Nelle contemporanee riletture della Rivoluzione culturale si tende a sottolineare (soprattutto fuori dalla Cina, per la verità) come, malgrado il furore della violenza ideologica e la insensata brutalità di alcuni suoi colpi di coda, essa avesse fornito a molti giovani una rara e in gran parte genuina occasione di partecipazione e di protagonismo politico, finanche di vera e propria autodeterminazione. La cosiddetta letteratura “delle ferite” o “delle cicatrici” alla fine degli anni Settanta si è ampiamente occupata del progressivo disincanto e della forte alienazione sociale vissuta dagli stessi giovani nel periodo successivo alla fase culminante della Rivoluzione culturale, come pure della sofferenza e del dolore di chi ne era stato vittima, con esiti spesso permanenti, e dell’incessante succedersi di campagne di denuncia e delle estenuanti sessioni di lotta. Quali ulteriori effetti di lungo periodo sulla società cinese contemporanea è possibile attribuire al decennio fatale 1966-1976, a cinquant’anni dal suo inizio?
Una dimensione fondamentale, peraltro esplorata con grande acume e rigore metodologico dagli studiosi che hanno contribuito a questo numero di OrizzonteCina, è quella dell’impatto di alcune vicende tuttora in parte irrisolte che hanno allora coinvolto futuri membri di spicco del Pcc nelle dinamiche di potere interne al Partito stesso. Ma una riflessione altrettanto opportuna investe l’esplorazione di alcune peculiarità della realtà cinese contemporanea intesa come Lebenswelt, lo specifico “mondo di vita” in cui si esplica l’esperienza dell’essere cinesi in Cina oggi. Da questo punto di vista, è possibile considerare la Rivoluzione culturale come la penultima di una lunga serie di sperimentazioni politiche volte a determinare una modernità cinese, di cui sono stati protagonisti tanto i movimenti di massa quanto le diverse élite succedutesi nel corso del Novecento. L’ultima di queste rifondazioni paradigmatiche, quella che negli anni Ottanta del secolo scorso getterà le fondamenta del nuovo corso post-maoista, istituirà gradualmente una forma di capitalismo di Stato pragmatico e spregiudicato, in grado di aprirsi a relazioni inusitate con le principali istituzioni finanziarie mondiali e di condurre il paese a un livello di influenza economica e politica globale senza precedenti. La rivendicazione di un socialismo con caratteristiche cinesi esprime la necessità del Pcc di rifondare la propria legittimità politica, gravemente compromessa negli anni successivi alla Rivoluzione culturale (1), riaffermando il proprio prometeico ruolo di latore della “Cina nuova”, garantendo alla nazione cinese quel ripristino di sovranità, potenza e ricchezza che era già il sogno dei riformatori nazionali ai tempi dell’ultimo Impero. Questa operazione di ingegneria ideologica e sociale ha di fatto costruito un paese nuovo, in parte radendo (letteralmente) al suolo quello vecchio, appropriandosi del disincanto e dell’alienazione diffusi nel crepuscolo maoista per farne i complici di una radicale ridefinizione dell’idea stessa di modernità cinese.
Le diverse dimensioni in cui si articola questo processo di reinvenzione politica e sociale, se si possono considerare costitutive della Cina post-Rivoluzione culturale, suggeriscono però anche inquietanti consonanze con le tensioni contemporanee a livello globale. Ciò vale soprattutto per il divario sempre maggiore tra la spropositata capacità di dare forma al mondo espressa da minoranze egemoni sempre più potenti, ma non necessariamente più consapevoli, e quella di moltitudini di lavoratori/consumatori le cui franchigie appaiono sempre più irrilevanti e svuotate di significato. La prima e forse più importante di queste dimensioni riguarda la manipolazione del passato, non solo in termini di monopolio della riscrittura della storia da parte del potere, ma della sua insistita e spregiudicata riduzione a strumento ideologico. Forse senza l’esperienza della Rivoluzione culturale, e della facilità con cui allora si calavano strumentalmente nel presente, senza alcuna remora storica o filologica, personaggi e idee del passato – di cui gli esempi più noti sono la campagna contro i “quattro vecchiumi” o quella che spingeva a criticare “Confucio e Lin Biao” – non avremmo assistito alle spregiudicate operazioni di invenzione della tradizione o di amnesia selettiva tipiche di questi ultimi trent’anni. Gli esempi sono molteplici: la retrodatazione (di ben duemila anni!) delle origini della civiltà “cinese” rispetto agli unici reperti archeologici esistenti che possano testimoniare senza ambiguità lo sviluppo della scrittura cinese; la “riscoperta dei valori confuciani”; l’espunzione dai libri di testo delle scuole medie e superiori di interi capitoli di storia patria (compresa la stessa Rivoluzione culturale, ridotta spesso a poche righe o al massimo a qualche criptico paragrafo) o la loro completa riscrittura secondo il nuovo canone dell’educazione patriottica, con un’enfasi sulla rivoluzione come lotta anti-imperialista e nazionale piuttosto che come lotta di classe con vocazione internazionalista.
