Lo scorso autunno si sono viste molte bandiere cinesi sventolare nelle sale cinematografiche di tutto il paese. Erano portate da giovani infervorati dalle gesta di un nuovo eroe e dall’affermazione dell’orgoglio patriottico. Una scena insolita, e una delle manifestazioni del fenomeno cinematografico degli ultimi anni: Wolf Warrior 2 (Zhànláng èr, 战狼2).
Wu Jing, l’eroe del box-office
Diretto e interpretato da Wu Jing, una volta uscito nelle sale nel luglio 2017 il film ha superato tutti i record di incassi, oltre ogni aspettativa. È il secondo episodio di una serie di film incentrati sulle vicende di Leng Feng, un soldato scelto che per non venir meno ai propri principi morali è costretto a trasgredire gli ordini, perdendo l’onore della divisa. In questo secondo film lo troviamo infatti mercenario a difendere navi cargo dai pirati, sulle coste di un non meglio precisato Stato africano. Qui però scoppia improvvisamente una guerra civile, innescata da un gruppo di ribelli guidato da un feroce mercenario occidentale il cui scopo è destabilizzare il paese. Il conflitto mette a ferro e fuoco l’intero territorio e Leng Feng si ritrova coinvolto nell’evacuazione dei connazionali rimasti indietro, sotto il coordinamento della Marina militare cinese – presente al largo ma impossibilitata a intervenire direttamente a causa di restrizioni diplomatiche. Così Leng Feng si dovrà lanciare in una missione disperata per salvare gli ultimi cinesi rimasti isolati in una fabbrica: solo, disarmato e tallonato dai ribelli. Alla fine riuscirà ad avere la meglio sui mercenari terroristi e a riportare tutti a casa, oltre a proteggere la cura per un’epidemia che affliggeva il paese.
Costato circa 30 milioni di dollari Usa, il film, dopo un periodo di proiezione prolungato dalle autorità del Film Bureau, ne ha alla fine incassati quasi 900, dieci volte più del precedente Wolf Warrior che ha lanciato la saga. Anche questa prima pellicola era ambientata oltre il confine cinese, in una località del Sud-Est asiatico: è consuetudine infatti per i film d’azione cinesi essere ambientati all’estero (inclusi Hong Kong e Macao), dove vengono meno le restrizioni censorie su sparatorie, inseguimenti, esplosioni e scontri violenti. Questo fattore ha contribuito al successo del cinema d’azione cantonese nella Cina continentale sin dagli albori del genere. Anche per questo motivo oggi molti registi e attori dell’ex colonia britannica trovano fortuna nella Repubblica popolare, lavorando in un’industria che, nonostante le limitazioni della censura, vede già da diversi anni una crescita strabiliante e incredibili potenzialità, come testimonia il caso di Wolf Warrior 2. Ed è in ragione di produzioni come questa che oggi il mercato cinematografico cinese è il secondo al mondo, dopo quello statunitense, a sua volta destinato a essere superato in pochi anni.
A contribuire all’eccezionale successo del secondo episodio delle avventure militari dirette e interpretate da Wu Jing è stato forse l’emergere di un eroe dalla personalità articolata, solitario ma mosso da forti principi morali, ribelle ma comunque devoto alla patria e all’Esercito popolare. Un Rambo cinese, insomma, che non ha mai messo in dubbio la propria lealtà né il proprio paese, che a sua volta non lo ha mai davvero abbandonato. Pur enfatizzando il ruolo dell’individuo rispetto alla collettività, Wolf Warrior si mantiene in continuità con la tradizione dei film militari e di propaganda che celebrano l’Esercito popolare di liberazione (Epl) e quel senso patriottico e di missione collettiva che esso rappresenta.[1] Del resto, secondo l’ideologia maoista ogni eroe non può mai essere isolato, né può nascere dal nulla: egli deve germogliare dal popolo, essere un prodotto della nazione, del Partito, dell’Esercito.[2] Così Leng Feng, pur se senza divisa e solo, agisce per conto dell’Esercito cui sarà comunque sempre legato, secondo un’appartenenza inalienabile come il suo essere cinese.
Pur rientrando nella tradizione dei film patriottici definiti della “melodia principale” (zhǔxuánlǜ, 主旋律), Wolf Warrior ha tuttavia portato al successo un nuovo paradigma cinematografico, che l’intera industria culturale cinese cerca da tempo di perfezionare. L’eroismo – ovviamente patriottico – non solo è benedetto dal governo, ma può anche riscuotere un enorme successo commerciale. Lo può fare non solo grazie alla qualità dell’azione e all’intrattenimento, ma anche proprio per quell’orgoglio nazionale che esso sa suscitare, ed è chiaramente pronto per essere sollecitato nel pubblico giovane, per il quale azione ed eroismo sono un richiamo assai attraente. Il traguardo del botteghino non è altro che un’ulteriore legittimazione dei valori e del sistema culturale e politico, a cui l’industria culturale deve adeguarsi.
