L’India come stato indipendente nacque il 15 agosto del 1947, giorno che segnò la fine di più di un secolo e mezzo di dominio coloniale. Due anni e mezzo dopo, il 26 gennaio del 1950, fu varata la Costituzione e si decretò la nascita della Repubblica Democratica dell’India. Il percorso che ha portato alla creazione dello stato postcoloniale indiano non è ovviamente racchiuso nei circa tre anni di lavori dell’Assemblea Costituente (riunitasi per la prima volta il 9 dicembre 1946), ma i principi e l’ossatura generale dello stato contenuta nella Carta Costituzionale contengono e provano a conciliare dibattiti, tensioni, conflitti e ideali emersi in almeno quarant’anni di lotta anticoloniale e di mobilitazione popolare.
È importante ricordare come la fine del regime coloniale britannico coincise con la creazione di non uno, ma due stati indipendenti: India e Pakistan, poi diventati tre con la nascita del Bangladesh nel 1971. La partizione del sub- continente indiano del 1947, e poi la seconda partizione, quella tra Pakistan e Bangladesh del ’71, furono due momenti di violenza collettiva ed estrema che portarono complessivamente a un numero di vittime tra il milione e mezzo e i due milioni e a quasi venti milioni di profughi (Rummel, 1998). Al di là dei numeri, in particolare la partizione del subcontinente del 1947 ha segnato un trauma collettivo le cui cicatrici sono ben visibili ancora oggi. È impossibile nel poco spazio a disposizione esporre le varie tensioni che emersero durante il periodo della lotta anticoloniale, ma è importante sottolineare che l’atto fondativo dello stato indiano indipendente fu una separazione violenta e traumatica, che portò alla nascita di due stati nominalmente corrispondenti a due comunità nazionali: il Pakistan come patria dei musulmani del subcontinente, l’India – in teoria – per tutti gli altri.
Questo trauma collettivo ha racchiuso al proprio interno una serie di altre tensioni e conflitti, la maggior parte dei quali si snodano intorno al nucleo problematico di come dovesse essere concepita la nazione indiana e, di conseguenza, di come lo stato dovesse rappresentare e proteggere i propri cittadini. Molte di queste tensioni non riguardavano solamente l’appartenenza religiosa, né una presunta incompatibilità tra comunità musulmane e hindu del subcontinente, ma avevano un rapporto diretto con la costruzione della macchina amministra tivo/burocratica del nascente stato, ad esempio dal punto di vista linguistico, dal momento che nel subcontinente si parlano una miriade di lingue diverse, spesso scritte in alfabeti diversi, o della rappresentanza negli organi elettivi, che faceva temere a molti gruppi di minoranza lo scivolamento in una posizione di totale subordinazione.
La Costituzione del 1950 mirava a racchiudere questa eterogeneità, e non a caso uno degli slogan più cari a Jawaharlal Nehru, primo ministro dell’India indipendente dal 1947 al 1964 e figura di riferimento nell’Assemblea costituente, era “unità nella diversità”. Secondo questa premessa, la Repubblica indiana doveva essere basata su principi di secolarismo e uguaglianza. La Costituzione rifletteva l’ideale unitario e inclusivo di Nehru e degli altri padri della patria, ma è essenziale sottolineare che altre forze e altri gruppi propugnavano con forza visioni nazionali divergenti. Se la creazione del Pakistan fu il risultato (anche) di un movimento che reclamava un’identità nazionale autonoma per i Musulmani, specularmente altri gruppi rivendicavano un principio etnoreligioso secondo cui l’India in quanto nazione corrispondeva solo alla comunità hindu. È ciò che viene denominato hindutva, termine che potremmo tradurre come induità e che racchiude l’idea che l’essere hindu sia prima di tutto un tratto identitario distintivo e caratterizzante l’appartenenza nazionale.
A questo ideale aderiva anche Nathuram Godse, l’uomo che il 30 gennaio del 1948 assassinò il Mahatma Gandhi, colpevole di aver dedicato la sua vita e il suo messaggio pubblico alla costruzione di una società plurale e alla conciliazione delle tensioni tra hindu e musulmani.
