Molto si è scritto e detto su Lee Kuan Yew, il padre fondatore della città-Stato di Singapore: il cinese Deng Xiaoping apprezzava le sue grandi doti di comunicatore; lo statunitense Henry Kissinger elogiava il suo profondo acume e la sua riconosciuta capacità di costruire dal nulla un progetto politico segnato, fin dall’origine, da diverse complicazioni sia interne sia esterne; infine, il giapponese Nakasone Yasuhiro rimase positivamente sbalordito dal modello di sviluppo economico concepito da uno dei suoi più stimati colleghi in Asia. Probabilmente, questi tre personaggi non erano a conoscenza di un curioso aspetto della sua vita privata: nelle settimane successive alla sua morte, avvenuta nel 2015, un giornale locale dedicò un ampio articolo alla passione culinaria dell’ex premier per il rojak, un’insalata di frutta e verdura condita con una salsa ottenuta da un inusuale amalgama preparato con pasta di gamberetti, arachidi, zucchero di palma, tamarindo, peperoncino, zenzero e lime. Questo piatto, molto diffuso nell’isola e nella penisola malese, ben rappresenta la società multietnica e multiculturale del Paese, che dal 1959 – anno in cui ottenne l’autogoverno dal Regno Unito – ne riconosce la diversità linguistica, culturale e religiosa. Questo articolo esamina i principali elementi dello Stato multietnico singaporiano e identifica i punti di forza e le debolezze di un modello multiculturale di successo che, benché non possa ancora dirsi totalmente compiuto, continua ad essere celebrato in diverse parti dell’Asia e del mondo.
Armonia di Stato e controllo sociale
La storia della piccola nazione del Sud-Est asiatico comincia nell’agosto 1965, quando il governo del People’s Action Party (PAP) proclamò la “separazione” di Singapore dalla Federazione della Malaysia (da qui in avanti, “Federazione”). Il piano che Kuala Lumpur aveva in mente per la costruzione dello Stato multietnico malaysiano si scontrava con l’opposizione di Lee a garantire all’etnia maggioritaria malese (i bumiputras, i “figli della terra”) una posizione dominante tra i tre principali gruppi etnici che componevano – e che compongono tuttora – la Federazione: oltre ai malesi, vi sono i cinesi e gli indiani. Le politiche adottate dal governo malaysiano di Tunku Abdul Rahman che favorivano i bumiputras e, soprattutto, le rivolte scoppiate a Singapore nel 1964 tra la comunità cinese e quella malese – che causarono 36 morti e più di cinquecento feriti – condussero Lee alla decisione di distaccarsi dal progetto politico postcoloniale malaysiano e di provare così a costruire una nazione in un’isola di oltre 730 kmq. Spettò al PAP, il movimento politico nato nel 1954 e che domina da oltre sessant’anni la politica della città, il compito di garantire la convivenza tra le tre principali comunità etniche. A tal fine sviluppò, a partire dal 1965, un’articolata ideologia di Stato che avrebbe dovuto porre le basi per la definizione di un’alleanza sociale tra le diverse “razze” del territorio, nel segno di una condivisa armonia. Il concetto di “armonia razziale” ricorre molto spesso nei documenti ufficiali adottati dal governo, così come nella retorica che il partito sfodera in occasione dei comizi elettorali, tanto che è oggi unanimemente considerata uno dei cinque principali elementi dell’“autorità morale[1]” del PAP e che spiegano, assieme alla capacità di adattamento, alla meritocrazia, al pragmatismo e alla lotta alla corruzione, la sua perdurante centralità nel sistema politico nazionale. Il movimento politico dominante è, quindi, il massimo garante della coesione e della convivenza interetnica tra i Chinese-Malay-Indian-Others (CMIO), che la Costituzione singaporiana connota con il termine di “razze”, il cui utilizzo nel dibattito pubblico occidentale è molto spesso limitato per via dell’accezione negativa che esso tende ad esprimere.
Oggi, la popolazione di nazionalità singaporiana residente nell’isola conta 3,6 milioni di persone, ciascuna delle quali rientra all’interno delle quattro categorie etniche. I cinesi rappresentano la maggioranza della popolazione (74,04%), seguiti dai malesi (13,53%), dagli indiani (9,03%) e dalle altre minoranze (3,39%[2]), ed è curioso come queste percentuali si siano mantenute pressocché stabili dalla dichiarazione dell’indipendenza. La Carta fondamentale (art. 19B, 6) categorizza i CMI e indica che una persona debba identificarsi come parte di una delle tre comunità etniche e che, come tale, debba essere accettato da tutta la comunità a cui sceglie di appartenere. Tutto ciò che non rientra nelle tre principali etnie – come, ad esempio, i lavoratori migranti – occupa la categoria “Others”. La comunità malese è quella alla quale la Costituzione riconosce una posizione “speciale” (art. 152, 2), sia perché considerata come popolo nativo dell’isola, sia in quanto etnia più discriminata dai coloni britannici durante l’epoca coloniale. Non si tratta, in ogni caso, del riconoscimento di un primato rispetto alle altre comunità, giacché la Carta ritiene tutti i cittadini uguali di fronte alla legge e assicura le stesse opportunità all’interno di un contesto multiculturale che Michael Barr e Zlatko Skrbis hanno definito “neutrale[3]”, che ha cioè l’obiettivo di mantenere lo status quo e di farne una virtù, ignorando allo stesso tempo le disuguaglianze insite nella società singaporiana. In effetti, per alcuni il dettato costituzionale sembra proporre una vera e propria categorizzazione razziale dai confini rigidi e ben delineati, per cui l’identità etnica è più forte della volontà di appartenere a una nazione culturalmente e linguisticamente variegata. A conferma di ciò sopraggiunsero, nel 2020, le affermazioni rilasciate dall’attuale ministro degli Affari interni e della Giustizia, K. Shanmugam: il politico di etnia tamil ha ammesso che Singapore sia ancora lontana dal superare l’idea di Stato post-razziale, sebbene la convivenza tra le varie comunità non sia mai stata in pericolo e la tolleranza continui ad essere un valore diffuso e condiviso tra le nuove generazioni. Al contrario, il ministro ha rilevato come i pregiudizi di natura etnica e razziale emergano principalmente nelle conversazioni tra i singaporiani delle vecchie generazioni[4], che paiono ancora molto restii a recidere il filo spinato che corre lungo le frontiere razziali.
