Cinque anni fa, parallelamente all’avvio della transizione politica in Myanmar, un’esplosione di violenza tra buddisti e musulmani ha travolto lo Stato Rakhine (o Arakan). Gli scontri del 2012 hanno provocato oltre 200 vittime e la distruzione di molte abitazioni, comportando altresì un flusso di rifugiati verso i campi in cui la gran parte vive tuttora. I vari gruppi musulmani, conosciuti collettivamente dalle organizzazioni internazionali e dai media stranieri come Rohingya, rappresentano quasi un terzo della popolazione totale dello Stato Rakhine. I disordini hanno funto da catalizzatore per uno sfogo di nazionalismo religioso buddista che ha preso piede nel 2013 con il movimento per il boicottaggio dei negozi di proprietà di musulmani conosciuto come 969, sfociato poi in un’associazione buddista nazionalista: il Ma Ba Tha. Il 2013 è stato anche contrassegnato da incidenti violenti e attacchi contro abitazioni, attività commerciali e luoghi di preghiera dei musulmani. Il Ma Ba Tha ha promosso le “quattro leggi per la protezione della nazione (o razza) e della religione, adottate poco prima delle elezioni del 2015. Nonostante il Ma Ba Tha avesse incoraggiato i propri sostenitori a votare per l’Union Solidarity and Development Party (USDP) del Presidente Thein Sein, la sconfitta elettorale di quest’ultimo non portò affatto al disconoscimento del movimento popolare, nazionalistico e religioso.
Lo scorso ottobre, giovani musulmani esasperati e disillusi da anni di immobilità e ingiustizie, hanno attaccato, con il supporto di gruppi islamisti stranieri, tre posti di frontiera. La già pessima situazione è stata poi ulteriormente aggravata dalla chiusura della zona di confine sotto il controllo dell’esercito nazionale in un atto, che pur costituzionalmente legittimo, ha portato, secondo quando riportato dai media e dalle organizzazioni non governative (ONG), ad atrocità perpetrate dai soldati che hanno spinto circa 75 mila persone a fuggire verso il Bangladesh.
Le radici del conflitto
Dalla Seconda Guerra Mondiale, nello Stato Rakhine si sono verificati numerosi gravi scontri che hanno creato un contesto di cronica diffidenza tra appartenenti a religioni diverse. Questi conflitti sono collegati a questioni più generali come il concetto e le condizioni per l’accesso alla cittadinanza, il posto della religione (e in particolare del buddismo) nel progetto nazionale, oltre ad accesso e partecipazione alla vita del Paese, tutti elementi che affondano profondamente le proprie radici nel passato.
Il ruolo dei musulmani in Myanmar è stato problematico per quasi un secolo, particolarmente in congiunture di riconfigurazione politica e dagli anni ’30 è “diventato il simbolo del colonialismo e dello sfruttamento straniero”, con rivolte anti-indiani scoppiate a Yangon nel 1930 e nel 1938. Nei primi giorni della colonizzazione, i britannici avevano incoraggiato la migrazione di migliaia di Indiani (sia indù che musulmani) per sviluppare la produzione di riso lavorando nelle risaie, come coolie nei porti o in altre attività commerciali. La gran parte era costituita da lavoratori stagionali provenienti dalle diverse regioni dell’India: quelli che giunsero nello Stato Rakhine, spesso originari della regione di Chittagong, chiamati “Chittagonian” ed etichettati nei report britannici come di “razza indiana”, si stabilirono prevalentemente ad Akyab (l’attuale Sittwe) e nelle aree adiacenti a nord-ovest, diventando mercanti o contadini.
Nel corso del 19° secolo, dallo Stato coloniale emerse un nuovo ordine sociale causato dal lento processo di differenziazione della popolazione progettato (coscientemente o no) dall’amministrazione coloniale. La razza, definita in termini linguistici e religiosi, divenne un aspetto decisivo dell’identità nazionale in Birmania, in un contesto di progressiva adozione e adattamento di tali concetti occidentali. Gruppi sociali furono ridefiniti su base razziale: i buddisti furono considerati indigeni e il buddismo divenne la religione nazionale; i maomettani (come venivano chiamati), pur se stabilitisi da tanto tempo, erano percepiti come “non nativi” o non “veramente nativi”. Veniva sottolineato il fatto che la popolazione mussulmana dello Stato Rakhine presente da prima dell’epoca precoloniale discendeva in ogni caso da persone che si erano trasferite in seguito a raid, incursioni o deportazioni e non certo per convertirsi alla religione buddista.