Le sezioni successive affrontano più in dettaglio alcuni aspetti nodali di questa costruzione nazionale e statale, illustrandone sia i successi – ciò che rende oggi l’India un esempio comunque virtuoso di stato multi-identitario e coeso – sia i problemi irrisolti che possono aiutare a comprendere la decisa svolta verso un autoritarismo fortemente connotato dal punto di vista etno-nazionale degli ultimi dieci anni (Sinha, 2021; Jaffrelot, 2021).
Nata dalle macerie lasciate dalla Partition e dalle colossali violenze di massa degli anni 1943-1948, nell’idea di Nehru e di buona parte degli altri costituenti la Repubblica Indiana doveva conciliare le tensioni che avevano portato al disastro umanitario degli anni precedenti, concependo allo stesso tempo una forma statale che fosse democratica ed egualitaria. Per questo, il preambolo della Costituzione poneva l’accento su tre aspetti cruciali: l’India è una repubblica democratica, sovrana e secolare, che deve garantire ai propri cittadini giustizia (sociale, economica e politica), libertà (di pensiero, espressione, credo, fede e culto) e uguaglianza (di status e opportunità). L’enfasi su questi tre aspetti serviva a porre le basi per uno stato in cui tutte le contraddizioni e le enormi disuguaglianze legate alla grande diversità sociale, culturale e religiosa, potessero trovare un terreno di conciliazione. Per trasferire la teoria in pratica, i padri costituenti arrivarono a concepire un sistema di cittadinanze multiple, in cui l’appartenenza– religiosa, regionale e di casta – risultava determinante nello stabilire l’accesso ad alcuni diritti. Questo sistema ruotava intorno a due principi fondamentali: secolarismo e uguaglianza.
Per garantire uguaglianza di opportunità, in un quadro normativo che rispettasse le varie diversità del subcontinente, la Costituzione definiva il ruolo dello Stato secolare in modo attivo. A differenza di molte costituzioni europee, in India il secolarismo veniva inteso non come estraneità dello stato alle questioni identitarie (religiose in particolare), ma piuttosto come equidistanza attiva. Vari articoli della costituzione, infatti, regolamentano il modo in cui la libertà di culto debba essere garantita all’interno dello stato – secondo la filosofa Martha Nussbaum (2007), più che in ogni altra costituzione democratica. Da questo punto di vista, e passando attraverso dibattiti, confronti e fasi di mobilitazione popolare, l’impianto normativo-legislativo dello stato postcoloniale fu pensato in modo da tenere in conto tre macro-livelli di intervento sull’accesso alla cittadinanza, che mirassero a livellare le grandi aree di potenziale disuguaglianza: religione, appartenenza etnica e di casta, lingua.
Queste tre iniziative ponevano lo Stato come agente attivo nel provare a garantire accessibilità ai diritti e rispetto delle diversità, rafforzando un senso di appartenenza a una nazione pensata come inclusiva e allo tesso tempo coesa, nonostante le profonde differenze. Proprio in quest’ottica, tali dispositivi erano pensati per essere temporanei, avrebbero dovuto rimanere attivi per il tempo necessario a livellare le disuguaglianze (nel caso del sistema delle quote) e a rafforzare un senso di cittadinanza unitario (nel caso della lingua nazionale e dei diritti personali) e poi essere disattivati. In buona parte, tutti e tre questi dispositivi hanno avuto un impatto sostanzialmente positivo – così come non pochi effetti collaterali – ma, a 74 anni dalla nascita della Repubblica, invece di aver esaurito la loro funzione sono ancora pienamente in essere e sono motivo di tensioni e conflitti.
