Partito e società civile in Cina: il modello Singapore

Soffia una brezza di cambiamento a Singapore, città-stato a democrazia “guidata”, dove il Partito d’Azione Popolare (Pap) domina la scena politica dal 1965, anno dell’indipendenza. Alle elezioni parlamentari dello scorso 7 maggio, a cui hanno partecipato oltre due milioni di elettori singaporiani (sui 2,21 milioni aventi diritto), le opposizioni hanno ottenuto quasi il 40% dei voti. Sebbene i peculiari meccanismi elettorali singaporiani abbiano attribuito comunque al Pap 81 degli 87 seggi in palio, si è innescata una dinamica fuori dall’ordinario per un sistema che si fonda sull’organizzazione capillare del consenso attraverso la presenza del governo in tutti i settori della vita economica e sociale (oltre che sulla frequente repressione del dissenso politico).

Osservatori qualificati hanno parlato di una sorta di piccola “Rivoluzione delle orchidee” (il fiore nazionale di Singapore), altri hanno messo in luce il ruolo cruciale dei nuovi media quali veicoli di dibattito in un paese dove non c’è genuino pluralismo nei mezzi di comunicazione tradizionali. La più parte ha condiviso le ragioni profonde per un così spiccato pronunciamento popolare: la crescita economica galoppante ma diseguale, accompagnata da un crescente costo della vita (e degli immobili) e da politiche di accoglienza di lavoratori stranieri che deprimono i salari locali.

L’esperienza singaporiana è molto influente a Pechino, dove si guarda tradizionalmente alla piccola città-stato come a un modello di regime autoritario capace di coniugare una certa partecipazione popolare alla vita politica e una crescita economica sostenuta con un sistema politico basato su un partito dominante.

Costituzionalisti e politologi cinesi sono consapevoli del fatto che il sistema-Singapore non è replicabile in Cina, sia perché tutt’altre sono le dimensioni, sia per motivi socio-culturali (in particolare, a differenza di quanto accade in Cina, a Singapore la corruzione è poco diffusa). Tuttavia Singapore, popolata per il 74,1% da cittadini di etnia cinese, appartiene culturalmente all’Asia “sinica” e, oltre a non essere pienamente democratica, intrattiene con gli Stati Uniti rapporti di alleanza meno stretti di Giappone, Corea del Sud (e, con i caveat del caso, Taiwan). Per questo in Cina, quando si discute del rapporto fra Stato e società civile, è usuale richiamarsi all’esempio della piccola città-stato. Nonostante lo sguardo vigile delle forze di sicurezza, ad esempio, Singapore ospita alcune delle realtà universitarie e dei think-tank più dinamici dell’Asia orientale: un’aggressiva politica di reclutamento fa dell’isola un interlocutore intellettuale imprescindibile nella regione, che Pechino vorrebbe emulare.

Il modello Singapore è un tema di crescente attualità a Pechino, dove all’affermarsi di un pluralismo crescente di idee – specialmente sul web –, fa da contrappunto, in questo momento, una contrazione dei tradizionali spazi pubblici di dibattito (incluse le università) e una tendenza sempre più invasiva al controllo della popolazione da parte delle autorità. L’indirizzo dato dal Presidente Hu Jintao per la creazione di un archivio nazionale unificato che raccolga informazioni sull’intera popolazione e in particolare sui “gruppi speciali” (responsabili di attività che contrastano con l’art. 1 della Costituzione, che proibisce il “sabotaggio del sistema socialista”) è un esempio lampante. A questo genere di misure, però, non fanno da contrappeso reali orizzonti di riforma del sistema politico cinese o quantomeno tentativi di impostare una pur graduale riconfigurazione del tacito “contratto sociale” in vigore tra Partito-Stato e società civile, che continua a postulare la limitazione delle libertà civili degli individui in cambio dello sviluppo economico nazionale.