La pervasività di queste operazioni, come del resto di tutte le manipolazioni metalinguistiche operate dal potere in Cina, perfino nelle aree più remote del paese, non manca mai di stupire l’osservatore. Nessun luogo, nessuna traccia storica, nessuna tradizione locale è ormai immune da questa costante reinterpretazione guidata del passato: dalle scelte operate nel restauro di templi, pagode o stele a quelle che guidano l’istituzione (o la chiusura) di musei che commemorano eventi e personaggi reali o immaginari. Come sfuggire all’effetto “Disneyland” di alcune di queste operazioni, come per esempio la rivisitazione spettacolare della presunta tomba di Yu il Grande nei pressi di Shaoxing, o la ricostruzione ex-nihilo della cerchia di mura di Qufu, il luogo natale di Confucio? Già Simon Leys(2) si era accorto che l’iconoclastia delle Guardie rosse era solo un sintomo di qualcosa di più radicato che l’anelito di modernità del Novecento cinese non aveva fatto che accentuare e portare al parossismo, ovvero il valore supremo attribuito dalla tradizione letteraria e artistica cinese alla parola (scritta) rispetto all’oggetto materiale che essa evoca. Ma senza la radicalità con cui intere generazioni di cinesi – in primis quella oggi al potere in seno al Pcc – hanno dato concreta attuazione allo slogan “distruggere il vecchio mondo per costruire il mondo nuovo” (dasui jiushijie, chuangli xinshijie, 打碎旧世 界, 创立新世界) (3)– probabilmente non si sarebbe assistito, in particolare a partire dagli anni Novanta, alla generale indifferenza della popolazione cinese(4) di fronte alla sistematica distruzione del retaggio storico materiale delle città cinesi sopravvissuto a un secolo di rivolte, guerre e rivoluzioni e risparmiato dagli approcci “brutalisti” d’ispirazione sovietica dell’epoca maoista.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, il governo cinese sposerà integralmente il modello di rinnovamento urbano introdotto a Singapore proprio negli anni della Rivoluzione culturale, con logiche di disegno e di implementazione spietatamente topdown. Quello che renderà così seducente agli occhi della leadership politica cinese (in particolare sotto la guida di Jiang Zemin) il modello imposto dall’autocratico dominus di Singapore, Lee Kwan Yew, sarà proprio il fatto che in tale fatale precedente, all’insegna del rimuovere, distruggere, rimpiazzare, “per una volta, i politici hanno immaginato e realizzato una soluzione, una soluzione incurante degli emendamenti degli architetti e delle loro aspettative di imminente fallimento. La tabula rasa di Singapore è diventata un immenso complesso metabolico, un parco giochi del governo”(5). Agli occhi dei leader del Pcc che in quegli anni sentono che la Cina potrà davvero, finalmente, proiettarsi verso la propria agognata modernità, è questa enfasi sulla guida politica dei processi di ridefinizione dello spazio e del territorio a costituire il fattore-chiave. Contrariamente ai molti luoghi comuni sulla “occidentalizzazione” della Cina, il nuovo volto del paese è interamente e scientemente ispirato a una versione totalmente asiatica della modernità, del rapporto stesso tra modernità e passato.
È questa dunque la seconda dimensione rilevante del retaggio post-Rivoluzione culturale: la completa e quasi inconsapevole adesione all’idea che lo spazio di vita d’elezione della modernità – la città – sia innanzitutto la ribalta del potere e il luogo della rappresentazione dell’anelito collettivo a una nuova identità nazionale, la cui costruzione è però sostanzialmente sottratta all’iniziativa dei cittadini. Questi ultimi sono coinvolti solo come spettatori o, al massimo, come entusiasti sostenitori organizzati di processi innescati dall’alto, mentre i processi che nascono spontaneamente dal basso sono sempre radicalmente delegittimati. Gli ultimi anni hanno offerto esempi emblematici dell’imprinting sociale generato da questo tipo di visione politica della città. Pechino durante le Olimpiadi del 2008, oppure durante la grande parata militare per la commemorazione della vittoria nella guerra contro il Giappone nel 2015, sono casi ben noti. Ma l’esempio più recente e forse più eclatante, l’evacuazione di tre milioni di persone dal centro città di Hangzhou in occasione del G20 e la trasformazione delle aree paesaggistiche della città in una asettica cartolina a uso e consumo dei partecipanti al “summit dei potenti della terra” – una forma di liturgia politica tipica della contemporaneità che esclude in modo radicale qualsivoglia partecipazione politica dei cittadini – ha generato ben poca discussione in Cina e all’estero. Ordinaria amministrazione, in un paese in cui l’assuefazione all’autoritarismo, la delegittimazione e il contrasto sistematici della società civile da parte delle istituzioni, preoccupate innanzitutto di garantire stabilità e sicurezza, sono ormai divenute una sorta di abito sociale che nessuno può più permettersi di dismettere?