Nei quasi sessant’anni di storia della nazione singaporiana, lo Stato si è dunque presentato come la soluzione al dilemma sulla conciliabilità tra il senso di appartenenza a una specifica etnia e il dovere di mantenere viva e in buona salute l’unità nazionale. Per di più, ha inibito le varie comunità razziali ad agire nell’interesse dei Paesi a cui sono culturalmente connessi da legami ancestrali (Cina, Malaysia o India), in favore solo del perseguimento del benessere economico e sociale dell’isola. Ammesso che la defezione di un singolo cittadino singaporiano a vantaggio di una Potenza straniera si rivelò, a posteriori, uno scenario più infondato che realistico, nei vent’anni successivi all’indipendenza il timore di Lee e degli Stati Uniti era che una parte della nutrita diaspora sinofona[5] potesse giocare il ruolo di “quinta colonna” all’interno del territorio di Singapore, in quanto considerata come una pericolosa estensione del governo comunista di Pechino[6]. Questa convinzione non poteva reggere ai fatti poiché i cinesi di Singapore erano divisi, al loro interno, da barriere linguistiche insormontabili: basti pensare che la presenza di una decina di dialetti cinesi, molto diversi tra loro, ostacolarono per molto tempo l’integrazione all’interno della comunità dei sinofoni, che cominciò ad adottare il cinese mandarino solo dopo l’intervento del legislatore.
Per il raggiungimento dell’armonia razziale, il PAP ha realizzato un modello di organizzazione sociale che fa perno su un sistema di pesi e contrappesi, sugli incentivi materiali e sul controllo sociale. Riguardo al primo elemento, tutte le politiche pubbliche sono state improntate al solo scopo di preservare l’identità multiculturale di Singapore e di favorire l’integrazione. L’azione del governo è costantemente monitorata sia dagli organi costituzionali, impegnati a mantenere l’equilibrio etnico in ogni settore della società, sia dai leader religiosi e da altri membri della società civile i quali, oltre al divieto di opporre ostacoli alla coesione interetnica, possono indirizzare le politiche del governo con proposte e modifiche alla legislazione esistente. Il secondo elemento prevede, invece, la realizzazione di provvedimenti che assicurino la mobilità sociale tra le diverse componenti della società singaporiana e l’equa rappresentanza in politica, così come sul luogo di lavoro, a ciascun individuo, indipendentemente dalla sua etnia, dalla lingua che utilizza nella sfera privata e dalla religione che professa (il principio “regardless of race, language or religion”). Il controllo esercitato dallo Stato – il terzo elemento – è teso a distogliere il cittadino dal commettere azioni che rischiano di pregiudicare l’armonia razziale e il benessere sociale. Secondo il contratto sociale “non scritto[7]” che i leader del PAP concepirono dopo l’indipendenza, il governo può interferire nella vita privata dei cittadini, allorché comportamenti individuali o di gruppo hanno delle ripercussioni negative sull’intera comunità. In presenza di un’accertata forma di discriminazione razziale, sia essa esplicita o implicita, il governo prevede un sistema di pene molto severo, che taluni considerano addirittura sproporzionato.
All’interno di questo modello di organizzazione sociale, il PAP si atteggia a padre della nazione, mostrando a volte accenti di autoritarismo, che comunque hanno finora incontrato l’approvazione di numerosi patrioti che sostengono entusiasticamente la causa nazionale rappresentata dal modello di multiculturalismo[8]. Essi, infatti, giustificano l’onnipresenza del PAP in ogni ambito della vita quotidiana della società singaporiana con l’assunto secondo cui tutte le decisioni da esso espresse sono adottate per il bene della comunità e in difesa del principio dell’armonia razziale nello spazio democratico, ogniqualvolta esso sia messo a dura prova[9]. In questo contesto, il controllo capillare dell’autorità è, quindi, necessario e ogni voce contraria è vista come una minaccia sistemica che mette a rischio la tenuta della società singaporiana.
Concepire il modello, individuare una lingua comune
Nei primi anni dell’indipendenza, Lee Kuan Yew era ben cosciente che il progetto di costruzione dello Stato dovesse fondarsi su concetti, da una parte, totalmente innovativi per una realtà asiatica – come il concetto di nazione – e, dall’altra, già esistenti nella tradizione culturale dell’Asia – come quelli di successo e meritocrazia. Ciò che, però, lo storico leader del PAP non aveva bene chiaro fu un modello esterno al quale ispirarsi. Nella sua eloquente autobiografia, Lee racconta che avesse all’epoca pensato al Giappone come possibile esempio dal quale trarre degli ottimi insegnamenti da applicare all’esperienza singaporiana. Egli sostiene che nei quasi sette anni di occupazione post-Seconda guerra mondiale, il popolo giapponese fu in grado di assorbire gran parte degli aspetti della cultura statunitense, rimanendo comunque legato ai valori di duro lavoro e di dedizione al raggiungimento del bene collettivo tipici della società giapponese, che l’hanno sempre differenziata da quella occidentale[10]. Verosimilmente, costruire un percorso simile nella Federazione e, prima ancora, nell’Asia meridionale e sud-orientale degli anni Quaranta era considerato da Lee improponibile: le rivolte razziali scoppiate nell’India britannica, in Birmania e a Ceylon in quella fase storica, solo per citare gli esempi geograficamente più vicini a Singapore, dimostrarono in effetti l’impraticabilità della via giapponese alla costruzione dello Stato nazionale.
Peraltro, già qualche mese prima della separazione, Lee lamentò la presenza nell’isola di due grandi “mali” che stavano contribuendo a disintegrare l’armonia razziale nella Federazione: da una parte, gli “infiltrati” indonesiani che, col sostegno di Sukarno, adoperavano sofisticate e insidiose tattiche di intelligence a Singapore per sabotare il progetto politico malaysiano; dall’altra, dei non ben identificati “elementi interni[11]” che, invece, lavoravano allo sfascio dell’idea di convivenza interetnica. Allora, l’esistenza di queste minacce indussero Lee e la dirigenza del PAP a ricercare tutti gli strumenti necessari per realizzare quello che è possibile annoverare come un esempio di “cambiamento selettivo[12]”. Una volta “rimosso il cellophane del colonialismo[13]”, l’obiettivo dichiarato consisteva nel migliorare il tenore di vita della popolazione, visto come unico collante in grado di tenere assieme comunità etniche, linguistiche, culturali e religiose eterogenee. “Se volete una società cinese a trazione sciovinista, il fallimento è assicurato[14]”, asserì Lee nel febbraio 1966 all’Università Nanyang, in un discorso tenuto in mandarino che accorpa il suo pensiero sul modello di società multietnica. Non fu un caso che l’intervento si tenne proprio in quell’ateneo, poiché il leader del PAP intendeva perlopiù rivolgersi agli studenti cinese, che si mostravano abbastanza refrattari ad accettare i cambiamenti che il governo intendeva approntare per erigere le fondamenta del nuovo Stato multiculturale.
