Il 27 ottobre 2013 un uomo di etnia uigura, accompagnato dalla moglie e dalla madre, si schianta con il suo Suv vicino all’ingresso della Città proibita, nel cuore di Pechino, in piazza Tian’anmen, sotto il celebre ritratto di Mao Zedong. La macchina prende fuoco e l’impatto uccide sul colpo due turisti oltre ai tre attentatori. Nello spazio di qualche giorno le autorità cinesi accusano formalmente l’East Turkestan Islamic Movement (Etim), responsabile secondo Pechino di numerosi attacchi nella provincia nord-occidentale dello Xinjiang.
L’Etim, anche noto come Tip (Turkestan Islamic Party), è un gruppo separatista uiguro che, attivo in Xinjiang, risulta ora avere basi anche nella parte settentrionale del Waziristan, una zona montagnosa e conservatrice del Pakistan al confine con l’Afghanistan.
Dalle poche informazioni disponibili si ritiene che il movimento conti tra i 300 e i 500 operativi, la maggior parte dei quali uiguri e uzbeki educati in madrasse pachistane negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. La presenza del gruppo sul suolo del Pakistan – uno dei principali alleati della Cina – ha spesso generato dubbi sulla tenuta dell’amicizia tra i due paesi, definita retoricamente dalle due parti “più alta dell’Himalaya e più profonda dell’Oceano Indiano”. Nonostante i ripetuti richiami al governo di Islamabad per un maggiore impegno nel contrastare le attività dell’Etim, i buoni rapporti tra Cina e Pakistan non sembrano a rischio. Pechino, inoltre, paremuoversi in maniera autonoma per prevenire una possibile escalation di violenza in Xinjiang, secondo una strategia il cui impatto va ben oltre i confini territoriali cinesi.
Internamente, la strategia di Pechino prevede il pugno di ferro nei confronti di ogni attività religiosa illegale e di ogni movimento separatista, e massicci investimenti per lo sviluppo economico della regione. Nel marzo 2010 – pochi mesi dopo gli scontri tra cinesi han e uiguri che portarono a quasi 200 morti a Urumqi – un’importante conferenza a Pechino ha tracciato la nuova politica di “sviluppo accelerato” del Xinjiang. Tra i vari provvedimenti spicca l’istituzione di Kashgar come zona economica speciale sul modello di Shenzhen. Se Shenzhen fu scelta da Deng Xiaoping per la sua vicinanza a Hong Kong, Kashgar deve la sua importanza alla prossimità con Kyrgyzstan, Tagikistan, Pakistan e Afghanistan. Lo sviluppo di questa remota area del Xinjiang a forte maggioranza uigura, dunque, è visto da Pechino come il principale deterrente alla violenza etnica e all’influenza di dottrine islamiste provenienti dai paesi confinanti.
Meno nota, invece, è l’influenza che Pechino esercita sugli uiguri del Pakistan, una comunità composta da circa 300 famiglie sparse tra Gilgit e Rawalpindi. La maggior parte delle famiglie uigure in Pakistan migrarono tra gli anni quaranta e settanta del secolo scorso, spesso in forza di legami familiari col sub-continente indo-pachistano. Prima degli anni Quaranta, infatti, molti mercanti indiani si erano stabiliti in Xinjiang per gestirvi lucrose attività commerciali e in molti casi si erano sposati con donne locali. Con la partizione dell’India britannica (1947) e la fondazione della Rpc (1949), ogni forma di scambio tra i due versanti dell’Himalaya cessò e in molti decisero di rimanere in Xinjiang sperando in una vita migliore sotto il nuovo regime comunista. Dopo le politiche fallimentari del “Grande balzo in avanti”, tuttavia, alcuni chiesero di far ritorno in patria appellandosi alle loro origini. Intere famiglie, portando poco o nulla con sé, finirono per attraversare gli alti passi del Karakoram a piedi per cominciare una nuova vita in Pakistan.
Con l’apertura della Karakoram highway nel 1986 numerosi di questi uiguri tornarono in Xinjiang per visitare ciò che restava delle loro famiglie. Approfittando delle loro competenze linguistiche, dei contatti e delle nuove politiche economiche cinesi, stabilirono importanti attività di import-export con il Pakistan. Diversi uiguri, inoltre, iniziarono a visitare il Pakistan durante il pellegrinaggio verso la Mecca, e a Rawalpindi due residenze donate da ricchi migranti uiguri in Arabia Saudita furono istituite per ospitare gratuitamente i pellegrini in attesa di un visto. Molti pellegrini approfittarono della situazione per frequentare scuole islamiche in Pakistan e alcuni non fecero mai più ritorno in Cina.
La tolleranza delle autorità cinesi nei confronti di questi continui scambi e movimenti tra Xinjiang e Pakistan terminò con l’attacco alle torri gemelle nel settembre 2001. Temendo uno scenario simile per il Xinjiang, e approfittando della crociata americana contro il terrorismo islamico, Pechino iniziò allora a monitorare direttamente le attività degli uiguri pachistani. Dal 2006, inoltre, un accordo tra le autorità cinesi e quelle saudite ha permesso ai musulmani cinesi di ottenere il visto saudita dalla Cina, senza dover quindi soggiornare in alcun paese durante il pellegrinaggio verso la Mecca. Il risultato è che oggi pochissimi uiguri visitano il Pakistan, mentre gli uiguri pachistani, perso il loro vantaggio strategico, sono ai margini del mercato a causa della concorrenza dei commercianti pashtun.
In Pakistan, inoltre, l’ambasciata cinese ha istituto l’“Overseas Chinese Association”, un’associazione attraverso cui distribuisce fondi per l’istruzione e il sostentamento delle famiglie uigure. Se in molti approvano il ruolo dell’associazione all’interno della comunità, altri ritengono che si tratti piuttosto di un mezzo attraverso cui controllare e manipolare le famiglie uigure. A Rawalpindi, ad esempio, l’associazione sta finanziando la costruzione di una nuova scuola nella zona in cui risiede il maggior numero di famiglie uigure, mentre allo stesso tempo le autorità pachistane – dietro richiesta dell’ambasciata cinese – hanno forzato la chiusura di un’altra scuola dove un uiguro locale insegnava lingua e cultura uigura ai più giovani membri della comunità.
L’esempio della scuola, e più in generale la nascita dell’associazione, sottolinea il ruolo crescente che il governo cinese pare voler ricoprire tra gli uiguri del Pakistan. Se prima del 2001 Pechino sembrava aver dimenticato questo piccola comunità, nell’ultimo decennio l’ambasciata cinese a Islamabad si è fatta invece portatrice di una nuova missione nel paese. È difficile non considerare questo atteggiamento come parte di una più ampia strategia di contenimento di quella che viene vista come la minaccia uigura. Ciò mette in luce due elementi di grande importanza: la determinazione con cui la Cina agisce in Pakistan e la sua volontà di impegnarsi attivamente anche al di fuori dei confini nazionali, pur di prevenire ogni forma di conflitto interno.
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