Per costruire società pacifiche e inclusive, l’Obiettivo di sviluppo sostenibile 16 (Sustainable Development Goal, SDG 16) invoca buona governance e istituzioni forti che siano trasparenti, efficaci e responsabili. Sebbene si tratti di un ottimo proposito sulla carta, la sua attuazione in Myanmar si scontra con una serie di problemi pratici. L’SDG 16 presuppone infatti che sia lo stato il soggetto e l’oggetto delle riforme nonostante ci sia oggi una crescente consapevolezza dell’importanza di forme di governo informali e non-statali. Le riforme della governance rimangono quindi incentrate principalmente sulla mancanza di capacità, trasparenza e responsabilità delle istituzioni statali, come polizia e sistema giudiziario.
Le finalità dell’SDG 16 sono certamente condivisibili, e hanno una loro applicabilità riferibile anche al contesto birmano. Dopo tutto, il settore della sicurezza in mano allo stato in Myanmar non ha solo dimostrato la sua incapacità di garantire la sicurezza umana durante i conflitti armati ma, cosa ancora più importante, è stato ed è tuttora la fonte principale di insicurezza per gran parte della popolazione. Questo problema permane nonostante la limitata liberalizzazione della politica del Myanmar avvenuta dal 2011, come dimostra la campagna di pulizia etnica del 2017 contro la minoranza Rohingya nello stato Rakhine. Si tratta di un tipo di atrocità già commesse in precedenza anche a danno di altre minoranze etniche in altre parti del paese, come osservato tra gli altri dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite nel settembre 2018.
Un viaggio nelle comunità Karen, dilaniate dalla guerra nei territori di confine tra Myanmar e Thailandia, testimonia che il rafforzamento delle istituzioni per promuovere una società pacifica, giusta e inclusiva in Myanmar deve necessariamente iniziare con l’apprezzamento della dimensione etno-politica del conflitto per poter ripensare e coinvolgere quelle istituzioni che si collocano al di là dello stato formalmente inteso.
A dicembre 2018, gli abitanti dei villaggi Karen, gli attivisti per la giustizia ambientale e sociale e i rivoluzionari si sono riuniti per inaugurare ufficialmente il Salween Peace Park. Il parco, che prende il nome dal possente fiume Salween, comprende vaste foreste e terreni collinari che si affacciano su un’area localmente nota come Mutraw. Situata nel nord-est dello stato Karen del Myanmar, Mutraw è per molti versi l’ultima roccaforte del più antico movimento ribelle etno-nazionalista del Myanmar: l’Unione nazionale Karen (Karen National Union, KNU) e il suo braccio armato, l’Esercito di liberazione nazionale Karen (Karen National Liberation Army, KNLA). Anche se le campagne di contro-insurrezione e gli sviluppi geopolitici hanno indebolito la ribellione dei Karen, Mutraw rimane un “territorio liberato”. Negli ultimi anni, tuttavia, l’esercito del Myanmar ha compiuto graduali incursioni nell’area, costruendo strade e campi militari e scatenando intensi combattimenti con le unità locali del KNU, nonostante l’esistenza di un cessate il fuoco ufficiale. La ribellione dei Karen rimane comunque profondamente radicata nel tessuto sociale di Mutraw, intrecciando strette relazioni con le comunità locali attraverso sofisticati meccanismi di governance, tra cui la fornitura di servizi sanitari, istruzione e sicurezza.
Per comprendere la profondità di questo ordinamento politico non-statale, o per meglio dire di statualità alternativa e non ufficiale, è importante notare come lo stato del Myanmar non abbia in realtà mai governato in queste zone, né prima né durante o dopo il dominio coloniale britannico. Per la maggior parte della popolazione di Mutraw, l’unico contatto significativo con lo stato centrale passa attraverso campagne indiscriminate di contro-insurrezione. Questa situazione riflette le esperienze di molte altre minoranze etniche nelle aree di confine del Myanmar. È quindi a partire da questo contesto che qualsiasi tentativo di rafforzare le istituzioni per la pace e la giustizia in Myanmar dovrebbe essere esaminato. Una riforma del settore della sicurezza che ponga l’esercito e la polizia sotto il controllo civile – da cui restano invece esclusi ai sensi della Costituzione del 2008 – sarebbe sicuramente da accogliere con favore. Tuttavia, questa rimane una prospettiva lontana, se non irrealistica, di fronte al veto militare sulle modifiche costituzionali. Per questo motivo, se si vuole seriamente aumentare la sicurezza umana delle comunità più emarginate del Myanmar, è necessario appoggiare la creazione e il rafforzamento di istituzioni locali diverse da quelle statali.
