Non solo giada: la rilevanza geo-economica del traffico di rubini in Myanmar

Fino a un secolo fa, non era raro sentire parlare della Birmania come di una terra straordinariamente ricca. All’epoca della colonizzazione inglese, infatti, il Paese era il maggiore esportatore di riso, nonché un esportatore strategico di petrolio, minerali, pietre preziose, teak, prodotti ittici, gomma, e una varietà virtualmente infinita di altri prodotti naturali generalmente allo stato grezzo. Ancora oggi circa il 75 per cento delle esportazioni proviene da industrie per l’estrazione di risorse naturali.

Tra queste, l’esportazione di pietre preziose merita un’analisi più approfondita. Tanto rilevante quanto noto è il caso della giada: benché le statistiche ufficiali riportino un apporto pari al 6,59 per cento del PIL nel 2015, Global Witness afferma che, se si calcola il valore del commercio illecito di giada che nel 2014 da solo ammontava a 31 miliardi di dollari, i numeri sono ben diversi. La sola produzione di giada conterebbe infatti per il 48 per cento del PIL ufficiale.

Tuttavia, mentre il caso della giada e gli intricati rapporti che esso ha con il potere politico, i gruppi separatisti e il traffico di droga siano stati recentemente portati alla luce da reportage giornalistici molto accurati e informativi, come quello del citato Global Witness, il mercato parallelo dei rubini riceve spesso poca attenzione, sebbene anch’esso rivesta un’importanza cruciale sia in termini economici sia per quanto riguarda l’impatto sulle politiche minerarie. Una ragione sta nell’assenza di dati ufficiali e nella volatilità delle stime. A differenza della giada, infatti, la speculazione all’estero dei rubini è esponenzialmente maggiore.

Molto simili per caratteristiche, i due mercati si distinguono sul piano della geografia politica: quello della giada è quasi esclusivamente rivolto a una clientela cinese (in Cina e altrove), mentre i rubini si riversano tutti nella confinante Thailandia, sia come destinazione finale sia come territorio di transito della merce. La Thailandia nei secoli passati era famosa per le sue pietre preziose, in particolare i cosiddetti rubini siamesi del Chanthaburi. Tuttavia, dopo decenni di intensa attività mineraria, i giacimenti si sono quasi estinti. I thailandesi hanno però conservato una notevole manualità artigianale per la lavorazione di tali pietre. L’abbondanza di pietre grezze nel vicino Myanmar, unita alle competenze artigianali in eccesso in Thailandia, ha quindi fatto in modo che i due mercati si incontrassero e che la Thailandia si riconfermasse come centro di distribuzione mondiale. Basta tuttavia un colpo d’occhio alle statistiche ufficiali per capire che qualcosa non torna.

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Considerando il fatto che la quasi totalità delle miniere regionali di rubini sia in Myanmar, salta agli occhi la discrepanza tra la bassissima quota di importazioni dal Myanmar e il dato aggregato delle esportazioni thailandesi, sulla carta di gran lunga superiore alle importazioni e con una tendenza nettamente in crescita negli ultimi cinque anni. La risposta in realtà è alla luce del sole, lungo gran parte del confine tra Thailandia e Myanmar.

La zona mineraria per eccellenza si trova a Mogok, una area montagnosa 200 chilometri a nord di Mandalay dove antiche fonti parlano di attività mineraria sin dal sesto secolo d.C. La qualità più rara e preziosa è il cosiddetto “Ko-Thwe”, ricercato in tutto il mondo. Nei primi anni ’90, un nuovo ramo minerario venne scoperto nello stato Shan, nella località di Mongshu, 250 chilometri a sudest di Mogok. Più ricco e di facile estrazione, sembra produca intorno al 90 per cento di tutti i rubini venduti in (o tramite la) Thailandia.

Per capire questa delicata interdipendenza tra Myanmar e Thailandia, bisogna analizzare le politiche minerarie imposte da Naypyidaw. Per scongiurare uno sfruttamento di risorse simile a quello che aveva condannato altri Paesi asiatici a una schiavitù coloniale, il colpo di stato del 1962 impose, tra le altre cose, che qualsiasi attività mineraria in Birmania fosse severamente controllata dal governo centrale. A questo motivo, apparentemente patriottico, si deve l’esistenza del Ministero delle Miniere e il fatto che tutto il mercato di pietre preziose sia effettivamente monopolizzato dallo Stato. Le attività minerarie dal 1976 in poi sono controllate dalla Myanmar Gems Corporation, di proprietà statale, mentre le attività di compravendita sono amministrate dalla Myanmar Gems Enterprise (già Trade Corporation 19), anch’essa statale.

La MGE ha il compito di regolarizzare imprenditori locali incorporandoli in cooperative statali, un’azione che di per sé potrebbe davvero aiutare la precarietà del mercato, se non fosse che la totalità delle licenze viene rilasciata a militari, ex-militari, o persone direttamente collegate alla giunta che per decenni ha governato il Paese. In particolare, è estremamente difficile ottenere una licenza se non si fa parte della Union of Myanmar Economic Holdings Company (UMEH), conglomerato le cui azioni sono spartite tra Ministero della Difesa e membri dell’esercito. Il 97 per cento delle circa 2000 miniere ufficiali appartiene a loro. Nel 2015 il governo ha promesso, come atto di riconciliazione post-elezioni, che approverà 400 nuove licenze a imprenditori che possano dimostrare di aver risieduto nell’area di Mogok e Mongshu per più di 20 anni, un intervento che si potrebbe dire quasi di natura populista.

