Partecipazione pubblica e governance ambientale in Cina

Lo scorso 14 aprile 2015 il Ministero della protezione ambientale cinese ha diffuso online un documento intitolato Metodi per la partecipazione pubblica nella protezione ambientale (provvisorio) (Huanjing baohu gongzhong cangyu banfa [shixing], 环境保护公众 参与办法 [试行]), con l’invito al pubblico a inviare commenti sulla bozza entro il 20 aprile. I media nazionali hanno interpretato la pubblicazione dei “Metodi” come un tentativo di rendere operative le linee guida contenute nella nuova Legge sulla protezione ambientale (Huanjing baohu bao fa, 环境保护法), adottata nell’aprile 2014, dopo uno processo di revisione durato tre anni. La bozza prevede la possibilità per il cittadino di partecipare nella formulazione e supervisione di politiche e normative ambientali, rende più rilevante la partecipazione dei cittadini nelle valutazioni di impatto ambientale e dà loro facoltà di accertare eventuali casi di contaminazione e/o altre violazioni delle norme ambientali.

Questa è solo la più recente delle iniziative legislative adottate da Pechino per incoraggiare la partecipazione pubblica ai processi di governance ambientale. In seno alla leadership cinese è andato infatti maturando un crescente consenso sulla necessità di aumentare la trasparenza e il coinvolgimento delle parti sociali, al fine di colmare il divario tra formulazione e attuazione delle politiche. D’altro canto, il crescente numero di “incidenti di massa ambientali” (huanjing quntixing shijian, 环境群体性事件), è stato interpretato come indicativo delle difficoltà del governo nel canalizzare e risolvere efficacemente le istanze popolari generate dalla preoccupante crisi ambientale, attraverso meccanismi di partecipazione pubblica istituzionalizzati. In tale ottica, gli obiettivi di “civilizzazione ecologica” (shengtai wenming, 生态文明) e “società armoniosa” (hexie shehui, 和谐社会) sono fniti per essere inestricabilmente legati all’impegno al “mantenimento della stabilità” (weiwen, 维稳).

La realizzazione di uno sviluppo sostenibile, che coniughi aspetti economici, ambientali e sociali, incontra però vari ostacoli. In primo luogo, il governo continua ad avere un atteggiamento ambivalente circa la desiderabilità di determinate azioni da parte dei cittadini: da un lato sollecita trasparenza e divulgazione delle informazioni, dall’altro invoca arbitrariamente il segreto di Stato per limitare l’accesso a dati ambientali che minaccino la sicurezza nazionale. Inoltre, pur incoraggiando nuovi approcci partecipativi attraverso riforme legislative come quelle sopracitate, limita lo sviluppo di un dibattito pluralistico, controllando la libertà di espressione sui social network o stringendo la morsa su attivisti e difensori dei diritti civili.

Questa ambivalenza non riguarda soltanto l’atteggiamento del governo centrale, ma pervade anche processi politici a livelli inferiori. Un caso emblematico sono i processi di partecipazione pubblica nelle procedure di valutazione di impatto ambientale (Via), ad oggi lo strumento di partecipazione pubblica più rilevante presente in Cina in ambito ambientale. Accade spesso che il proponente del progetto e le autorità incaricate del processo di Via, pur rispettando formalmente la procedura prescritta dalla legge (che prevede un coinvolgimento del pubblico in tutte le fasi di formulazione della decisione), manchino di defnire chiaramente il livello di infuenza che sono disposti ad accordare al pubblico. Questo crea una contraddizione tra gli obiettivi dichiarati della partecipazione pubblica e quelli realizzati nella pratica, suscitando frustrazione e impotenza nel pubblico coinvolto. Nel lungo termine, tali atteggiamenti generano sentimenti di cinismo e sfducia che sviliscono la volontà delle persone di partecipare e minacciano la legittimità del governo.