Forse la più dolorosa e fatale conseguenza di lungo periodo della Rivoluzione culturale è proprio il modo in cui ha inquinato per generazioni il concetto stesso di critica(6). Se nella Cina di oggi ogni istanza che sia proposta dal basso finisce sempre per essere rappresentata con – e spesso ad assumere concretamente – i tratti della rivolta scomposta e violenta, è perché manca qualsiasi spazio per un’educazione alla critica, alla legittimazione e all’espressione del dissenso, alla discussione civica e civile, che non sia quello ammaestrato e irreggimentato dei “canali ufficiali”, della “democrazia interna al Partito”, peraltro inficiata inevitabilmente dalla corruzione, che in sistemi chiusi di questo genere non può che rivelarsi endemica. Chi oggi in Cina della Rivoluzione culturale ricorda la sperimentazione dei movimenti politici dal basso, la lotta senza quartiere tra fazioni contrapposte, la mobilitazione politica spontanea (e non), le infinite sessioni di denuncia e di lotta, lo fa generalmente per condannare senza appello questi esempi di “democrazia senza controllo”, dimenticando che di democratico nelle vicende politiche della Rivoluzione culturale c’era ben poco. L’idea che il conflitto politico sia sempre e necessariamente un gioco a somma zero, in cui istanze contrapposte sono inevitabilmente ridotte a categorie ontologicamente e radicalmente contrapposte, in cui solo una delle parti “ha ragione” (“interpreta correttamente le contraddizioni”) e dunque è destinata a trionfare, è quanto di più alieno alla tradizione democratica si possa immaginare. Non a caso proprio il riemergere di questa forma distorta di discorso politico, che per esempio ispira trasversalmente le diverse impostazioni ideologiche dei nuovi populismi contemporanei, costituisce anche in molti paesi occidentali il sintomo più evidente di una “crisi della democrazia”. Ma questa visione del conflitto politico è invece uno degli assiomi del marxismo-leninismo che il Pcc non ha mai sconfessato e che perfino nelle largamente depoliticizzate coscienze delle generazioni cinesi nate dopo gli anni Ottanta è ormai saldamente radicato. Per questo è facile per i ventenni cinesi di oggi credere che la democrazia sia fondamentalmente un caos inefficace e inefficiente, in cui non ci sono limiti al conflitto politico e dunque la capacità deliberativa dei governi è costantemente ostacolata dall’irriducibile contrasto tra opposti interessi. Malgrado nel corso di un secolo abbia visto trionfare due rivoluzioni nazionali, e che quest’anno ne commemori una terza, la Cina di oggi decisamente non è un paese per ribelli.
(1) Sui passaggi-chiave di questa transizione cfr. Tony Saich, Governance and Politics of China (4 ed., Basingstoke e New York: Palgrave Macmillan, 2015); Richard McGregor, The Party. The Secret World of China’s Communist Rulers (New York: Harper Collins, 2010).
(2) Pseudonimo del sinologo belga Pierre Ryckmans, cfr. “L’atteggiamento dei cinesi nei confronti del passato” in Simon Leys, L’humeur, l’honneur, l’horreur. Essais sur la culture et la politique chinoises (Paris: Laffont, 1991); trad. it. L’umore, l’onore, l’orrore. Saggi sulla cultura e la politica cinese (Roma: Irradiazioni, 2004), 13-41.
(3) Cfr. la riproduzione del relativo manifesto pubblicato nel 1966 in The Oxford Illustrated History of Modern China, a cura di Jeffrey N. Wasserstrom (Oxford: Oxford University Press, 2016), 10.
(4) Sono ben note le grida di dolore di isolati intellettuali e artisti cinesi, le resistenze di alcuni gruppi di residenti (soprattutto a Pechino), la tenace ostinazione a non evacuare le proprie case degli abitanti delle cosiddette “case chiodo”, vicende ampiamente pubblicizzate dai media occidentali e nei saggi di carattere divulgativo sulla Cina post-maoista. Ma non sempre ci si rende conto che si tratta di mero “pulviscolo mediatico”: in Cina la resistenza autorevole, diffusa e organizzata a questi processi è sempre stata praticamente inesistente o del tutto irrilevante.
(5) Rem Koolhaas, Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli Potempkin… o trent’anni di tabula rasa (Macerata: Quodlibet, 2010), 65.
(6) Cfr. l’importante speciale sul diritto di critica pubblicato dal comitato editoriale (guidato da Zhao Lingmin) dell’autorevole rivista cantonese South reviews (Nanfeng chuang, 南风窗) nell’agosto 2010: “Piping de quanli” (Diritto di critica), in Nanfeng chuang (South reviews), 418 (2010), 30-49.
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