Allo stesso tempo, il contesto internazionale in cui l’eroe agisce è metafora delle ambizioni militari della Cina nella “nuova era”: una Cina che assume il ruolo di potenza militare forte e determinata ma pacifica e positiva, rappresentazione particolarmente efficace nello scenario africano e tempestiva pensando al ruolo di leadership che Pechino assume con il lancio della Belt and Road Initiative. Il pubblico cinese sembra aver bisogno di nuovi eroi, capaci di creare una narrazione epica degli sforzi di un paese lanciato verso un futuro da superpotenza, e fondato su una forte legittimazione politica, culturale e morale ancor prima che economica.
Missioni impossibili
Le ambizioni militari della Cina sono evocate con ancora maggior chiarezza in un altro film, uscito nelle sale in occasione del Capodanno cinese 2018, e le cui forti similarità con il lavoro di Wu Jing sono emblematiche e forse non casuali. Si tratta di Operation Red Sea (Hónghǎi xíngdòng, 红海行动), diretto appunto da un regista di Hong Kong, Dante Lam. La trama di questa pellicola è ispirata a un fatto realmente accaduto – l’evacuazione di cittadini cinesi dallo Yemen nel marzo 2015 -, così come per il precedente film di Lam, Operation Mekong (Méigōnghé xíngdòng, 湄公河行动), riferito all’episodio noto come “massacro del Mekong” in cui, nell’ottobre 2011, un potente signore della droga locale fece strage dell’equipaggio di due battelli cinesi nel Triangolo d’oro. Un’unità scelta della polizia cinese sotto copertura riuscirà a infiltrarsi nell’area, scoprire i veri mandanti del massacro e sgominare il cartello della droga attraverso una complessa e rocambolesca operazione tra l’investigativo e il militare.
Con Operation Red Sea invece siamo arrivati in Africa e, come per Wolf Warrior 2, l’azione si svolge in un paese immaginario, anche questa volta sconvolto dall’attacco di una milizia ribelle (che esteticamente ricorda i talebani). Anche qui la Marina militare cinese dovrà evacuare i connazionali in pericolo ma senza poter entrare ufficialmente nel paese. Lo farà quindi attraverso una squadra d’assalto scelta. Si tratta di una missione impossibile, ma attraverso un’incredibile sequenza di azione, con combattimenti in cui vengono impiegati armi e mezzi di ogni tipo, e lasciandosi alle spalle una scia di corpi dilaniati, gli eroi raggiungono l’obiettivo, pur subendo le perdite che consentono di celebrare il coraggio e lo spirito di sacrificio che anima le Forze armate cinesi. In Operation Red Sea vengono meno lo humour grossolano, la comica arroganza e il sentimentalismo di Wu Jing, oltre all’aura epica dell’eroe solitario e ribelle. Siamo invece di fronte a “un’azione collettiva, in cui ogni soldato cerca di arrivare in fondo a una battaglia senza fine”.[3] Protagonista è una squadra unita tanto da diventare quasi un solo corpo, priva di personalità eccentriche e priva di star come invece era quella di Operation Mekong, interpretato tra gli altri dall’idolo delle adolescenti Eddie Peng. La squadra di Operation Red Sea è invece un’emanazione diretta dell’Esercito, di cui incarna in pieno principi e personalità.
Si coglie anche in questa differenza come tra l’operazione sul Mekong e quella nel Mar Rosso sia avvenuto un cambiamento: l’intervento dell’apparato ufficiale. Le Forze armate stesse, attraverso il Centro per le arti televisive della Marina militare (Hǎi zhèng diànshì yìshù zhōngxīn, 海政电视艺术中心) e lo Studio cinematografico Primo agosto (Bāyī diànyǐng zhì piàn chǎng, 八一电影制片厂) dell’Epl, hanno co-prodotto (e cofinanziato) questo kolossal commerciale, salendo per la prima volta in cima alle classifiche del box-office. Questa grande operazione commerciale è stata costruita e guidata dal Bona Film Group (Bónà yǐngyè jítuán, 博纳影业集团) – casa di produzione tra le più potenti in Cina, che forse non a caso ha un’origine legata al mondo militare attraverso il gruppo Polybona – e dal suo presidente Yu Dong. Intuite le potenzialità di un film come Operation Mekong (sempre targato Bona Film Group), questi ha cercato il coinvolgimento delle Forze armate e la benedizione del governo, ottenendo anche l’approvazione per l’uscita nella settimana del Capodanno cinese, un periodo caldissimo per il mercato cinematografico, durante il quale ogni anno si raggiungono nuovi record ai botteghini. Anche grazie al felice periodo di uscita, Operation Red Sea è arrivato a incassare quasi 600 milioni di dollari Usa.