La riforma del sistema scolastico e universitario fu considerata determinante per il successo del progetto di pacificazione interetnica, che alla fine degli anni Sessanta cominciava a ricevere i primi apprezzamenti sia in Asia[15] che al di fuori del continente[16]. Ma prima di mettere mano alla riforma, era fondamentale designare il modello linguistico di riferimento. Nel 1819, l’anno in cui la Marina britannica raggiunse le coste di Singapore, il malese era la lingua franca dell’isola e rimase tale fino ai primi anni del Novecento, quando le autorità coloniali introdussero gradualmente l’inglese nei programmi di insegnamento universitario. Con l’indipendenza, l’inglese divenne la lingua di lavoro comune nelle scuole e nelle università, nonché nelle amministrazioni pubbliche, riconosciuta sullo stesso piano assieme al mandarino, al malese (Bahasa Melayu) e al tamil (la lingua più parlata all’interno della composita comunità indiana).
Lee intuì che l’adozione dell’inglese come lingua veicolare avrebbe, da una parte, evitato di avvantaggiare un’etnia rispetto a un’altra; dall’altra, creato le condizioni per immergere la comunità cinese in un ambiente totalmente anglofono[17]. Alla fine degli anni Settanta fu approvato lo Special Assistance Plan, una riforma delle scuole d’eccellenza cinesi di secondo grado che inseriva l’inglese come lingua obbligatoria nella programmazione didattica, equiparandola al mandarino. Questo provvedimento epocale fu largamente criticato dalla comunità cinese, che nel frattempo stava anche scontando gli effetti della campagna governativa di sensibilizzazione all’uso del mandarino in ragione dei dialetti[18], che fu ripresa successivamente alla metà degli anni Ottanta. Lee in persona reiterò che la costituzione di un ambiente bilingue non avrebbe minato in alcun modo i valori tradizionali cinesi. Peraltro, il leader del PAP, che era di etnia hakka, parlava esclusivamente l’inglese nella sfera sia pubblica sia privata, ma questo non andò a intaccare il saldo legame con le sue origini e la comunità cinese cittadina. In ambito accademico, invece, l’Università Nanyang – prima di allora frequentata da soli studenti sinofoni – fu fusa con l’Università di Singapore, dando così vita all’Università Nazionale di Singapore (National University of Singapore). Tuttavia, la politica linguistica del PAP non ha mancato di prevedere alcune eccezioni: ad esempio, nelle madrase l’inglese e il malese non soppiantarono l’utilizzo dell’arabo nei programmi di studio, ma anzi avviarono un lento processo di secolarizzazione che ha consentito alla comunità musulmana di integrarsi quasi perfettamente con le altre comunità religiose.
Senza l’individuazione di un idioma comune, che non avrebbe comunque marginalizzato le lingue vernacolari, il multiculturalismo avrebbe avuto vita breve. Oggi l’inglese continua a essere la lingua più parlata in città e, ricorrendo alla suggestiva immagine dell’ex presidente della Corte costituzionale singaporiana, ha finora assicurato alle comunità CMI “uno spazio comune” dove poter sviluppare valori condivisi e alimentare un’identità peculiare[19].
I fondamenti del multiculturalismo
Per descrivere la condizione di diversità sociale di Singapore e di altre realtà similari, è possibile ricorrere al concetto di “polietnicità”, sviluppato da diversi autori a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso[20]. Uno Stato – così come in passato gli imperi – formato al proprio interno da gruppi etnici che sono portatori di precipue rivendicazioni di carattere politico, economico e sociale, ha maggiore convenienza a coinvolgere le comunità nella costruzione di un’identità nazionale il più possibile omogenea, piuttosto che ravvivare le tensioni e le rivalità tra di esse. Nel caso di Singapore, la diversità non è stata considerata come un’eccezione, bensì come il paradigma più adeguato da impiegare nel discorso pubblico per dare legittimità alla definizione di un’inedita identità nazionale. Inoltre, nel rispetto del principio “regardless of race, language or religion”, l’etnia non è mai utilizzata come leva politica per aizzare tra di loro le comunità linguistiche e culturali. Non vi è spazio alcuno per gli antagonismi, che mettono in discussione la sopravvivenza delle forme di dialogo tra i tre gruppi etnici. Fin dagli anni Sessanta, Lee e altre illustri personalità politiche della nazione singaporiana come S. Rajaratnam[21] avevano scommesso sul fatto che l’uscita dalla Federazione avrebbe posto le basi per dar vita a una nazione che non avrebbe, per principio, favorito la comunità cinese a danno delle minoranze in diversi ambiti sociali, dall’istruzione alle politiche abitative.
Un primo elemento meritorio che ha contribuito a forgiare l’identità nazionale singaporiana è stata la meritocrazia, che ha inciso in maniera fondamentale non solo per la crescita economica del Paese, ma è stato anche un fattore sociale in grado di fornire un’eguaglianza delle opportunità tra le etnie. Il merito è espressamente citato nella Carta fondamentale (art. 104, 3) e la competizione è sempre stata una componente immancabile sia nel contesto scolastico e universitario sia nel processo di selezione delle aziende e della pubblica amministrazione del capitale umano. Ogni valutazione è operata più sulla base delle competenze dei candidati che della loro appartenenza a uno specifico gruppo etnico o religioso. Il principio meritocratico ha, nel settore dell’istruzione, cancellato qualsiasi coscienza di razza. Così, il percorso professionale trova giustificazione meno nell’appartenenza a una etnia specifica e più nella “naturale capacità” e negli “sforzi” del singolo di sviluppare la propria carriera scolastica[22]. La narrativa diffusa nell’isola asserisce che l’etica della responsabilità e del lavoro è essenziale per il successo economico di una piccola nazione e per il raggiungimento di uno status sociale agiato che ogni cittadino, a parità di condizioni, si impegna a raggiungere per il “timore di essere tagliato fuori”. A Singapore questo timore psicologico è espresso con il termine colloquiale kiasu, derivante dal dialetto hokkien, il più parlato dai singaporiani sinodiscendenti.
Il PAP fa un costante affidamento sulla cultura della meritocrazia per ragioni non solo ideologiche, ma anche politiche: il paradigma secondo cui la buona preparazione e le conoscenze garantiscono il successo permette, infatti, di giustificare la propria egemonia in un contesto elettorale, di fatto, a partito unico e riunire così il consenso attorno alle politiche tecnocratiche dello Stato sviluppista[23]. In questo senso, la meritocrazia diventa un costrutto calato dall’alto e inserito come valore culturale di riferimento per la costruzione dello Stato nazionale. Infine, il merito consente di mantenere viva la coesione e l’armonia sociale grazie al contatto con culture d’affari ed etiche di lavoro variegate. Uno studio di qualche anno fa ha osservato che più sono diversificate le reti di persone in termini di genere, età, etnia, religione e classe sociale, maggiore è il loro senso di appartenenza a una comunità politica[24]. Difatti, in un contesto polietnico come quello singaporiano i cittadini imparano velocemente a relazionarsi con culture differenti e, con la stessa facilità, sono in grado di assorbire nuovi valori da altri milieu sociali.