Dal punto di vista delle politiche economiche e di sviluppo, i primi governi sotto la guida di Nehru cercarono di affrontare il problema dell’estrema e diffusa povertà puntando sulla creazione di un sistema industriale sotto la guida forte dello stato. Organizzando le politiche economiche in piani quinquennali, i governi di Nehru, prima, e della figlia Indira Gandhi, dopo, cercarono in modi diversi di favorire la crescita del settore pubblico dell’industria pesante ad alta intensità di capitale, e parallelamente di un settore privato, concentrato sulla produzione di beni di consumo. Il governo auspicava che quest’ultimo avrebbe assorbito una vasta quantità di manodopera, ma allo stesso tempo mirava a regolamentare in maniera stringente l’iniziativa privata, attraverso un sistema di licenze per gli investimenti (Adduci, 2009) e per i beni d’importazione, il controllo sui prezzi e sulla distribuzione in alcuni settori chiave e, dal 1969, la nazionalizzazione dei maggiori istituti di credito.
Parallelamente, a fronte di una popolazione che viveva per la stragrande maggioranza in zone rurali (circa l’80% ancora nel 1971; Bhagat, 2018), successivi governi tentarono di affrontare la questione di una più equa distribuzione della terra e di un aumento della produttività agricola, in entrambi i casi con alterne fortune.
Nei primi quindici anni di pianificazione economica, infatti, si registrarono livelli di crescita sia nel settore industriale sia in quello agricolo, ma a questi non corrispose una sostanziale ed equa distribuzione dei benefici di tale crescita, la quale anzi andò a concentrarsi rafforzando settori della borghesia urbana e di medi e grandi proprietari terrieri, che beneficiarono di tentativi abbozzati, ma mai compiuti, di riforma della proprietà terriera. I nodi di questo modello di sviluppo, incentrato sull’imperativo della crescita economica e su una forte centralizzazione dello stato, emersero in tutta la loro problematicità nel quindicennio successivo alla morte di Nehru nel 1964.
In particolare, gli scarsi investimenti in innovazione sono stati alla base di una crescita economica fragile e instabile nel lungo periodo. Allo stesso tempo, sul piano sociale, le politiche in materia di educazione scolastica prevedevano grandi investimenti, ma questi ultimi furono concentrati nettamente sui settori dell’alta formazione, universitaria e post-laurea, trascurando in modo sorprendente la costruzione di un solido sistema di istruzione primaria (Weiner, 1991). In tale contesto, a fronte di un primo quindicennio di crescita economica, non si verificarono sostanziali miglioramenti in termini di riduzione della povertà e delle disuguaglianze, fattore che, nel lungo periodo, impedì lo sviluppo di quel mercato interno di beni di consumo che avrebbe dovuto dare una spinta all’industria privata.
Dopo due anni di transizione venne eletta alla guida del governo la figlia di Nehru, Indira Gandhi (1917-1984). Diventata primo ministro per la prima volta nel 1966, la parabola politica di Indira Gandhi si estese per un periodo di quasi vent’anni e fu, seppur con vicende alterne e complesse, caratterizzata da una grande tendenza accentratrice, per quanto riguarda le funzioni decisionali, e da un forte autoritarismo a fronte di un carisma personale che la rendeva una leader popolare e amata. Seppur in dichiarata continuità con le politiche di pianificazione dello sviluppo impostate nei primi quindici anni di indipendenza, le politiche economiche promosse da Indira Gandhi si discostarono invece in modo significativo, soprattutto per quanto riguarda il settore rurale. A partire dalla fine degli anni ’60 venne avviato un piano di riforme nel settore agrario, volte a promuovere investimenti privati e a favorire un rinnovamento tecnico e tecnologico nel mondo dell’agricoltura. Il piano, noto come “green revolution” aveva infatti come scopo aumentare la pro duttività del settore agricolo attraverso una modernizzazione delle tecniche (grazie all’uso estensivo di fertilizzanti chimici e di sementi selezionate in laboratorio), e incentivare gli investimenti privati, rendendo più facile l’accesso al credito per i coltivatori. Nel corso del primo decennio di attuazione (circa 1969-1980), questo piano di intervento determinò un aumento della produttività agricola, garantendo all’India un ritorno all’autosufficienza alimentare. Allo stesso tempo contribuì ad esacerbare i divari socio-economici, tra i ceti di contadini ricchi e grandi proprietari – che riuscivano ad accedere al credito – e i piccoli proprietari e lavoratori rurali – che rimasero esclusi dai benefici di queste politiche e si trovarono sempre meno produttivi e più impoveriti. Il piano contribuì anche ad accrescere le differenze regionali, visto che questo tipo di interventi richiedevano grandi approvvigionamenti idrici, ed erano quindi applicabili solo in zone, come il Punjab, dove reti di canali e disponibilità d’acqua garantivano irrigazione costante.