Tale differenziazione razziale sarebbe stata utilizzata dopo l’indipendenza come una condizione per la cittadinanza. Infatti, nella Birmania indipendente i mussulmani non ricevettero né un riconoscimento ufficiale, né alcuna forma riconoscibile di status giuridico all’interno della nazione, né come comunità religiosa, né tantomeno come razza nazionale indigena. Di conseguenza i musulmani non ebbero riconoscimento in quanto tali o come minoranza nella costituzione. Inoltre, dal 1982 la cittadinanza è stata concessa esclusivamente alle nazionalità riconosciute o alle razze nazionali, ovvero “popolazioni native”. Questa definizione di nazionalità basata sulla religione contiene un’implicita autoctonia, e il suo significato recentemente è evoluto in quello di cittadino nazionale, esacerbando la marginalizzazione dei musulmani.
La creazione dello Stato Rakhine nel 1971 non comportò garanzie di potere reale alla regione, ma fornì piuttosto un riconoscimento simbolico allo sforzo della sua élite e dei gruppi etno-nazionalistici di difendere la propria identità e preservare le proprie tradizioni dalla cultura birmana dominante. Ciò portò alla reificazione del carattere etnico di movimenti coinvolti nella lotta politico-culturale, accentuata dall’autoritarismo dei militari. Negli anni Novanta il linguaggio buddista sviluppò poi una concezione della religione come segno essenziale di etnicità, accrescendo il divario con i musulmani.
Un conflitto regionale con ramificazioni nazionali e internazionali
La questione dei mussulmani del Rakhine mette in dubbio le condizioni di accesso alla cittadinanza così come definite dalla legge del 1982 e, soprattutto, della possibile concessione di uno status giuridico a comunità e minoranze religiose. Essi, infatti, non ne hanno beneficiato, ad eccezione dei Kaman, la cui presenza nella regione è però antica e la cui cultura ha subito un processo di assimilazione. La Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) ha avanzato la possibilità di emendare la legge sulla cittadinanza in presenza di una domanda popolare in tal senso, senza però attribuire troppa importanza alla questione. Tuttavia, le attuali condizioni di vita tolgono alla maggioranza dei mussulmani del Rakhine ogni futuro. Le organizzazioni umanitarie al momento si stanno occupando di circa 140 mila sfollati e le ONG sono arrivate en masse, ma la popolazione buddista, infastidita dalla loro presenza, ne mette in dubbio l’imparzialità e le accusa di accrescere le contrapposizioni locali.
Dopo aver subito le politiche egemoniche e autoritarie della giunta, la mancanza di sviluppo locale e giustizia per decenni, e di fronte a una corruzione sempre maggiore, la maggior parte delle persone continua a vivere in povertà nonostante la transizione e le riforme messe in moto nel 2011. La popolazione dello Stato Rakhine ritiene anche che lo Stato centrale predatorio abbia saccheggiato massicciamente le sue risorse naturali e agricole. Ciò continuò sotto il governo post-giunta guidato da Thein Sein (2010-2015) senza nessun beneficio per la comunità locale fino a poco tempo fa. Attualmente, il negoziato in corso potrebbe aiutare a cambiare le cose. Aung San Suu Kyi nell’agosto 2016 ha istituito un comitato consultivo, presieduto dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, in risposta alle pressioni della comunità internazionale. Il comitato è stato incaricato di individuare soluzioni per risolvere il conflitto, fornire assistenza umanitaria, e rivedere il processo di sviluppo. I buddisti dello Stato Rakhine si sono opposti violentemente a questo e a ogni altro intervento straniero dopo l’attacco dello scorso ottobre, sostenendo che le organizzazioni internazionali li abbiano condannati ingiustamente e sistematicamente. L’esistenza del comitato ha inoltre accresciuto la loro sfiducia verso l’attuale governo.
Infine, l’accesso ai media, a internet e ai social network rimuove il conflitto dal proprio contesto valicando i confini. Sconcerto e indignazione provocano così ulteriore antagonismo (talvolta non pertinente), gettando benzina sul fuoco ed esacerbando il conflitto originario, aggravando una situazione già delicata. Problemi complessi difficilmente si risolvono con soluzioni semplici.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini
Presto anche in inglese nella sezione T.notes.
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