Una società multietnica vede il razzismo come una minaccia non solo all’ordine pubblico, ma anche alla sicurezza nazionale. Il Parlamento non può approvare disegni di legge che vadano a svantaggio di un particolare gruppo etnico, pena l’intervento del Consiglio presidenziale per le Minoranze etniche, l’organo costituito nel 1970 che è preposto a individuare e a sottoporre all’attenzione del legislatore tutti quei provvedimenti ritenuti discriminatori (differentiating measures). Benché la sua missione sia quella di non lasciare indietro nessuno e pur essendo un organo di nomina presidenziale, il consiglio manca di una certa indipendenza dal governo. Ciò vale anche per il Consiglio per l’Armonia religiosa, l’altro organo di nomina presidenziale deputato a salvaguardare la coesione interetnica. In una delle sue ultime interviste rilasciate prima del passaggio di consegne con Lawrence Wong, Lee Hsien Loong ha dichiarato che malgrado il governo abbia fatto di tutto per favorire l’armonia razziale, laddove la legge non può arrivare è essenziale che il cittadino esprima la propria costernazione di fronte a un episodio di discriminazione, mentre l’uomo di Stato deve prendere una chiara posizione di condanna, dettata non dall’istinto ma dalla consapevolezza che la sua reazione incoraggerà lo sviluppo di una società libera da condizionamenti culturali[25].
Singapore ha sperimentato in alcune fasi della sua storia episodi di razzismo più o meno gravi, ma il fatto che questi si siano verificati con una certa infrequenza non sembra pregiudicare il valore della multiculturalità, ormai convenzionalmente accettato da tutti. Per di più, la tempestività con cui il governo interviene per migliorare il contesto legislativo dimostra che il contrasto al razzismo è una cosa seria. Un primo esempio è la Tripartite Alliance for Fair and Progressive Employment Practices (TAFEP), un’iniziativa del 2006 composta dal Ministry of Manpower, il National Trades Union Congress e la Singapore National Employers Federation per promuovere l’adozione di pratiche eque e responsabili nei luoghi di lavoro, pubblici e privati. Un secondo esempio significativo è la modifica della Workplace Fairness Legislation, proposta durante la ventennale esperienza di governo di Lee Hsien Loong (2004-2024) per rafforzare la protezione contro le discriminazioni e per assicurare assistenza alle lavoratrici e ai lavoratori che denunciano. Secondo i dati del governo, su un campione di 3.600 cittadini e residenti permanenti, la percentuale di lavoratori che nel 2022 ha subito discriminazione sul luogo di lavoro era pari all’8,2%, in leggera flessione rispetto all’anno precedente (8,5%). Questi comportamenti sono stati dettati dalla salute mentale (4,7%), dall’età (3,7%) e dall’etnia (2,6%). È curioso come le discriminazioni aumentino tra coloro che sono alla ricerca di lavoro: nello stesso anno, infatti, il 23,8% degli intervistati ha dichiarato di essere stato, almeno una volta, vittima di insulti per via dell’età (16,6%), dell’etnia (7,1%) e della salute mentale (5%[26]).
Diverse proposte di legge sono attualmente in discussione in Parlamento, come quella (Maintenance of Racial Harmony Bill) che intende rivedere la legislazione esistente relativa alle offese di carattere razziale e religioso. Il testo, che ha accolto parte delle raccomandazioni avanzate nel 2022 dal Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale[27], introduce ordini restrittivi nei confronti di chi è autore o diffonde contenuti potenzialmente lesivi dell’armonia razziale e offensivi della dignità della persona; prevede provvedimenti che intendono impedire l’influenza straniera nei self-help groups, la miriade di associazioni non-profit nate su base etnica come il Chinese Development Assistance Council, Yayasan MENDAKI o la Singapore Indian Development Association che, pur operando prevalentemente con le donazioni dei loro iscritti, ricevono una minima quota di finanziamenti dal governo per il loro impegno alla lotta contro il razzismo nei campi dell’istruzione e della formazione giovanile; infine, ed è la proposta più innovativa delle tre presentate dal disegno di legge, istituisce l’obbligo in capo a colui che commette l’offesa o che incita alla violenza di rimediare al danno offrendo un servizio alla comunità etnica colpita. L’azione del Parlamento ha fatto seguito a quella del governo e, in particolare del ministero degli Interni, che nel 2019 ha pubblicato su uno dei quotidiani più diffusi a livello nazionale una lista di cinque regole da rispettare per la difesa dell’armonia razziale[28].
Nondimeno, gli interventi legislativi di lotta al razzismo e alle discriminazioni sono, da soli, insufficienti a favorire la coesione e la tolleranza interetnica. Per garantire la più ampia partecipazione alla cosa pubblica, il sistema elettorale singaporiano si è dotato di un meccanismo che ripartisce, su base proporzionale, la rappresentanza della comunità cinese e di quelle minoritarie. La presenza di una quota percentuale prefissata di parlamentari provenienti dalle minoranze malese e indiana è garantita da una delle due tipologie di circoscrizioni elettorali riconosciute dalla legge, ovvero le Group Representation Constituencies (GRCs). In ciascuna delle 17 GRCs designate all’interno dei confini nazionali i partiti devono includere almeno un candidato appartenente a una minoranza etnica. Generalmente, circa un quarto del numero complessivo di parlamentari – 98 nell’attuale legislatura – è eletto all’interno delle suddette circoscrizioni, mentre alla restante parte tocca concorrere per il seggio con un sistema maggioritario uninominale, le Single Member Constituencies (SMCs).
Infine, in termini di politiche sociali, i risultati più significativi del PAP sono stati conseguiti con il piano di edilizia residenziale pubblica, il più grande progetto di costruzione di alloggi popolari mai concepito nel Sud-Est asiatico, che ha contribuito a rafforzare la politica di integrazione ostentata dal partito. Quando le prime costruzioni partirono nella seconda metà degli anni Sessanta, il PAP intendeva riprodurre la cultura di “villaggio” (kampung) dei popoli malesi, che si contraddistingue per un forte senso di solidarietà e di appartenenza alla comunità. Oltre l’80% dei singaporiani vive in appartamenti popolari di proprietà – la cui cifra oggi supera il milione[29] – che sono assegnati a famiglie e singoli individui dall’Housing and Development Board secondo un complesso meccanismo di quote, aggiornate con cadenza mensile, e di criteri introdotto nel 1989 dalla “Politica di Integrazione Etnica” (PIE). Questo schema assicura una ripartizione bilanciata delle comunità etniche nei distretti, nei quartieri e all’interno dei condomini, nel rispetto dell’armonia e della coesione etnica, prevedendo una serie di rigide restrizioni alla vendita degli appartamenti. In pratica, l’acquirente può comperare l’alloggio solo da un venditore che deve necessariamente appartenere alla stessa comunità etnica. La vendita fuori-quota, ovvero a un potenziale proprietario di un’etnia diversa, rischierebbe di compromettere l’equilibro sociale di un distretto, quartiere o condomino, andando a creare dei veri e propri ghetti come, in effetti, si verificò dalla metà degli anni Sessanta fino all’approvazione della PIE. L’aspetto architettonico più interessante che caratterizza ormai tutti i condomini popolari è la presenza dei “piani vuoti” (void decks), ovvero delle aree di aggregazione situate al piano zero, dove le famiglie possono riunirsi e organizzare svariate attività ricreative come pranzi o cene a tema etnico, grazie anche alla presenza di frigoriferi e congelatori comuni dentro cui conservare alimenti a breve e lunga conservazione. I piani vuoti sono, assieme al rojak, assurti a simbolo del multiculturalismo e della tolleranza di Singapore.