Così come per la rivoluzione verde, il decennio degli anni ’70 fu segnato da forti contraddizioni, tra l’autoritarismo populista di Indira Gandhi, caratterizzato da una retorica politica incentrata sulla promessa di maggiore uguaglianza per le fasce più povere della popolazione, e il fallimento delle politiche economiche nel favorire una reale redistribuzione e crescita. Tutto ciò si traduceva in un malcontento crescente e diffuso tra quei ceti della popolazione che, per reddito o per aspirazione, ambivano ad accedere a possibilità di ascesa sociale e a standard socio-economici più elevati, venendo però frustrati da un’economia reale in cui i redditi non cresce vano proporzionalmente alle aspettative (Chatterji, 2023). Le contraddizioni cre scenti di un’economia non in grado di mantenere le promesse di redistribuzione e crescita, e di una stagnazione aggravata dalla crisi del petrolio del 1973 e da anni di scarsità di piogge e di conseguente scarsità di beni primari, unite a un malcontento sempre più diffuso verso la corruzione (che pervadeva tutti i livelli della macchina amministrativa e politica dello stato), portarono allo scoppio di movimenti di protesta sempre più estesi e determinati nella critica al governo. Di fronte a una situazione di conflittualità sociale crescente, il 25 giugno del 1975 Indira Gandhi proclamò lo stato di emergenza nel paese, sospendendo di fatto i diritti garantiti dalla Costituzione e accentrando nella figura del primo ministro tutti i poteri.
Il periodo passato alla storia come Emergency si estese fino al 1977, quando fu la stessa Gandhi a indire nuove elezioni ristabilendo l’ordine costituzionale, e costituì una prima parentesi autoritaria all’interno della vita politica del paese: alla sospensione delle libertà si sovrapposero repressione violenta del dissenso, incarcerazioni indiscriminate e pratiche violente di ingegneria sociale, come le sterilizzazioni forzate orchestrate dal figlio e braccio destro di Indira, Sanjay Gandhi (1946 – 1980), e perpetrate su larga scala e in particolare tra la popolazione maschile degli slum e degli strati più poveri della popolazione urbana. Ma più che solo una rottura nel continuum dell’India postcoloniale come stato democratico, l’Emergenza può essere vista come espressione dei forti contrasti sorti all’interno di un sistema politico-economico che dal 1947 in poi aveva generato dinamiche di trasformazione socio-culturale molto profonde.
L’India alla fine degli anni ’70 non era solo un paese che faticava a trovare una ricetta solida di sviluppo economico e di redistribuzione della ricchezza, a fronte di strati enormi della popolazione che rimanevano bloccati in situazioni di povertà estrema: era anche un paese in cui i fondamenti culturali e ideali alla base dell’idea nehruviana di nazione, e sanciti dalla Costituzione, faticavano a trovare una concretezza pratica nella vita sociale e politica del paese. Rieletta alla guida del governo nel 1980, Indira Gandhi si trovò a dover fronteggiare un movimento insurrezio nale separatista Sikh nel Punjab, al quale rispose con il consueto piglio autoritario facendo reprimere la rivolta con un’azione militare contro i ribelli asserragliati nel Tempio d’oro nella città di Amritsar, il centro di culto più importante della religione sikh, nel giugno del 1984. Questo intervento portò all’uccisione dei separatisti Sikh asserragliati nel tempio e di un numero di civili intorno alle 500 persone, ma suonò allo stesso tempo come una condanna a morte per la stessa Indira Gandhi, che fu assassinata dalle sue guardie del corpo sikh il 31 ottobre dello stesso anno.