Il Salween Peace Park di Mutraw fornisce un utile, seppur controverso, punto di partenza per questa linea di argomentazione. I suoi architetti principali sono appassionati ambientalisti Karen per i quali la conservazione non è solo una questione di ecologia, ma soprattutto uno strumento di giustizia sociale per le comunità coinvolte nei conflitti armati: l’ambientalismo dei Karen, così come quello di altre comunità etniche minoritarie in Myanmar, non può essere scollegato dalle politiche di discriminazione etnica, dal nazionalismo e dal conflitto. L’ambientalismo è infatti diventato uno dei principali mezzi a disposizione degli attivisti sociali per denunciare le ingiustizie subite dalle comunità etniche minoritarie a causa dello sfruttamento militarizzato delle risorse, dell’accaparramento delle terre (land grabbing) e dell’espansione geografico-territoriale (o territorializzazione) del potere dello stato centrale. Questo processo passa anche attraverso una pretesa di maggiore legalità, sostituendo forme di accesso alle risorse in vigore nella prassi con altre formule, sancite giuridicamente dallo stato centrale, e che sovente ridefiniscono i termini in maniera sfavorevole per le comunità coinvolte. L’ambientalismo può dunque servire alle comunità per rivendicare i propri diritti sui territori che si vogliono proteggere, anche e soprattutto perché l’ambientalismo rende tali rivendicazioni comprensibili agli occhi della comunità internazionale. Con riferimento al Myanmar settentrionale e al movimento di liberazione Kachin che lì opera, questo aspetto è stato spiegato e approfondito da Laur Kiik.
Lo stesso nome, Salween Peace Park, è un riferimento consapevole al movimento globale dei “parchi della pace” che non si occupa esclusivamente di conservazione ambientale. In primo luogo, il movimento dei parchi della pace promuove il ripristino e il mantenimento di ecosistemi fragili in stretta collaborazione con le comunità locali. Il movimento si contrappone quindi agli approcci puramente conservativi che vedono la relazione uomo-natura come antagonistica. Tali approcci, infatti, hanno spesso contribuito alla marginalizzazione delle comunità locali limitandone l’accesso ai mezzi di sussistenza legati alle risorse naturali e fornendo uno strumento strategico statale per ri-territorializzare e “securitizzare” le periferie con il benestare delle organizzazioni internazionali di conservazione dell’ambiente. Al contrario, il movimento dei parchi della pace cerca di raggiungere la sostenibilità ambientale attraverso il rilancio e la promozione delle conoscenze e delle istituzioni locali. I parchi della pace sono incentrati sui diritti delle comunità locali, intese come indigene, e possono quindi diventare un mezzo per contrastare la territorializzazione e dar voce a rivendicazioni di autonomia locale. Inoltre, i parchi della pace sono spesso concepiti come zone transfrontaliere di conservazione, istituite per promuovere pace e cooperazione tra nazioni diverse. Unendosi al movimento dei parchi della pace, gli attivisti Karen non solo rendono le loro preoccupazioni comprensibili a un pubblico internazionale, ma puntano anche a rivendicare l’appartenenza a una nazione propria, obiettivo che va ben al di là delle considerazioni ambientali.
