La lunga dittatura militare birmana si è retta per decenni grazie alla repressione, alla violazione dei diritti umani fondamentali tra cui il divieto della libertà di organizzazione sindacale, il reclutamento forzato di minori nell’esercito e il lavoro forzato, utilizzato anche come mezzo di coercizione politica. Ci sono voluti 12 anni di negoziati e di intenso lavoro dei costituenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) per obbligare il governo birmano, nel 2012, a proibire il lavoro forzato e punire i responsabili: fu il segno del nuovo inizio e della cancellazione delle sanzioni. Conseguentemente il governo di Thein Sein prima, e quello Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) ora, hanno avviato un impegnativo lavoro di riforma della legislazione sugli investimenti e sul lavoro, per renderla più rispondente agli standard internazionali, tra cui i Principi Guida delle Nazioni Unite sulle Imprese e i Diritti Umani e gli standard previsti dall’Iniziativa sulla Trasparenza delle Industrie Estrattive (EITI).
Gli investitori esteri, attratti da un mercato praticamente vergine, dal basso costo del lavoro, dalle abbondanti risorse naturali e dalla collocazione geografica del Paese, devono però confrontarsi con i molteplici rischi derivanti dall’opacità di molte delle imprese locali in settori chiave; dall’interazione tra economia illegale, conflitti armati e pace; e dalla cultura tutt’oggi dominante in un Paese intrappolato per decenni in logiche clientelari, corruttive e ricattatorie. La Labour Organization Law è stata la prima norma approvata nel 2011 con l’obiettivo di regolare le modalità di organizzazione di sindacati e imprenditori. Essa ha però stabilito criteri eccessivamente elevati per la registrazione (iscrizione di 30 lavoratori o del 10% della forza lavoro nelle imprese con meno di 30 dipendenti); procedure invasive dell’autonomia decisionale; e regole troppo stringenti sul diritto di sciopero e di serrata e sulla contrattazione collettiva. La legge sulla risoluzione dei conflitti, d’altro canto, prevede procedure di conciliazione e arbitrato. Oltre ai limiti insiti in entrambe le norme, la cultura autoritaria radicatasi durante la lunga dittatura e la scarsa conoscenza delle nuove norme da parte degli imprenditori e dei lavoratori ostacolano notevolmente sia l’iscrizione alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sia la contrattazione collettiva, generando conflitti altrimenti facilmente risolvibili. Le discriminazioni antisindacali restano diffusissime oltre che per le insufficienti tutele garantite dal quadro normativo anche a causa delle limitazioni poste dalla Costituzione alla libertà di organizzazione sindacale e contrattazione. Molte leggi dell’era coloniale convivono, infatti, con quelle adottate successivamente al 2011 e sebbene la Costituzione del 2008 sancisca il diritto per i lavoratori di organizzarsi liberamente, in base alle Sezioni 24, 349 (b) 254 tale diritto è garantito solo se “non è contrario alle leggi per la sicurezza del Paese, all’ordine alla pace e alla tranquillità delle comunità o all’ordine pubblico e alla moralità”. La Costituzione ammette inoltre eccezioni al divieto di lavoro forzato, decretando tramite la Sezione 359 che “l’Unione proibisce il lavoro forzato ad eccezione del lavoro forzato come sanzione per un crimine per cui si è stati debitamente arrestati e gli obblighi stabiliti dall’Unione in conformità con la legge e nell’interesse del pubblico”. Emerge dunque chiaramente quanto il mercato del lavoro risenta ancora fortemente della cultura e delle scelte della dittatura militare.
Secondo un’indagine dell’ILO, più dell’88% degli imprenditori e dei lavoratori non fanno parte delle rispettive organizzazioni e solo il 2,4% degli imprenditori e il 4,1% dei lavoratori ne conoscono l’importanza. Il Ministero del Lavoro ha raccomandato l’adozione di almeno 23 criteri nei contratti di lavoro (periodo di prova, salari, orari, permessi, benefits etc.), ma solo duemila imprese, sulle 23 mila registrate, hanno firmato contratti di lavoro con i propri dipendenti e le buste paga sono scarsamente utilizzate. Stessi problemi si riscontrano su altre questioni fondamentali come gli orari di lavoro e i salari. Se il monte ore massimo previsto dalla legge è di 44 ore settimanali per l’industria, 48 per i servizi e il commercio, e 35 per il pubblico impiego, la realtà appare molto distante dalla norma. Gli orari reali arrivano a 51 ore settimanali e, spesso, gli straordinari non vengono retribuiti, a fronte di un salario fissato a 3.600 kyats – ovvero 2,32 euro al giorno – nelle imprese con oltre 15 dipendenti. Mentre i salari minimi sono oggi regolati da una nuova norma, contestatissima da parte degli imprenditori del settore tessile-abbigliamento, un comitato nazionale tripartito dovrebbe aggiornarne i livelli, orientativamente ogni due anni, sulla base delle variazioni del costo della vita. Il tessile-abbigliamento, settore industriale di punta, pari al 31% di tutto l’industria, conta 738 mila lavoratori, anche se oltre il 69,5% di questi ultimi lavora nell’economia informale, e due terzi in imprese con meno di 10 dipendenti e con orari mediamente di 51,6 ore settimanali.