Parallelamente, nel 1981, per la prima volta il partito del Congresso aveva vinto le elezioni nello stato del Gujarat con un’operazione di ingegneria elettorale che prometteva di rendere attivo il sistema di quote per le caste svantaggiate, scatenando proteste violente, scontri e disordini da parte di gruppi sociali di casta ‘alta’, che si sentivano danneggiati dall’applicazione di un sistema che avrebbe dovuto fornire un accesso facilitato a strumenti di ascesa sociale per i gruppi storicamente più discriminati. Entrambi i casi – separatismo sikh e scontri sulla Reservation Policy in Gujarat –, rappresentano importanti sintomi di come l’impianto stesso di una nazione inclusiva, basata sul principio dell’unità nella diversità e di un secolarismo attivo da parte dello stato, entrarono in crisi a fronte di un modello di sviluppo che aveva sostanzialmente fallito nell’estendere benefici della crescita economica alle fasce più fragili della popolazione, e di un sistema politico che sempre di più si appellava alle identità di gruppo come marcatore elettorale.
L’assassinio di Indira Gandhi aprì una fase storica di grandi trasformazioni sia sul piano politico sia su quello economico-sociale. A succederle alla guida del governo fu il figlio Rajiv, chiamato dal partito del Congresso a candidarsi in un’elezione, quella del 1985, in cui l’ondata emotiva per la morte di Indira portò il partito a una vittoria netta, con il 51 % dei voti. Ma una maggioranza così solida non coincise con un consolidamento dell’impianto nehruviano di gestione della politica e dell’economia: al contrario, negli anni successivi si assistette al suo definitivo sgretolamento.
Sul piano economico, nonostante tassi di crescita tutto sommato positivi (attestati intorno a una media del 5.5% medio annuo), i problemi strutturali che avevano caratterizzato i decenni precedenti furono alla base di una crisi che indusse il governo a ricorrere sempre più spesso a prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, e al conseguente avvio di riforme strutturali di stampo neoliberista che, nel corso degli anni ’90, avrebbero portato a una drastica deregolamentazione del ruolo dello stato.
Dal punto di vista politico e culturale, durante gli anni ’80 la crisi del secolarismo di stampo nehruviano divenne sempre più evidente, anche a fronte di prese di posizione sempre più ambivalenti e incerte da parte del governo su questioni riguardanti le appartenenze religiose, castali e linguistiche. Tali incertezze aprirono crepe nell’idea stessa che lo stato fosse garante di tutte le appartenenze identitarie, aprendo la strada a una lenta, ma costante, ascesa del Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo Indiano), il braccio politico di un movimento che concepisce la nazione indiana attraverso una matrice etno-nazionalista, per cui solo gli hindu sarebbero abitanti originari del subcontinente ed essi soltanto dovrebbero essere legittimi cittadini dello stato postcoloniale. All’idea nehruviana di unità nella diversità veniva quindi contrapposto un principio antitetico di unità e omogeneità (presunta), che relegava parallelamente le comunità musulmane ad alterità estranea, ostile e minacciosa. Da un lato c’era l’India, come l’avevano immaginata i padri costituenti, dall’altro Bharat, termine sanscrito che indicherebbe le terre comprese tra il fiume Indo e l’estuario del Gange-Brahmaputra e che riporta a un passato pre-islamico del subcontinente.
La rete di organizzazioni legate al principio dell’hindutva, note come Sangh Parivar, era attiva già dagli anni ’20 del secolo; affiliato all’organizzazione madre – nota come Rashtriya Swayamsevak Sangh (Organizzazione dei Servi della Nazione) – era Nathuram Ghodse, il fanatico che il 30 gennaio del 1948 aveva assassinato il Mahatma Gandhi. Dal punto di vista politico, gli ideali del fondamentalismo hindu non avevano avuto grande seguito, come se la partizione e l’assassinio del Mahatma avessero agito da sigillo che invalidava qualsiasi idea politica si discostasse dal secolarismo propugnato dal partito del Congresso e sancito dalla Costituzione. Gli scricchiolii tra la fine degli anni ’70 e i primi anno ’80 contribuirono però ad aprire spazi di manovra per il BJP e la Sangh Parivar: complici le posizioni ambigue del premier Rajiv Gandhi e una serie di campagne di mobilitazione di massa che attrassero consenso e attenzione da parte dei media, oltre a lasciare dietro di sé una scia di violenze senza precedenti dai tempi della partizione, il BJP tra gli anni ’80 e ’90 guadagnò consensi e voti in maniera inesorabile: se nelle elezioni del 1984 aveva ottenuto infatti solo due parlamentari, i numeri aumentarono costantemente, passando a 85 nel 1989, 120 nel 1991 – anno in cui entrarono a far parte di un governo di coalizione – e salendo ancora a 161 nel 1996, 182 nel 1998 e nel 1999, quando il BJP andò al potere come partito di maggioranza relativa.