I limiti e gli aspetti controversi del modello
A fronte dei successi conseguiti durante il processo di sviluppo dell’identità nazionale singaporiana, il modello multiculturale presenta, tuttavia, sei limiti strutturali che attengono al discorso pubblico, alla rappresentanza politica, alla composizione del settore dell’istruzione e del mercato del lavoro, alla distribuzione del reddito, ai dati sui matrimoni misti officiati in città e, infine, alla decantata politica di edilizia popolare.
Nel settembre 2023, il rapper Subhas Nair fu condannato a sei settimane di carcere per aver istigato all’odio razziale in un video musicale caricato sul proprio canale YouTube. Il giovane artista è stato accusato di aver parodiato, assieme alla sorella Preeti Nair (presente sulla piattaforma video con lo pseudonimo Preetipls, che conta oltre quindicimila iscritti), la pubblicità di un noto sito di pagamenti online che vedeva come protagonista il dj e attore di discendenza cinese Dennis Chew, il cui viso fu per l’occasione truccato di marrone nel tentativo di interpretare un cliente dai tratti somatici vagamente indiani. Il testo della canzone lamentava proprio il brownfacing dell’attore e, dopo la pubblicazione del video, il rapper rincarò la dose rispondendo con decisione ai commenti sul proprio profilo Facebook dei fan che non approvano la strofa “I cinesi sono sempre qui fuori a fregarvi”. Quest’ultima è stata ritenuta offensiva dall’autorità giudiziaria, che ha così disposto per il rapper la pena con la condizionale per aver continuato a incoraggiare “ill will” tra i gruppi etnici e religiosi, dopo gli analoghi episodi di cui egli fu protagonista nel 2019 e nel 2021.
Il codice penale punisce duramente, con la reclusione fino a tre anni, qualsiasi commento che rischia di urtare la sensibilità di un gruppo etnico e religioso e pregiudichi l’armonia razziale. Vale la pena notare come il codice estenda al gruppo etnico di appartenenza l’ingiuria rivolta al singolo individuo: ciò risulta problematico perché concede all’autorità giudiziaria un ampio potere di discrezionalità che può, in certi casi, essere sfruttato per prendere di mira una specifica comunità, inficiando di conseguenza i presupposti del multiculturalismo. Anche nell’ambiente digitale singaporiano i discorsi motivati dall’odio razziale sono diventati la norma. Con l’approvazione, nel 2019, della legge sulla pubblicazione e la diffusione in rete di notizie false e offensive (il Protection from Online Falsehoods and Manipulation Act) è stata istituita un’autorità garante con il compito di monitorare i contenuti e i commenti su social media, blog e altre pagine web. Il problema che discende da questo provvedimento sta nel fatto che è il governo a determinare la natura pregiudizievole di una notizia pubblicata sulla rete, indipendentemente dalla decisione adottata dal fornitore del servizio, che potrebbe verosimilmente opporsi alla rimozione del post o alla sospensione dell’utente sulla base delle regole stabilite. Il caso di Subhas Nair dimostra quanto inflessibile sia la linea del governo sul contrasto al razzismo, sebbene appaia alquanto paradossale che la TAFEP non annoveri nelle sue rilevazioni periodiche sulle discriminazioni anche le forme involontarie di razzismo (il cosiddetto “razzismo casuale), come ad esempio l’imitazione atta a deridere l’accento o la gestualità della vittima, oppure la discussione su stereotipi culturali e religiosi che possono ledere la sensibilità personale.
Se il sistema delle GRCs assicura in Parlamento una quota fissa di candidati appartenenti alle minoranze, l’inevitabile lottizzazione etnica delle istituzioni ha finora mancato di incrementare il peso delle comunità malese e indiana. Dal 1959, il primo ministro è sempre stato di etnia cinese e da politici di origine cinese sono oggi occupate le cariche di vice-primo ministro (Heng Swee Keat e Gan Kim Yong) e di Senior Minister (Lee Hsien Loong e Teo Chee Hean). Sui diciannove componenti dell’attuale governo, solo cinque membri non sono di discendenza cinese, in un rapporto di uno a quattro. Invece, sono indiani sia il presidente della Repubblica sia il presidente della Corte Suprema. Il Comitato esecutivo centrale del PAP, l’organo decisionale del partito di governo, è composto da diciassette membri, di cui quattro non cinesi: ancora una volta, in un rapporto di uno a quattro. Tanto più che, come sostenuto dall’influente vice-primo ministro Heng Swee Keat, potrebbe volerci ancora molto tempo perché un politico di etnia malese, indiana o euroasiatica possa concorrere alla guida del PAP e, pertanto, del governo del Paese[30]. Nell’attuale legislatura il numero di parlamentari di discendenza cinese supera il 75%, una percentuale proporzionale al numero di cittadini di etnia cinese che conferma, almeno con riguardo alla rappresentanza in politica e nelle istituzioni, l’esistenza di un “privilegio cinese”, tema che è stato oggetto di dibattito in anni recenti[31]. La supremazia politica dei cinesi è un fatto acclarato, ma non significa che essi governino al solo scopo di fare gli interessi del proprio gruppo etnico. Di certo, la prospettiva di aumentare la soglia minima di candidati malesi e indiani nominati dai partiti nelle GRCs darebbe maggiore voce in capitolo alle rivendicazioni delle minoranze e consentirebbe loro di allargare la platea di elettori anche al di fuori dei propri confini etnici.