Peccato che la Legge sulle Pietre Preziose del 1995 non lasci molta speranza ai minatori non governativi. Essa stabilisce infatti che tutte le pietre di provenienza civile debbano essere mandate alla MGE per una prima ispezione. Dopo un’attenta e poco trasparente selezione, solo le pietre riconosciute come preziose vengono restituite agli imprenditori, dopo aver applicato una tassazione del 20 per cento. Queste pietre, inoltre, possono essere vendute solo a compratori autorizzati dallo stato o all’Emporio Annuale di Gemme organizzato dalla MGE due volte l’anno. Se i compratori nazionali acquistano le pietre per conto di clienti stranieri, un ulteriore 10 per cento di tasse viene imposto ai venditori. Infine, la nuova Legge sulle Imposte del 2015 prevede un’imposta del 25 per cento sui profitti derivanti dal commercio di pietre preziose. Sommando, l’imprenditore civile potrebbe dover pagare fino al 55 per cento di tasse sui profitti derivanti dalle pietre vendute, senza contare le perdite derivanti dalle pietre sottratte illegalmente durante la prima ispezione. Per capire quanto questo mercato stia a cuore al governo birmano, basta citare l’articolo 39 della suddetta Legge sulle Imposte: “…chiunque porti fuori dal Paese pietre preziose grezze o lavorate, potrà essere punito con un minimo di 10 anni fino a un massimo di reclusione a vita e dovrà inoltre pagare una multa pecuniaria…”. Al confronto, in Thailandia la multa pecuniaria ammonta a un massimo di quattro volte il valore della merce e 10 anni di reclusione, benché non siano ancora stati registrati casi di applicazione della pena detentiva.

Ciononostante, il commercio illecito di rubini in Myanmar sembra essere incontrollabile. I piccoli imprenditori si sono organizzati dando prova di alti livelli di adattamento. I minatori vendono le loro pietre a compratori locali. Questi compratori poi attingono alla loro rete di conoscenze per trasportare i rubini in più piccole quantità verso le città di confine, dove entrano in gioco i commercianti thailandesi dei mercati di Mae Sai e Mae Sot. Qui, agenti ingaggiati da produttori e gioiellieri di Bangkok e Chanthaburi vengono a piazzare gli ordini per poi far spedire le pietre ai centri di lavorazione

Per evitare i controlli e minimizzare i rischi di affari non conclusi, il contrabbando ha precorso i tempi rispetto alla controparte lecita di questo commercio, affidandosi sempre di più ai mezzi di comunicazione tecnologica. Si è sviluppato quindi uno schema di preordini e agenti rappresentanti per cui tutto comincia con un ordine e una conferma fotografica dell’offerta (o viceversa), una negoziazione molto più rapida e diretta gestita dagli agenti, e tutto avviene tramite social networks quali messenger di Facebook o Line. Quando viene raggiunto un accordo, si procede con l’usuale trasporto delle pietre come sopra descritto.

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Questo processo sta rivoluzionando il contrabbando di pietre preziose in tutta la regione, perché minimizza i rischi a cui erano esposti venditori e compratori quando dovevano trovarsi di persona nelle zone di confine per finalizzare la compravendita. Inoltre, a differenza di prima, quando c’era il rischio di vedere andare in fumo un affare perché magari la merce non soddisfaceva le aspettative dei compratori, ora questo rischio è drasticamente minimizzato. Infine, con la negoziazione e la conferma informatica, non c’è più la necessità di viaggiare in continuazione verso le zone di frontiera.

Nonostante questi cambiamenti siano difficili da monitorare, le loro implicazioni sono invece molto più visibili. Molti negozi nei mercati di Mae Sai e Mae Sot hanno chiuso i battenti, e ciò non per una crisi di mercato. I proprietari si sono infatti reinventati agenti rappresentanti, annullando le perdite derivanti da giacenze invendute e dai costi fissi degli immobili. Gli agenti stessi sono quindi in grado di confermare la qualità delle pietre, operazione che di solito avviene appunto nei mercati di frontiera. Il pagamento viene finalizzato a Bangkok, presso banche o presso il Jewelry Trade Center a Silom, quindi non più con lo spostamento di denaro liquido, ma attraverso l’apertura di nuovi conti bancari. Il denaro viene poi distribuito attraverso una rete di prestanome e spedito in Myanmar sotto forma di rimesse dirette di lavoratori birmani residenti all’estero. Facendo rimbalzare queste rimesse in Thailandia e a volte fino a Singapore, i proventi della compravendita non verranno mai riconosciuti come tali, ed è per questo che le statistiche su importazioni ed esportazioni di pietre preziose e rubini tra Myanmar e Thailandia non potranno mai combaciare, né in termini di quantità, né in termini di profitti.

Il preponderante interesse delle relazioni con la Cina nel discorso geopolitico del Myanmar rischia di monopolizzare l’attenzione mediatica e accademica sul contrabbando di giada, per esempio, piuttosto che su quellodei rubini con la Thailandia. Ricerche più approfondite e meno sino-centriche nei confronti del Myanmar mettono alla luce una diversificata miriade di attività commerciali illecite verso tutta la regione che continuano a dissanguare l’economia del Paese. Mapparle e regolamentarle resta la più grande sfida che il nuovo governo deve affrontare per perseguire un sano e trasparente sviluppo economico.

 

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