L’ascesa al potere del BJP rappresenta uno snodo cruciale nella storia indiana recente, per due motivi principali: prima di tutto, ha posto fine a quasi mezzo secolo di un sistema di governo che era stato, di fatto, monopartitico. Il Partito del Congresso non solo aveva governato, da solo o in coalizione, in tutti i governi formati fino al 1989 (a esclusione del governo formatosi all’indomani dell’Emergenza, tra il 1977 e il 1979), ma era stato fino a quel momento l’unico partito ad avere estensione e rilevanza su tutto il territorio nazionale e, come abbiamo accennato, l’unica forza considerata come legittima custode dei valori costituzionali. Dal 1998 in poi si è assistito a un’alternanza di governo tra Congresso (al governo 2004 – 2014) e BJP (1998 – 2004 e dal 2014 a oggi), che ha caratterizza to la vita politica recente del paese.
Secondo, legando a doppio filo una retorica politico/culturale fortemente caratterizzata dal punto di vista identitario con l’adozione di una piattaforma di politiche economiche fortemente neoliberista, il BJP ha scardinato dalle fondamenta l’impianto ideale, egualitario e a forte presenza pubblica del sistema politico-sociale indiano, concepito da Nehru e dai padri costituenti. È stato però il BJP a farsi campione delle privatizzazioni e delle aperture economiche una cifra del proprio discorso politico, legando consequenzialmente la propria propaganda all’idea che tassi di crescita alti fossero l’unica vera politica secolare, in quanto avrebbero beneficiato nel lungo periodo l’intera popolazione. Passò quindi l’idea che le liberalizzazioni, dirette a generare tassi di crescita elevati, fossero l’unica vera soluzione inclusiva e non discriminatoria, in quanto di esse avrebbe beneficiato nel lungo periodo l’intera popolazione.
Storicamente, l’India ha avuto una centralità strategica in questioni regionali, ma ha faticato ad acquisire un peso quale attore globale. In questo paragrafo conclusivo si propone una sintesi dei temi principali che hanno caratterizzato la politica estera e il posizionamento internazionale del paese, con particolare riferimento agli ultimi vent’anni.
È solo negli ultimi anni che si parla più frequentemente dell’India come di un attore chiave nel sistema internazionale. Il peso demografico e l’economia crescente hanno contribuito a rendere il paese centrale, complice anche una politica estera molto più assertiva da parte dei due governi Modi, dunque a partire dal 2014. Parallelamente, nel quadro della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina, l’India ha potuto sfruttare una rinnovata importanza strategica, sia per la propria collocazione geografica, sia perché l’apertura economica, le politiche volte a creare condizioni sempre più vantaggiose per gli investitori stranieri e a rilanciare il settore manifatturiero nel paese (si veda il contributo di Diego Maiorano in questo rapporto) hanno avuto come obiettivo non troppo celato quello di rendere il paese un concorrente della Cina sul piano della produzione industriale.
Allo stesso tempo, se dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 è sembrato esserci un allineamento sempre maggiore dell’India come partner strategico regionale degli Stati Uniti, negli ultimi anni questa tendenza è stata bilanciata in maniera sempre più netta da un posizionamento espresso a più riprese anche dall’attuale Ministro degli Esteri, Subrahmanyam Jaishankar, che vuole il paese come attore indipendente, critico nei confronti delle politiche egemoniche promosse da Stati Uniti ed Europa (su India e ordine internazionale si veda il contributo di Anna Caffarena in questo rapporto).