A Singapore, è opinione comune che il successo e la realizzazione professionale non dipendano dall’estrazione etnica[32], ma solo dall’impegno e dai sacrifici. Tuttavia, anche se il campione coinvolto non può essere rappresentativo di una realtà certamente più complessa, un sondaggio del 2016 rivelava come per oltre il 60% delle minoranze etniche MIO l’appartenenza all’etnia maggioritaria costituisse un vantaggio/privilegio[33] in ambito lavorativo. L’esperienza dimostra, infatti, che non sempre buoni risultati scolastici assicurano alle minoranze etniche né l’accesso alle università nazionali più prestigiose, né l’assunzione nelle aziende e società in cui prevale la mentalità imprenditoriale di stampo cinese. Nel contesto lavorativo singaporiano fortemente competitivo, il grado di istruzione è un criterio centrale della meritocrazia, determina le ineguaglianze e ha effetti sulla mobilità sociale, perché a un alto livello di istruzione corrispondono ambite opportunità di carriera nella pubblica amministrazione e nel settore privato. Eppure, sebbene gli studenti di etnia malese stiano progressivamente scalando le classifiche di performance in ambito scolastico e universitario, i cinesi continuano a far registrare i risultati più alti, mentre gli indiani si trovano ancora relegati in una posizione intermedia, distaccati di molto dai cinesi, soprattutto a causa delle limitate interazioni all’interno della loro stessa comunità (tra tamil e bhojpuri, ad esempio), così come con le altre etnie[34]. I dati del Ministero dell’Istruzione riferiti al 2022 ci dicono che gli studenti cinesi hanno stabilito i migliori risultati nel percorso scolastico che va dalla scuola primaria (della durata di sei anni) alla formazione post-secondaria (dalla durata di tre anni circa, che include i college, i politecnici e gli istituti di formazione professionale), seguiti da quelli indiani e malesi. Sempre gli studenti cinesi hanno fatto registrare le migliori prestazioni in inglese, matematica e scienze, mentre i malesi primeggiano nella seconda lingua obbligatoria[35], che prevede un esame sulla lingua madre e il cui insegnamento è impartito fin dalla scuola primaria. Pertanto, se è indubbio che per i cinesi che possiedono un invidiabile curriculum scolastico si aprano le opportunità di carriera più prestigiose, ciò non vale sempre automaticamente per uno studente di una minoranza etnica che ottiene i medesimi risultati.
Fino a vent’anni fa il livello di istruzione ha inciso in misura minore nella distribuzione del reddito tra le comunità etniche, essendo altre le cause di discriminazione che spesso conducevano i membri delle minoranze a ricoprire mansioni con basse retribuzioni rispetto a quelle ottenute dai cinesi, i veri dominatori della sfera economica[36]. Si è, da tempo, concordi sul fatto che ci siano ragioni di carattere etnico, più che di classe, dietro la presenza di una linea di frattura tra popolazione con reddito alto e quella con reddito basso. Generalmente, i cinesi si trovano nella fascia più ricca della popolazione, i malesi in quella più povera e gli indiani in posizione intermedia. L’istituto di statistica singaporiano non elabora dati su reddito e ricchezza su base etnica e una delle rare survey disponibili che analizza questi indicatori è stata pubblicata dall’organizzazione AMP, che però si sofferma soltanto sulla comunità malese. La ricerca constata che la differenza tra il reddito mediano della comunità malese e quello nazionale era minima negli anni Settanta. Il divario è aumentato vent’anni più tardi, quando i membri delle comunità cinese e indiana, nonché i lavoratori stranieri qualificati, hanno lasciato il vuoto dietro ai malesi in termini di competenze e risultati professionali. A partire dal Duemila, il reddito individuale e quello famigliare dei lavoratori di etnia malese sono cresciuti in misura inferiore rispetto a quelli di etnia cinese e indiana. Il reddito mediano individuale è diminuito, mentre quello famigliare è aumentato: ciò è dovuto al fatto che i giovani malesi sono più istruiti dei loro genitori e, di conseguenza, percepiscono degli stipendi più alti all’interno di un nucleo famigliare[37].
Un aspetto su cui vale la pena indugiare sono i dati relativi ai matrimoni misti, messi a disposizione dall’istituto di statistica singaporiano. Le cerimonie che sono state officiate nel 2022 sono 4.201, su un totale di 24.767, ovvero meno del 17%, un matrimonio su sei. Nel 2002, invece, su 20.657 matrimoni, quelli tra individui di gruppi etnici differenti sono stati 2.441, quasi il 12%[38]. La percentuale è leggermente aumentata nel corso di un decennio ed è largamente raddoppiata rispetto ai dati registrati tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta[39], anche se rimane comunque più bassa (del 33%) dei matrimoni celebrati tra cittadini di Singapore e quelli di altre nazionalità[40]. Tuttavia, benché questi numeri non possano essere considerati come l’unico indicatore attraverso cui analizzare le relazioni tra i diversi gruppi etnici, pare opportuno sottolineare come tale pratica non sia propriamente incoraggiata dalle comunità etniche.
Il sesto, e ultimo, limite che è possibile riscontrare nel modello multiculturale singaporiano riguarda il sistema di assegnazione degli alloggi popolari. Gran parte degli studi si è focalizzata molto sull’integrazione spaziale e poco sulla segregazione socio-economica che si è generata all’interno dei contesti abitativi pubblici. Nella fattispecie, dopo l’entrata in vigore della PIE il nuovo sistema delle quote etniche ha distorto il mercato immobiliare, incrementando i prezzi degli appartamenti in diversi distretti e premiando gli acquirenti più ricchi, dando così vita nei fatti a una redistribuzione più su base reddituale che etnica. Nei quartieri ad alta concentrazione di proprietari di etnia cinese, gli appartamenti trovano facilmente acquirenti cinesi, a patto che i distretti, i quartieri o i condomini non abbiano raggiunto il limite massimo della quota a loro riservata. Ciò produce una pressione verso l’alto dei prezzi delle case di proprietà dei cinesi, mentre quelli di proprietà delle minoranze etniche subiscono una pressione verso il basso[41]: questo è, peraltro, l’unico modo per convincere le minoranze ad abitare nei quartieri o condomini caratterizzati da un’alta presenza cinese. Allo stesso modo, nei quartieri ad alta densità di malesi e indiani in cui la quota etnica di assegnazione abitativa è satura, i cinesi devono rivendere i propri appartamenti esclusivamente a potenziali acquirenti della loro stessa comunità e, pertanto, sono disposti a ribassare il prezzo di vendita pur di convincerli a comperare un immobile in un distretto, quartiere o condominio in prevalenza abitati da minoranze, in cui i cinesi altrimenti non vivrebbero. Al contrario, le abitazioni di malesi e indiani avranno un prezzo di mercato più alto[42]. Sulla base di queste considerazioni, risulta evidente che la PIE impedisce ai proprietari di rivendere, al valore di mercato, la propria casa in quei distretti, quartieri o condomini abitati prevalentemente da comunità etniche diverse dalla loro[43].
