Il 2011 è destinato a passare alla storia come l’anno del grande cambiamento nella sponda sud del Mediterraneo. Ad oggi non sappiamo quale assetto assumeranno paesi come Tunisia e Egitto, e forse Libia, Bahrein e altri ancora, ma di certo sarà determinato in misura non trascurabile anche dalla straordinaria capacità di pressione di cui le fasce più giovani della popolazione, messe in relazione dai social network dell’epoca di internet, si sono dimostrate capaci, e di cui sono ormai pienamente consapevoli.
Sebbene l’attenzione di cancellerie e opinioni pubbliche sia focalizzata sul Mediterraneo e il Medioriente, i sommovimenti politici nella regione possono avere serie ripercussioni in altri paesi retti da sistemi di governo autoritario, a partire dalla Repubblica Popolare Cinese. Osservare come gli apparati governativi nei diversi paesi hanno reagito alle notizie provenienti da Tunisi e il Cairo consente infatti di cogliere la differente qualità della sfida che i recenti avvenimenti pongono ai grandi del mondo. Negli Stati Uniti i terminali in allerta sono il Pentagono, la Casa Bianca e la Segreteria di Stato, costretti a un ripensamento radicale della politica estera e di sicurezza di Washington nella regione. A Londra si sono attivati il mondo del business e il Foreign Office, mentre a Roma l’attenzione dei soggetti preposti all’approvvigionamento di energia ha fatto da contraltare al lungo e imbarazzato silenzio di Palazzo Chigi. L’unico paese del G20 in cui a mobilitarsi sono stati soprattutto i dipartimenti preposti alla sicurezza interna è la Cina.
Il Ministero degli Esteri di Pechino è stato tra gli ultimi a pronunciarsi sulla crisi in Africa settentrionale. Solo l’11 febbraio il portavoce ministeriale Ma Zhaoxu ha rilasciato un breve commento sul caso egiziano, in cui sottolineava l’urgenza di riportare l’ordine e l’opportunità di trovare uno sbocco per la situazione senza interferenze dall’esterno. Si tratta di sollecitazioni genericamente in linea con i principi cardine della politica estera cinese – tutela della stabilità e non-interferenza negli affari interni degli Stati – che lasciano intuire lo sconcerto della dirigenza della Repubblica popolare cinese (Rpc) di fronte al crollo di regimi finora ritenuti inamovibili.
I vertici di Zhongnanhai, il “Cremlino” cinese al centro di Pechino, hanno fondati motivi di preoccupazione. Le “Rivoluzioni dei gelsomini” hanno anzitutto una valenza “normativa”, in quanto mostrano che l’ “eccezione araba” – la presunta refrattarietà del mondo arabo alla democrazia – è in realtà inconsistente. Da oggi, quindi, i paesi di quella che Vitali Silitski chiama l’Internazionale Autoritaria avranno un argomento in meno a sostegno delle proprie tesi: l’eccezionalismo cultural-geopolitico cinese, sovente richiamato nella narrativa ufficiale, ne esce indirettamente indebolito.
Ma vi sono risvolti più immediati e tangibili. A Pechino non è passato inosservato il fatto che le rivoluzioni abbiano trionfato seguendo una tattica neo-gandhiana, fatta di disobbedienza civile pacifica ma accorta, volta a rendere un paese tanto ingovernabile da spingerne i vertici ad abbandonare il potere. Soprattutto, poi, colpisce l’assenza di una regìa politica dei movimenti di piazza tunisino ed egiziano. È il mezzo – internet – ad aver acceso una miccia sociale facilmente infiammabile. Queste condizioni sono potenzialmente replicabili in Cina, dove il Partito Comunista Cinese ha sistematicamente smantellato ogni potenziale organizzazione d’opposizione, ma in cui sono censite 420 milioni di utenze internet. Come rileva Guobin Yang nel suo The Internet as Cultural Form: Technology and the Human Condition in China, per moltissimi giovani il web è uno strumento essenziale per i rapporti sociali: il 70% delle utenze sarebbe utilizzato in prevalenza da giovani under 30.
Non stupisce, quindi, che le notizie sugli avvenimenti nel mondo arabo siano state oscurate sui mezzi di comunicazione cinese fino a quando l’apparato di propaganda ha elaborato un indirizzo da fornire ai media per i propri reportage e commenti. Secondo un articolo di Perry Link sulla New York Review of Books, in un recente intervento ai massimi livelli, lo stesso presidente cinese Hu Jintao avrebbe invocato la massima stabilità e un ancor più accurato controllo della “società virtuale”.
Già da sabato 19 febbraio le forze di sicurezza di Pechino hanno iniziato a limitare gli spostamenti di una serie di attivisti, reagendo a un messaggio anonimo trasmesso sul sito internet Boxun.com e contenente l’invito a ritrovarsi in piazza in 13 città – incluse Pechino e Shanghai – per una “rivoluzione del gelsomino”, con lo slogan “Cibo, lavoro, casa e equità”. Tutte le ricerche sul web contenenti la parola “gelsomino” sono state bloccate, e il monitoraggio dei siti di micro-blogging cinesi si è fatto tanto intenso da danneggiare i rating di alcune società cinesi attive nel campo. In realtà i pochi cittadini cinesi scesi in piazza il 20 febbraio sono stati sovrastati dal gran numero di giornalisti e forze di sicurezza, che hanno subito disperso gli assembramenti.
È evidente che le circostanze sociali ed economiche in cui versa la Rpc sono radicalmente diverse da quella tunisina o egiziana. Paradossalmente, però, il successo stesso dello sviluppo cinese può avere risvolti problematici. Se, come riporta il Financial Times, le imprese cinesi faticano a trovare manodopera, la probabilità di un continuo incremento dei salari diviene reale. Unita al crescere dei prezzi di generi alimentari ed energia (stimolati dalla siccità che la Cina sta patendo e dalla contrazione nella produzione di idrocarburi nei paesi arabi destabilizzati), questa dinamica può portare a fiammate inflattive sempre pericolose in una società già segnata da risentimenti diffusi per le crescenti disuguaglianze e l’endemica corruzione.
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