Da quando nel 1971 fu siglato l’Indo-Soviet Treaty of Peace, Friendship, and Cooperation, le relazioni con l’Unione Sovietica, prima, e la Russia poi hanno avuto una corsia preferenziale, pur senza rinunciare formalmente a mantenere la politica di non-allineamento che aveva contraddistinto il posizionamento dell’India all’in domani della Seconda guerra mondiale. A partire dagli anni ’90, la trasformazione dell’economia indiana e il crollo dell’Unione Sovietica hanno costretto l’India a ri vedere completamente la sua politica estera. Rao visitò la Cina, storico rivale regionale, nel 1993, concludendo un Agreement on the Maintenance of Peace and Tran quility, riguardante le linee di confine tra i due paesi. La Look-East Policy (Haidar, 2012) è proseguita e questo nuovo orientamento ha portato il paese a diventare Dialogue Partner dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) nel 1994.
Se da un lato quindi gli anni ’90 hanno segnato una fase di apertura di nuove relazioni e di ricerca di un nuovo status regionale, in quest’ottica va letta anche la ripresa dei test atomici nel 1998, più di vent’anni dopo i primi test condotti dal governo di Indira Gandhi nel 1971. Seppur vigorosamente condannati in tutto il mondo, questi test contribuirono a elevare l’immagine dell’India come un attore principale del sistema internazionale. L’ascesa dei cosiddetti BRICS a partire dai primi anni 2000 ha contribuito ulteriormente a rafforzare l’immagine dell’India come potenza emergente, mentre gli sviluppi successivi agli attentati dell’11 settembre 2001 hanno contestualmente avvicinato l’India alla politica estera degli Stati Uniti, storici alleati regionali del Pakistan. Se da un lato, quindi, il Paese ha mantenuto e rafforzato legami storici, quali quello con la Russia, dall’altro, negli anni ’90 e 2000, si è assistito a un ampliamento della strategia in politica estera, verso un approccio più diversificato e multilaterale (Horimoto, 2017).
Nonostante questo parziale cambio di strategia, è stato poi con la premiership di Narendra Modi nel 2014 che il governo ha dato un’accelerata alla propria politica estera, in direzione di reclamare un ruolo centrale per l’India nel Sistema internazionale in virtù di quelli che sarebbero i tratti distintivi della cultura e civiltà indiane. In questa direzione, sin dai primi mesi dopo le elezioni del 2014 Modi ha svolto personalmente una costante campagna di soft-diplomacy in varie sedi internazionali (Mazumdar, 2018; Seethi, 2019), dalle Nazioni Unite all’Unesco, ribadendo l’ambizione dell’India a giocare un ruolo di leadership a livello globale, reclamando per il paese il ruolo di portatore di valori morali universali che lo renderebbero guida e modello per l’intera comunità internazionale (Bobbio, 2019 e 2021).
In anni recenti, questo orientamento in politica estera si è tradotto nella ricerca, da parte di Modi, di una normalizzazione dei rapporti con la Cina e la Russia, da un lato, e con gli Stati Uniti dall’altro. Negli ultimi tempi, Modi ha incontrato Xi Jinping più di qualunque altro suo predecessore avesse incontrato il proprio omologo cinese, anche se le dispute di confine tra i due paesi sono tutt’altro che terminate. Contemporaneamente, con lo scoppio della guerra in Ucraina e le pressioni da parte degli Stati Uniti affinché adottasse sanzioni nei confronti della Russia, l’India ha preferito una posizione di autonomia, ribadendo l’importanza delle proprie relazioni commerciali con il governo di Putin, con il quale Modi ha mantenuto un rapporto personale in questi anni.
Se da un lato, quindi, la politica estera assertiva dei governi Modi ha contribuito a elevare le ambizioni internazionali del Paese, consolidando relazioni con attori regionali e globali chiave, dall’altro lato l’India ha anche mantenuto una politica di equilibrio tra le potenze globali, cercando di collocarsi come attore in chiave di contenimento dell’ascesa cinese, preservando al contempo la propria indipendenza strategica.
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