Conclusioni
Il successo di Singapore è convenzionalmente associato alle avveniristiche infrastrutture (come l’aeroporto internazionale di Changi) costruite nell’esiguo spazio urbano dell’isola, alla presenza di un hub finanziario di livello internazionale che ha scalzato il primato di Hong Kong, oppure al severo sistema di sanzioni che le autorità comminano a coloro che imbrattano i muri, gettano per terra un fazzoletto di carta o chiedono l’elemosina per strada. Tutti e tre questi aspetti non potrebbero essere analizzati – e da molti omaggiati – senza prima riconoscere al PAP una perdurante ostinazione nel garantire coesione, dialogo e tolleranza tra le tre comunità etniche in un clima di alterità culturale, dove l’unico punto di incontro è la condivisione dei valori della tradizione asiatica. Il modello multiculturale creato artificialmente ha permesso all’isola non solo di sopravvivere in un contesto politico, quello del Sud-Est asiatico, difficile e turbolento per almeno tutta la metà del Novecento; bensì anche di raggiungere livelli di crescita economica impensabili per uno Stato dalle dimensioni ridotte e che dipende largamente dall’estero per l’approvvigionamento di risorse naturali e di una buona fetta di prodotti agricoli.
Ciononostante, il modello ha mostrato le sue falle e necessita dopo oltre sei decenni di una rivisitazione da parte del governo. Se, da un lato, i numerosi sforzi volti ad assicurare l’armonia sociale hanno sortito risultati positivi, dall’altro, il PAP ha dimenticato di occuparsi delle diseguaglianze tra le tre etnie e di quelle interne a ogni comunità, un vuoto che è stato occupato solo parzialmente dalle organizzazioni e associazioni non profit. A ben guardare, il multiculturalismo è stato più una necessità ben congegnata, prima ancora che una scelta politica, da un’élite al potere che ha accentrato su di sé il processo di nation-building credendo fosse l’unico modo per evitare lo scoppio delle rivolte razziali come quelle del 1964. Il modello di convivenza è, però, viziato da una certa rigidità, che ha stabilito dei netti confini tra le comunità etniche difficili da travalicare. Spetterà al nuovo primo ministro trovare una soluzione ai problemi del modello multiculturale.
[1] Tan, K.P. (2020), “The People’s Action Party in Government: The Pole for ‘Big Tent’ Singapore”, in Chong, T. (a cura di), Navigating Differences: Integration in Singapore. Books and Monographs, Singapore: ISEAS – Yusof Ishak Institute, pp. 152-155.
[2] Elaborazione dati da Government of Singapore, Department of Statistics, “Singapore Residents by Age Group, Ethnic Group and Sex, End June”, rilevazione aggiornata al 4 settembre 2023, disponibile online al link https://tablebuilder.singstat.gov.sg/table/TS/M810011.
[3] Barr, M.D., e Z. Skrbis (2008), Constructing Singapore: Elitism, Ethnicity and the Nation-building Project, Copenhagen: NIAS Press, p. 51.
[4] Ho, G. (2021), “Younger Singaporeans to Decide Where to Draw Boundaries on Discussions on Race and Religion: Shanmugam”, The Straits Times, 9 settembre, disponibile online al link https://www.straitstimes.com/politics/younger-singaporeans-to-decide-where-to-draw-boundaries-on-discussions-on-race-and-religion.
[5] Sul dibattito terminologico relativo all’utilizzo di questa versione, in ragione di “diaspora cinese” e “cinesi d’oltremare”, si veda Taylor, J.E., e L. Xu (a cura di) (2022), Chineseness and the Cold War: Contested Cultures and Diaspora in South-East Asia and Hong Kong, Routledge: Abingdon e New York, pp. 6-9.
[6] Sul problema della diaspora sinofona singaporiana durante gli anni della Guerra fredda, cfr. Ngoei, W-Q. (2019), Arc of Containment: Britain, the United States, and Anticommunism in South-East Asia, Ithaca; NY: Cornell University Press.
[7] Chin, J. (2023), “The PAP Model: Can the 4G Hold On to Power?”, The Round Table, Vol. 112 (2), p. 174.
[8] Cfr. Ibrahim, N.A. (2018), “Everyday Authoritarianism: A Political Anthropology of Singapore”, Critical Asian Studies, Vol. 50 (2), pp. 219-231.
[9] Huat, C.B. (2003), “Multiculturalism in Singapore: An Instrument of Social Control”, Race & Class, Vol. 44 (3), p. 74.
[10] Lee, K.Y. (2000), From Third World to First: Singapore and the Asian Economic Boom, New York: Harper Collins Publishers, pp. 153-154.
[11] The Straits Times (1965), “The Two ‘Evils’ in S’pore”, 10 gennaio, disponibile online al link https://eresources.nlb.gov.sg/newspapers/digitised/article/straitstimes19650110-1.2.22.3?qt=racial%2c+harmony.
[12] Per la teorizzazione di questo concetto innovativo e le sue caratteristiche, si rimanda a Diamond, J. (2019), Crisi. Come rinascono le nazioni, Torino: Einaudi (trad. it.).
[13] “Transcript of The Prime Minister’s Speech at the Political Study Centre on 16th August, 1964, in Connection with the Seminar on ‘The Concept of Democracy’ Organised by the Joint Committee for Radio Courses”, 16 agosto 1964, The National Archives of Singapore, disponibile online al link https://www.nas.gov.sg/archivesonline/speeches/search-result.
[14] “Translation of a Speech (in Mandarin) by The Prime Minister, Mr Lee Kuan Yew, at a Dinner Given by The Nanyang University Graduates Association on 12th February, 1966”, 12 febbraio 1966, The National Archives of Singapore, disponibile online al link https://www.nas.gov.sg/archivesonline/data/pdfdoc/lky19660212.pdf.
[15] The Straits Times (1967), “Racial Peace Impresses Pacifists”, 30 marzo, disponibile online al link https://eresources.nlb.gov.sg/newspapers/digitised/article/straitstimes19670330-1.2.31?qt=racial%2c+harmony%2c+singapore.
[16] Cfr. The Straits Times (1966), “An Example of Racial Harmony: Archbishop”, 14 gennaio, disponibile online al link https://eresources.nlb.gov.sg/newspapers/digitised/article/straitstimes19660114-1.2.36; The Straits Budget (1962), “Kennedy Praises Racial Harmony in Singapore”, 21 febbraio, disponibile online al link https://eresources.nlb.gov.sg/newspapers/digitised/article/straitsbudget19620221-1.2.40?qt=racial%2c+harmony%2c+singapore.
[17] Lee, From Third…, cit., pp. 146 e 151.
[18] Tarulevicz, N. (2008), “Hidden in Plain View: Singapore’s Race and Ethnicity Policies”, in Tarling, N., e T. Gomez (a cura di), The State, Development and Identity in Multi-Ethnic Societies Ethnicity, Equity and the Nation, Abingdon e New York: Routledge, p. 139.
[19] Chan, S.K. (2013), “Multiculturalism in Singapore: The Way to Harmonious Society”, Singapore Academy of Law Journal, Vol. 25, p. 87.
