L’India è considerata la più grande democrazia al mondo, una nazione multietnica benché frammentata. Quando si tratta di teorie della democrazia e della nazione (nationhood), però, l’India rimane un rompicapo. Da Winston Churchill – che una volta affermò l’idea secondo cui “l’India è solo un’espressione geografica” – al sociologo politico Barringston Moore Jr. – che all’inizio degli anni Sessanta espresse apertamente dubbi sulle prospettive democratiche di un’India afflitta dalla povertà – molti osservatori occidentali hanno mantenuto una posizione per lo più pessimista sulla capacità dell’India di mantenere lo status di nazione unita e multietnica o di continuare a svilupparsi come una democrazia liberale e ben funzionante.
Per quanto riguarda nazione e democrazia, il viaggio dell’India moderna non è iniziato nel migliore dei modi. I coloni britannici perseguirono una politica di divide et impera, soprattutto tra Indù e Musulmani, e quando si ritirarono definitivamente nell’agosto 1947 si lasciarono alle spalle una terra profondamente divisa: l’Impero britannico era diviso in due stati – lo stato indiano, in gran parte indù anche se laico, e lo stato teocratico del Pakistan a maggioranza musulmana. La Partizione del 1947 fu accompagnata da terribili sommosse in cui furono uccise circa due milioni di persone (sia indù che musulmane) mentre circa 15 milioni di persone attraversarono i confini nazionali alla ricerca di maggiore sicurezza. Gli storici continuano a discutere su chi siano stati i responsabili e chi abbia contribuito alle barbarie della Partizione. Un personaggio di spicco nel panorama politico pakistano e forte sostenitore della divisione dell’India è stato Muhammad Ali Jinnah che sottoscriveva la teoria secondo cui l’Impero britannico in India fosse costituito da due culture e quindi due nazioni diverse: indù, da una parte, e musulmane, dall’altra. Jinnah temeva che in assenza di una divisione tra le due nazioni, la minoranza musulmana sarebbe stata costretta a vivere sotto l’oppressione del gruppo maggioritario, gli Indù. Mahatma Gandhi cercò, senza successo, di convincere Jinnah e i suoi seguaci che vi fosse la possibilità di una coesistenza pacifica e armoniosa tra Indù e Musulmani in un’unica India. Gandhi pagò a caro prezzo le sue convinzioni e fu assassinato nel gennaio 1948. Due anni dopo, l’India adottò una costituzione scritta in cui la Repubblica Indiana è descritta come “democratica, laica e socialista”.
La teoria delle due nazioni in cui “religione equivale a nazione” ha subito un duro colpo con la divisione del Pakistan nel 1971 in due stati-nazione distinti: il Pakistan (sul lato nord-occidentale dell’India) e il Bangladesh (sul lato nord-orientale dell’India). La divisione del 1971 fu preceduta da una lunga fase di lotta in cui principalmente i Musulmani bengalesi protestarono contro il colonialismo economico e l’erosione della diversità linguistica e altre forme identitarie che stavano affrontando per mano dei Pakistani occidentali. L’India entrò in guerra contro il Pakistan a causa del genocidio dei Bengalesi perpetuato dai militari pakistani nell’allora Pakistan orientale e del conseguente afflusso di rifugiati bengalesi nei confini nazionali indiani, ottenendo una vittoria militare schiacciante che ha contribuito alla creazione dello stato indipendente del Bangladesh.
Nonostante la grande povertà, i bassissimi livelli di alfabetizzazione e istruzione, una minuscola classe media e un debole apparato statale, l’India post-coloniale è rimasta unita e ha fatto notevoli progressi continuando a passare da un regime democratico al successivo, intervallati da elezioni regolari (per lo più libere ed eque), sin dalla sua indipendenza – fatta eccezione per una breve fase di ventun mesi durante gli anni Settanta in cui le élite politiche sono riuscite a sconvolgere completamente il processo democratico a livello nazionale (l’ondata di proteste che ha fatto seguito all’imposizione di un governo antidemocratico ha poi costretto le élite a ripristinare elezioni e democrazia politica).
A mio parere, due sono le caratteristiche più importanti della democrazia indiana degli ultimi settant’anni. In primo luogo, nonostante in India ci sia una certa varietà di partiti che abbracciano l’intero spettro politico (dalla destra del Bharatiya Janata Party [BJP] ai partiti comunisti), solamente due di questi hanno catturato l’immaginario nazionale e stabilito una sorta di egemonia: l’Indian National Congress (Congresso, in breve), che ha dominato la scena dal 1947 alla metà degli anni Novanta, e il BJP, il cui ruolo egemone ha iniziato a concretizzarsi a partire dal 2010 circa.
La leadership del Congresso è stata caratterizzata dall’adesione ai principi di secolarismo – definito in termini indiani come rispetto e uguaglianza di tutte le religioni piuttosto che separazione delle istituzioni religiose dallo stato – e dall’assistenzialismo con una forte presenza del settore pubblico. D’altra parte, l’egemonia di BJP si è contraddistinta per il marcato legame con l’ideologia dell’Hindutva (supremazia indù), che mira a creare uno stato indù in cui i cittadini di altre fedi religiose sono tollerati ma relegati a uno status di seconda classe.