Inoltre, le criticità socio-economiche strutturali del Myanmar – povertà diffusa, disoccupazione elevata, esclusione sociale di giovani e donne – provocano alti tassi di indebitamento tra i lavoratori. Ciò, unitamente agli espropri di terreni per programmi infrastrutturali, zone industriali e concessioni agricole o estrattive, determina forti flussi migratori verso le città che secondo l’ILO necessitano di un quadro di politiche ancora assente. Il censimento del 2014 indica in circa dieci milioni i lavoratori migranti dalle aree remote verso le grandi città e le zone industriali in cerca di un lavoro che spesso si rivela non solo precario e non tutelato, ma anche fonte di rischi come traffico di esseri umani e lavoro minorile. Il 23,7% dei minori tra i 10 e i 17 anni lavora e spesso viene retribuito in natura, mentre si registrano molti casi di bambine che lavorano come domestiche vittime di molestie e violenze. Dal censimento emerge anche che su una forza lavoro di 33,9 milioni di persone, il 71% è impiegato nelle zone rurali e il 29% in aree urbane con un mercato del lavoro caratterizzato da lavoratori giovani, privi di professionalità e di consapevolezza dei loro diritti, e da imprese senza un sistema di relazioni industriali e di dialogo sociale, necessario per la risoluzione dei conflitti. Nel settore formale le condizioni di lavoro sono caratterizzate da lunghissimi orari, da salari molto più bassi della media degli altri Paesi della regione, legati a complessi sistemi di bonus che vanno dalla puntualità, alle presenze e agli straordinari, spesso obbligatori. L’elevatissimo turnover e il basso livello di produttività sono dovuti principalmente alla carenza di forza lavoro qualificata, all’assenza di qualità manageriali e di impianti, macchinari e infrastrutture adeguate. La proporzione di persone in età da lavoro che ha terminato le scuole superiori non supera il 6.5% a livello nazionale (11,1% nelle aree urbane e 4.4% nelle zone rurali) mentre solo lo 0,7% delle persone in età da lavoro ha partecipato a percorsi di formazione professionale nell’ultimo anno.
Nonostante l’impegno della Republic of the Union of Myanmar Federation of Chambers of Commerce and Industry, in Myanmar mancano ancora una corretta cultura d’impresa, una gestione moderna delle risorse umane e una strategia di formazione del capitale umano. L’assenza di una cultura di responsabilità e trasparenza sia nelle istituzioni sia tra gli attori privati sono ostacoli da superare e, nonostante le nuove regole – in particolare nel settore estrattivo con l’entrata del Paese nell’EITI – forte e diffusa resta la violazione delle norme nazionali e internazionali su lavoro, sicurezza e ambiente, soprattutto nelle imprese cinesi e in quelle di proprietà militare o dei cosiddetti cronies, con l’aggravante di una debolezza dell’ispettorato del lavoro e delle procedure per la risoluzione dei conflitti. Tuttavia va registrata la presenza di segnali positivi: la Confederation of Trade Unions Myanmar (CTUM), l’unica organizzazione riconosciuta come confederazione sindacale, in soli quattro anni ha raggiunto i 65 mila iscritti in tutti i settori diventando un interlocutore importante delle istituzioni e delle imprese nella risoluzione dei complessi nodi del mercato del lavoro, della protezione sociale, dei redditi, della formazione professionale e delle relazioni industriali, risolvendo numerosi e complessi conflitti industriali. I suoi candidati hanno conquistato tutti i seggi nel Consiglio Arbitrale Nazionale e in quelli locali. Così, sebbene le prospettive di crescita economica siano positive, sarà necessario un impegno congiunto di governo e parti sociali, con il sostegno di istituzioni internazionali e investitori esteri, per promuovere una crescita inclusiva, costituita da misure economiche e sociali condivise, da un processo di qualificazione della forza lavoro e del sistema delle imprese, da relazioni industriali costruttive anche nelle PMI, con l’obiettivo di promuovere un’occupazione di qualità e redditi dignitosi, elementi importanti sulla strada della pace, della democrazia e dell’uscita del Paese dalla povertà endemica e dall’eredità della dittatura.
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