Un altro limite fondamentale all’effettiva inclusione di istanze sociali nel processo decisionale sull’ambiente è un’idea ingannevole e distorta di che cosa implichi la sostenibilità. Negli ultimi anni la Cina non ha mancato di sorprendere i più, divenendo leader mondiale nella produzione e nell’uso di turbine eoliche, celle solari-fotovoltaiche e tecnologie smart-grid. Non solo: la Cina partecipa attivamente alle negoziazioni internazionali sul cambiamento climatico e ha recentemente lanciato una sperimentazione del cosiddetto mercato delle emissioni (Emission trading scheme, Ets), istituendo sette programmi-pilota in varie province del paese. La quantità e sistematicità di tali iniziative ha spinto taluni studiosi a parlare di “Green leap forward”, echeggiando il noto “Great leap forward” (Grande balzo in avanti) intrapreso con infauste conseguenze negli anni Cinquanta da Mao Zedong. Sembra infatti che il paese abbia abbracciato un modello di “autoritarismo ambientale” per fermare la crisi, senza dover rinunciare a soddisfare l’inarrestabile sete energetica di una popolazione sempre più orientata verso modelli consumistici. Ma tale spinta verso un modello economico più sostenibile è spesso misurata solo attraverso le lenti del progresso e dell’innovazione tecnologica. Temi quali il cambiamento climatico, il risparmio energetico e l’urbanizzazione sostenibile vengono spesso ricondotti in sola istanza alle sfere di scienza e politica, in una dimensione dialettica fatta di nuove tecnologie, strumenti economici di larga scala, modellistica informatica complessa e via discorrendo, ignorandone e/o minimizzandone le enormi implicazioni sociali.

Un terzo ostacolo al coinvolgimento effettivo della popolazione nelle questioni ambientali è, paradossalmente, la popolazione stessa. Un concetto pervasivo nella retorica della Cina di oggi è l’idea di “qualità” (suzhi, 素质). La percezione comune è che il progresso economico e lo sviluppo sociale possano realizzarsi solo con un sufficiente livello di “qualità delle persone”, intendendo con questo le loro caratteristiche fisiche, psicologiche, intellettuali, morali e ideologiche (innate o coltivate)4 . Professionisti del settore ambientale si rifanno spesso a questo discorso per giustificare l’inefficacia dei meccanismi partecipativi. Al di là del chiaro intento semplificativo e strumentalizzante di tale argomentazione, è d’altro canto innegabile che la maggioranza della popolazione cinese è priva di alcuni dei mezzi fondamentali che permettono un effettivo coinvolgimento nei processi partecipativi ambientali. Innanzitutto, in un milieu sociale e politico che per decenni ha negato il diritto individuale manca la consapevolezza e la conoscenza dei propri diritti. In secondo luogo, anche la coscienza ambientale è assai poco diffusa. Si è tentati di vedere nel crescente numero di proteste la spia di un embrionale movimento ambientale. Tuttavia, le proteste sono quasi sempre mosse da un desiderio di giustizia sociale scatenato da ragioni diverse dalla volontà di proteggere l’ambiente: questioni legate alla salute, alla proprietà della terra o alla corruzione dei funzionari. Inoltre, tali istanze spesso si esauriscono in rivendicazioni individualistiche, che si limitano alla sfera del “proprio giardino” e mancano di una visione più ampia e responsabile del bene comune. A peggiorare il quadro è una concezione della natura come entità “controllabile” e non fruibile se selvaggia, risultato di atteggiamenti predatori trasmessi per secoli, che trovano giustificazione in una visione antropocentrica della natura.

A dispetto di tale visione pessimista, non mancano le esperienze virtuose di tante organizzazioni non governative che negli ultimi anni si sono impegnate in attività di educazione ambientale, di awareness-raising, di sperimentazione di approcci partecipativi dal basso a livello comunitario, operando con determinazione e pragmatismo in un ambiente istituzionale refrattario allo sviluppo di una società civile libera e autogestita.

 

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