L’apertura del Salween Peace Park ha fatto seguito ad anni di preparativi durante i quali gli attivisti hanno meticolosamente mappato i sistemi tradizionali di uso del territorio, i confini e le zone di conservazione insieme agli abitanti del villaggio sulla base di quello che viene chiamato il kaw. Il kaw regola le pratiche di uso del suolo e delle foreste nonché la vita del villaggio coerentemente con credenze e spiritualità locali. L’aver dato nuova vista al sistema kaw è stato fondamentale non solo per preservare le forme locali di governance – molte delle quali hanno sofferto enormemente a causa dei numerosi conflitti e sfollamenti – ma ha fornito anche un valido strumento di resistenza contro i tentativi di accaparramento delle terre per scopi commerciali, che sono aumentati in seguito agli emendamenti del 2018 alla legge sulla gestione delle terre vuote, incolte e vergini (Myanmar’s Vacant, Fallow and Virgin Land Management Law). Sulla base di questi emendamenti, infatti, il 41 per cento dei territori dello stato Karen è considerato disabitato o inutilizzato, consentendo quindi l’espropriazione su larga scala dei piccoli agricoltori, di fatto criminalizzandone le attività e l’uso che abitualmente essi fanno di tali terre. Durante la cerimonia di due giorni per l’inaugurazione del Salween Peace Park a Mutraw, gli ambientalisti Karen hanno spiegato con passione la vulnerabilità dell’ecosistema, poeti e musicisti hanno elogiato gli spiriti della foresta mentre i leader rivoluzionari del KNU hanno parlato dell’importanza di difendere le terre dei Karen.
Dopo un referendum locale – in cui la maggior parte della comunità locale ha votato per la creazione del parco – la cerimonia inaugurativa è culminata con la firma dello statuto del Salween Peace Park da parte di rappresentanti delle comunità locali, tra cui un’associazione di donne, un membro del KNU e il presidente designato del parco. Lo statuto definisce i diritti e i benefici così come i doveri e le responsabilità di tutte le parti coinvolte, nonché la struttura organizzativa e i meccanismi di governance, inclusi quelli relativi alle elezioni del comitato direttivo del parco. Parlare con i locali e con i membri del KNU durante e subito dopo l’evento è stato rivelatore: nonostante la persistenza del conflitto armato con le vicine truppe dell’esercito del Myanmar e lo spettro incombente di potenti interessi di investimento, i miei interlocutori erano generalmente ottimisti e speravano che il Salween Peace Park istituzionalizzasse le pratiche di autogoverno esistenti già da molto tempo. Nelle parole di un anziano della comunità: “Non possiamo più aspettare un vero cambiamento democratico in Myanmar. Le nostre foreste stanno scomparendo e lo faremo anche noi. Ecco perché dobbiamo prendere in mano la situazione”.
Raccontare del Salween Peace Park in una riflessione su governance e rafforzamento delle istituzioni non significa sostenere che si debbano abbandonare i tentativi di riforma istituzionale dello stato del Myanmar. Non si tratta neppure di romanticizzare gli accordi di governance non-statali che, al pari di tutti i sistemi politici, sono di per sé piagati da squilibri di potere e ingiustizie. Si tratta però di sollecitare un ripensamento del sostegno internazionale alla governance svincolato dalla burocrazia formale del Myanmar. Di fronte a uno stato etnocratico – le cui istituzioni lavorano direttamente contro gli interessi della maggior parte della popolazione e che difficilmente potranno essere riformate nel prossimo futuro – l’unico modo sensato per aumentare la sicurezza umana delle comunità locali è quello di lavorare con istituzioni che esistono anche al di là dello stato per realizzare accordi di governance trasparenti, efficaci e responsabili. L’impegno della comunità internazionale in progetti come quello del Salween Peace Park, dedicato a sostenibilità e giustizia sociale, deve quindi essere incoraggiato.
Per saperne di più
Brenner, D. (2019) Rebel Politics: A political sociology of armed struggle in Myanmar’s borderlands. Ithaca: Cornell University Press.
Dunant, B. (2019) “Salween Peace Park: federalism from below?” Frontier Myanmar. Disponibile su: https://frontiermyanmar.net/en/salween-peace-park-federalism-from-below
Kiik, L. (2016) “Nationalism and anti-ethno-politics: why ‘Chinese development’ failed at Myanmar’s Myitsone Dam”, Eurasian Geography and Economics, 57(3). Disponibile su: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/15387216.2016.1198265
Long, S. (2019) “Notes from the Salween Peace Park”, New Mandala. Disponibile su: https://www.newmandala.org/notes-from-the-salween-peace-park/
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