Una nuova melodia
Questo matrimonio tra cinema commerciale e politica è una tendenza già in atto da diversi anni, che in alcuni rari casi ha saputo portare al successo il cinema della “melodia principale”, di solito ignorato dal grande pubblico cinematografico. Questo è in media giovanissimo e tende a non apprezzare la maggior parte dei film prodotti dallo Studio Primo agosto, troppo legati a una narrazione stantia e priva di appeal per le giovani generazioni. Fa eccezione il recente Founding of the Army (Jiànjūn dàyè, 建军大业), che celebra la nascita dell’Epl in un affresco storico dai forti toni propagandistici ma ricco di star ed effetti spettacolari. Non un successo strabiliante come gli altri recenti film qui citati, anche per i contenuti storici meno accattivanti per i giovani, ma comunque una produzione importante per lo Studio Primo agosto, che anche in questo caso ha collaborato, tra gli altri, con la Bona Film di Yu Dong.
La produzione di film e, soprattutto, di serie tv a tema militare è sempre presente e gli aiuti del governo assicurano la sopravvivenza del genere. Se in epoca maoista il filone militare era popolato di storie dal fronte coreano, o sulla resistenza anti-giapponese, oggi sono sempre di più le trame che toccano il contemporaneo, celebrando l’Esercito di oggi attraverso l’analisi della sua organizzazione e del suo spessore ideologico, e naturalmente la messa in mostra della sua forza. Questa tendenza al contemporaneo e, nel caso dei due film qui citati, alla costruzione di un immaginario fronte straniero in cui l’Esercito e la nazione cinese possano trionfare, rispondono all’immagine che la Cina vuole dare di sé al proprio pubblico, ma anche all’esterno. Ne è una prova la scena finale di Operation Red Sea, in cui navi da guerra della Marina dell’Epl solcano il Mar Cinese Meridionale e lanciano un annuncio dagli altoparlanti intimando a navi (forse statunitensi) entrate in acque cinesi di allontanarsi. Nessuna intrusione nelle acque cinesi sarà d’ora in poi tollerata e l’Epl è pronto a difendere la sovranità marittima e territoriale della Cina. Un finale che fa anche da eco alle ricorrenti tensioni con i paesi limitrofi per le isole contese.
È un’immagine nuova quella che viene proiettata: non più mero soft power culturale, ma anche la presenza muscolare di un paese che considera le esperienze di sopraffazione ai propri danni una storia ormai archiviata, come emerge nitidamente dal dialogo durante lo scontro finale tra Leng Feng e il capo dei mercenari occidentali. Quando sembra ormai prevalere, quest’ultimo urla a un Leng Feng prostrato: “Quelli come te sono stati sempre inferiori a quelli come me.” Con un ultimo scatto di energia (e di orgoglio), Wu Jing reagisce e ha la meglio sul capo dei mercenari, esclamando: “Non più. Quella è storia!”. Il colpo di grazia, inferto infine con rabbia, simboleggia una più generale rottura con il passato e annuncia una nuova forza, in cui l’intera nazione cinese si possa identificare. Così, alla fine vittorioso, per riportare tutti a casa Leng Feng issa la bandiera della Repubblica popolare cinese: quasi fosse quella della Croce rossa, li farà passare indenni attraverso una zona ancora martoriata dalla guerra. In piedi sul camion, sorretto dai nuovi compagni, cinesi e africani, – in un’immagine che ricorda quasi le opere modello rivoluzionarie – Leng Feng utilizza il proprio stesso braccio come asta per sventolare la bandiera. E immaginiamo in quel momento migliaia – milioni – di giovani cinesi nelle sale cinematografiche di tutto il paese intenti a sventolare la loro bandiera, immedesimandosi nel fervore patriottico e magari sognando di poter diventare un giorno anche eroi.
[1] Chih-ming Wang, “New China in new times”, in Wolf Warrior II. The rise of China and gender/sexual politics, a cura di Petrus Liu e Lisa Rofel, febbraio 2018, disponibile all’Url http://u.osu.edu/mclc/online-series/liu-rofel/#H.
[2] Li Daoxin, Zhōngguó diànyǐng wénhuà shǐ [Storia delle cultura cinematografica cinese] (Pechino: Peking University Press, 2005), 271.
[3] Maggie Lee, “Film review: Operation Red Sea”, Variety, 2 marzo 2018, disponibile all’Url https://variety.com/2018/film/asia/operation-red-sea-review-1202710157.
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