[20] Si vedano, a mo’ d’esempio, Fibiger Bang, P. (2010), “Imperial Ecumene and Polyethnicity”, in Barchiesi, A., e W. Scheidel, The Oxford Handbook of Roman Studies, Oxford: Oxford University Press, pp. 671-684; McNeill, W.H. (1986), Polyethnicity and National Unity in World History, Toronto: University of Toronto Press.
[21] The Straits Times (1964), “The Best Way to Survive”, 14 febbraio, disponibile online al link https://eresources.nlb.gov.sg/newspapers/digitised/article/straitstimes19640214-1.2.25?qt=racial%2c+harmony%2c+singapore.
[22] Chiong, C. (2021), “Families, the State and Educational Inequality in the Singapore City-State”, Abingdon e New York: Routledge, pp. 24 e 56.
[23] Cheang, B., e D. Choy (2023), “Culture of Meritocracy, Political Hegemony, and Singapore’s Development”, International Journal of Politics, Culture, and Society, disponibile online al link https://doi.org/10.1007/s10767-023-09458-x.
[24] Chua, V., et al. (2021), Social Capital in Singapore: The Power of Network Diversity, Abingdon e New York: Routledge, p. 9.
[25] Government of Singapore, Prime Minister’s Office (2024), PM Lee Hsien Loong’s Interview with Local Media – Section 3: Social Safety Nets and Social Cohesion, maggio, disponibile online al link https://www.pmo.gov.sg/Newsroom/PM-Lee-Hsien-Loong-English-Interview-Social-Safety-Nets-and-Social-Cohesion-May-2024.
[26] Government of Singapore, Ministry of Manpower (2023), “Overall Improvements in Workplace Fairness Standards”, 31 luglio, disponibile online al link https://www.mom.gov.sg/newsroom/press-releases/2023/0731-overall-improvements-in-workplace-fairness-standards.
[27] Cfr. Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (2022), “Concluding Observations on the Initial Report of Singapore”, CERD/C/SGP/CO/1, febbraio, disponibile online al link https://documents.un.org/doc/undoc/gen/g22/241/44/pdf/g2224144.pdf?token=NZsDPufNFx2wCCWL1Z&fe=true.
[28] Shanmugam, K. (2019), “Racial Harmony: Five Critical Steps to Keep the Peace”, The Straits Times, 15 ottobre, disponibile online al link https://www.straitstimes.com/opinion/racial-harmony-five-critical-steps-to-keep-the-peace.
[29] Cfr. Government of Singapore, Housing and Development Board, “Public Housing – A Singapore Icon”, disponibile online al link https://www.hdb.gov.sg/about-us/our-role/public-housing-a-singapore-icon.
[30] Lim, A. (2019), “Singapore Will Have Ethnic Minority PM at Right Time, Says Heng Swee Keat”, The Straits Times, 29 marzo, disponibile online al link https://www.straitstimes.com/singapore/spore-will-have-ethnic-minority-pm-at-right-time-says-minister.
[31] Cfr. Liu, H., e L. Huang (2022), “Paradox of Superdiversity: Contesting Racism and ‘Chinese Privilege’ in Singapore”, Journal of Chinese Overseas, Vol. 18 (2), pp. 295-296; Tan, Z.H. (2022), “The Implications of ‘Chinese Privilege’ on Singapore’s Relations with China”, Yale Journal of International Affairs, 22 dicembre, disponibile online al link https://www.yalejournal.org/publications/the-implications-of-chinese-privilege-on-singapores-relations-with-china.
[32] Lim, V. (2022), “Growing Number of People in Singapore Feel Racism Is an Important Problem: CNA-IPS Study, Channel News Asia, 2 aprile, disponibile online al link https://www.channelnewsasia.com/singapore/racism-discrimination-singapore-survey-ips-2601276.
[33] Mathews, M. (2016), “Channel NewsAsia-Institute of Policy Studies (CNA-IPS) Survey on Race Relations”, Institute of Policy Studies & Lee Kuan Yew School of Public Policy, National University of Singapore, pp. 13-14, disponibile online al link https://lkyspp.nus.edu.sg/docs/default-source/ips/CNA-IPS-survey-on-race-relations_190816.pdf.
[34] Cfr. Mirchandani, K., e T. Skelton (2023), “Navigating the Racial Landscape: Malay Youth Experiences of Education and Work in Singapore”, Journal of Intercultural Studies, Vol. 44 (6), pp. 935-950; Balachandran, L. (2022), Tamils, Social Capital and Educational Marginalization in Singapore Labouring to Learn, Abingdon e New York: Routledge; Lee, K.J. (2006), “Chinese and Malays in Singapore: Incomes, Education and Employment, 1954-1995”, in Sinha, V. (a cura di), Race, Ethnicity, and the State in Malaysia and Singapore, Leiden: Brill, pp. 169-189.
[35] Cfr. Government of Singapore, Ministry of Education, “Education Statistics Digest 2023”, pp. 53-74, disponibile online al link https://www.moe.gov.sg/-/media/files/about-us/education-statistics-digest-2023.pdf.
[36] Lee, W.K.M. (2004), “The Economic Marginality of Ethnic Minorities: An Analysis of Ethnic Income Inequality in Singapore”, Asian Ethnicity, Vol. 5 (1), pp. 27-41.
[37] The AMP Singapore (2017), Demographic Studies on Singapore Malays, report, pp. 200-201, disponibile online al link https://www.amp.org.sg/wp-content/uploads/2017/06/12-Section-9_Demographic-Study.pdf.
[38] Government of Singapore, Department of Statistics, “Number and Proportion of Inter-Ethnic and Transnational Marriages among Citizen Marriages”, rilevazione aggiornata al 4 settembre 2023, disponibile online al link https://tablebuilder.singstat.gov.sg/table/TS/M830184.
[39] Cfr. Lee, S.M. (1988), “Intermarriage and Ethnic Relations in Singapore”, Journal of Marriage and Family, Vol. 50 (1), pp. 255-265.
[40] Government of Singapore, “Population in Brief 2023”, p. 13, disponibile online al link https://www.population.gov.sg/files/media-centre/publications/population-in-brief-2023.pdf.
[41] Lim, T., C.H. Leong, e F. Suliman (2020), “Managing Singapore’s Residential Diversity through Ethnic Integration Policy”, Equality, Diversity and Inclusion: An International Journal, Vol. 39 (2), p. 112.
[42] Tan, S.B. (2023), “Do Ethnic Integration Policies Also Improve Socio-Economic Integration? A Study of Residential Segregation in Singapore”, Urban Studies, Vol. 60 (4), pp. 707-708.
[43] Cfr. Ibidem; Chiew, C. (2017), “How the Ethnic Quota Can Affect Your Selling/Buying Ability”, Property Guru, 22 maggio, disponibile online al link https://www.propertyguru.com.sg/property-guides/how-the-ethnic-quota-can-affect-your-sellingbuying-ability-6747.
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