Figure di rilievo del mondo accademico, delle professioni, della cultura e dei media sono oggetto di crescenti pressioni, che si traducono in misure cautelari (sovente extra-giudiziali), la cui frequenza e intensità destano preoccupazione nei paesi occidentali. Si tratta di avvenimenti che, oltre a riflettersi negativamente sulla percezione dello sviluppo di un effettivo stato di diritto in Cina (questione che ha pesanti ramificazioni in ambito economico), confermano come anche il secondo mandato dell’amministrazione di Hu Jintao e Wen Jiabao – da cui si attendevano passi verso un cambiamento graduale nel sistema – sia destinato a concludersi con un climax repressivo, piuttosto che con aperture che possano essere perseguite dalla nuova generazione di leader al potere dalla fine del 2012. Il rischio è che una eccessiva distonia temporale tra le veloci dinamiche socio-economiche che toccano la vita di milioni di cinesi (si vedano i recenti scioperi a Shanghai) e i tempi lunghi dell’assestamento al potere e della formazione di un’agenda consensuale tra i prossimi leader possano portare a pericolosi tentativi di cambiamento del sistema.

Nel dialogo con osservatori cinesi – alcuni dei quali vengono ospitati con propri articoli sulle pagine di OrizzonteCina a partire da questo numero – si distinguono due snodi critici in questo quadro complessivamente pesante. Il primo, di rilievo già nel breve periodo, ha a che fare con il versante economico delle politiche messe in campo da una leadership cinese poco propensa ad abbracciare la libera iniziativa della società civile cinese.

Nell’ultimo quinquennio, e soprattutto dopo il varo del pacchetto di stimoli per far fronte alla crisi finanziaria del 2008, si è assistito infatti a un ritorno delle imprese pubbliche a una posizione di preminenza nell’economia nazionale, mentre il settore privato soffre per carenze normative, limitate tutele giuridiche e difficoltoso accesso al credito. Secondo Caijing, il principale periodico business economico cinese, è urgente che lo Stato intervenga su questa distorsione: la facilità con cui le imprese di Stato ottengono finanziamenti dalle banche (anch’esse pubbliche) incrementa l’inefficienza del sistema, portando a rese decrescenti sugli investimenti. Su questo fondamentale terreno si giocherà la futura crescita economica cinese, ma anche la stabilità sociale del paese, essendo il settore privato un’imprescindibile fucina di posti di lavoro (oltre 160 milioni a inizio 2011). Una leadership incapace di risolvere queste contraddizioni rischierebbe di apparire connivente con i (o ostaggio dei) potenti gruppi di interesse, già ora spesso legati a filo doppio con i principali leader cinesi e le loro famiglie.

Il secondo snodo critico, più rilevante nel lungo periodo, ha a che fare con il capitale umano e sociale di cui la società cinese è ricca. Sebbene la filosofia del Partito comunista cinese – che ha saputo evolvere al punto da accogliere nelle sue fila anche gli imprenditori – non ammetta l’interlocuzione su un piano di parità con terminali sociali “indipendenti” (il Pcc è in sé il corpo in cui convergono e trovano composizione le diverse istanze sociali), la scelta di reprimere numerosi individui di chiara fama impone un caro prezzo non soltanto a tali soggetti, ma anche al Partito.

Come segnalato da un “eterodosso” commento comparso sul Quotidiano del Popolo, la mancanza di tolleranza verso il dibattito tra idee differenti impoverisce la Cina, a partire dalla capacità critica dei suoi cittadini, e ne neutralizza la più genuina e possente riserva di soft power. Casi come quello di Ai Weiwei, artista di fama globale prelevato da agenti della sicurezza il 3 aprile scorso all’aeroporto di Pechino e scomparso per oltre un mese (un erede della gloriosa tradizione cinese di critica corrosiva contro autorità dispotiche, secondo Geremie Barmé, direttore dell’Australian Centre on China in the World), ma soprattutto di docenti universitari come Teng Biao e avvocati per i diritti umani quali Li Xiongbing e Li Fangping frustrano la partecipazione della società alla cosa pubblica, mortificando le prospettive di progresso nella stabilità.

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