delle tribù settentrionali verso Bamako e arginare il fenomeno del terrorismo che si avvale spesso dell’appoggio delle popolazioni locali, fomentando la diffidenza nei confronti dell’autorità statale percepita spesso come estranea in contesti di scarsa unità nazionale. Un tale approccio rappresenterebbe oggi un “ritorno al passato” che è in realtà un enorme passo in avanti in termini di riconoscimento e rispetto della vasta geografia umana del Mali, del vissuto dei suoi abitanti e delle loro speranze per il futuro.
Per saperne di più:
Pezard, S. and Shurking, M. (2015) Achieving Peace in Northern Mali. Past Agreements, Local Conflicts, and the Prospects for a Durable Settlement, RAND Corporation. Disponibile su: http://www.rand.org/content/dam/rand/pubs/research_reports/RR800/RR892/RAND_RR892.pdf
Chauzal, G. and van Damme, T. (2015) The roots of Mali conflict. Moving beyond the 2012 crisis, Clingendael, Netherlands Institute of International Relations. Disponibile su: https://www.clingendael.nl/sites/default/files/The_roots_of_Malis_conflict.pdf

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