La seconda caratteristica distintiva della democrazia indiana ha invece a che fare con la straordinaria diversità del patrimonio culturale indiano. Il noto politologo Paul Brass ha osservato come l’eterogeneità culturale dell’India impedisca al paese di diventare una vera e propria dittatura. Poiché la società indiana ha molti partiti politici, élite e gruppi sociali che avanzano continuamente richieste molto diverse tra loro, emerge un modello di contrapposizione e bilanciamento che impedisce a qualsiasi gruppo di prendere il sopravvento. Così facendo, Brass ha messo in discussione la tesi di Jinnah mettendo a nudo l’eterogeneità sociale e culturale che si nasconde nel concetto di “indù”. Tuttavia, il politologo e attento osservatore dell’India Sten Widmalm ha espresso qualche timore sul fatto che la diversità del paese possa non essere un baluardo sufficiente per impedire al BJP e alle altre forze dell’Hindutva di trasformare l’India in uno stato in cui una maggioranza tirannica (quella indù mobilitata dai gruppi Hindutva) opprime coloro che seguono altre fedi.
Il BJP ha vinto le elezioni nazionali del 2014 facendo leva sulla promessa di sviluppo per tutta la società e attenuando il messaggio dell’Hindutva. Il giornalista indiano Swaminathan S. Anklesaria Aiyar ha osservato, però, che dopo la vittoria alle elezioni del 2014, l’Hindutva (o la creazione di uno stato indù) è emerso come obiettivo principale del BJP, perseguito anche in seguito alla rielezione del 2019. Al fine di promuovere un’immagine di “uomo forte e nazionalista al potere” e di calmare i nervi degli Indiani logorati dal terrorismo transfrontaliero, l’attuale amministrazione promuove l’ostilità con il Pakistan, cosa che porta a nuovi fenomeni come l’emergere di discorsi di odio anti-musulmano nei social media da parte di cittadini comuni. Mentre gli scontri e le rivolte tra Indù e Musulmani sono diventati più rari, i linciaggi e le uccisioni di Indiani musulmani per mano di bande di giustizieri indù sono diventati più frequenti nel paese. Ciononostante, Aiyar sostiene che l’India continua a essere una “vivace democrazia in cui i dissidenti, i partiti dell’opposizione, le ONG e le istituzioni della società civile combattono contro l’estremismo nazionalista indù”.
L’India di oggi può essere infatti considerata una “democrazia vivace” se si esamina, ad esempio, il movimento di protesta dei contadini contro le riforme economiche del settore agricolo promosse dal governo centrale. Le contestazioni dei contadini indiani – la maggior parte dei quali ha bassi redditi e poche risorse – contro l’agricoltura “a contratto” indicano che l’inarrestabile forza dell’Hindutva potrebbe aver finalmente incontrato una sua nemesi. La speranza è che la mobilitazione dei contadini possa convincere il governo che tutte le riforme, in una democrazia, dovrebbero essere il risultato di una persuasione rispettosa e non quello di intimidazione, minacce e violenza. Se gli Indiani dell’Hindutva non riusciranno a essere politicamente tolleranti nei confronti di coloro che hanno opinioni e fedi diverse, allora l’esperimento settantennale della democrazia in India vacillerà e fallirà.
Negli ultimi trent’anni e in molte parti del mondo, chi è rimasto escluso dai processi di globalizzazione neoliberale si è unito alle file dei movimenti populisti come nel caso dell’Hindutva in India. Nel tentativo di costruire uno stato indù in India, però, i populisti di destra rischiano di far fallire sia l’esperimento democratico che i tentativi di creare una nazione multiculturale dove la libera espressione è possibile senza provare timore.
Diverse esperienze hanno già dimostrato che la democrazia autentica non può sopravvivere negli stati teocratici. Se la religione induista si ritrovasse a fare il paio con la politica dell’Hindutva come ad adagiarsi sul letto di Procuste e se l’India venisse re-immaginata come uno stato-nazione in cui i cittadini di prima classe sono solo gli Indù che credono nell’ideologia dell’Hindutva, allora temo che l’India possa ancora ritrovarsi a dover fronteggiare dolorose partizioni e divisioni (almeno a livello psicologico e sociale, se non in termini geografici).
Per saperne di più
Aiyar, S. S. A. (2020). Despite Modi, India Has Not Yet Become a Hindu Authoritarian State, Policy Analysis no. 903, Cato Institute. Disponibile su: https://www.cato.org/publications/policy-analysis/despite-modi-india-has-not-yet-become-hindu-authoritarian-state
Brass, P. R. (1991) Ethnicity and Nationalism. Sage.
Dhar, Bi. (2020) “Protesting ‘Agri-reform’: Why Do Farmers Feel the Deck is Stacked against Them?”, thewire.in. Disponibile su: https://thewire.in/agriculture/agri-reform-farmers-protest-msp-pds-contract-farming
Widmalm, S. (2016) “India and the Two Faces of Political Mobilization.” In: Arild Engelsen Ruud e Heierstad, G. (eds.) India’s Democracies: Diversity, Co-optation, Resistance. Scandinavian University Press (Universitetsforlaget), pp. 223–251.
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