Il 26 marzo 2013 la Marina dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) ha effettuato un’imponente esercitazione nel Mar cinese meridionale, nei pressi di quello che la Cina chiama “Zengmu Reef ”. Sullo sfondo delle complesse controversie marittime in atto nella regione, questa esercitazione sarebbe probabilmente passata inosservata, non fosse per il fatto che Zengmu Reef – noto anche come “Beting Serupai” in malese e “James Shoal” in inglese – si trova all’estremità meridionale del perimetro delle rivendicazioni marittime della Cina. Più precisamente, lo scoglio si trova a circa 80 chilometri dalla Malesia e a ben 1.800 chilometri dalla Cina continentale. Di rado la Cina ha fatto sentire la propria presenza così lontano e mai lo ha fatto con una simile potenza di fuoco: sono state dispiegate quattro navi militari sotto la guida della più moderna imbarcazione per sbarchi anfibi, la Jinggangshan.
Oltre a dimostrare la crescente intransigenza della Cina, l’esercitazione si è contraddistinta per l’assenza di reazioni da parte della Malesia. Non si fa qui riferimento alle proteste standard, che forse sono state espresse attraverso i consueti canali diplomatici. Il punto è che, in confronto alle reazioni di Hanoi e Manila ad analoghe esercitazioni, il governo malese ha risposto in questa circostanza con un silenzio assordante. Che cosa spiega una simile reazione all’aperta dimostrazione del crescente potere della Cina?
Parte della spiegazione può ritrovarsi nel modo in cui la Malesia concepisce la propria relazione con Pechino, vista come unica nel panorama delle relazioni tra i paesi del Sud-est asiatico e la Cina. Certo, Putrajaya non si illude di avere con Pechino un legame intimo e sincero. Vi è però la sensazione che la Malesia e la Cina abbiano implicitamente acconsentito a rispettare i reciproci interessi e ad evitare di esibire i propri dissensi in pubblico. C’è poi la percezione – almeno da parte malese – che la relazione sia di grande valore e di forte significato storico.
Le origini di questa percezione risalgono allo stabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi nel 1974. La Malesia fu il primo Stato membro dell’Asean – allora composta anche da Indonesia, Filippine, Singapore e Thailandia – a stabilire relazioni formali con la Cina. In una fase in cui la Malesia fronteggiava al proprio interno un’insurrezione comunista, il riavvicinamento a Pechino sarebbe potuto apparire inimmaginabile. Tuttavia il Primo ministro malese dell’epoca, Tun Abdul Razak, decise di compiere questo passo nella speranza che Pechino avrebbe smesso di fornire sostegno materiale al Partito comunista di Malaya (Pcm). In effetti, per quanto questa richiesta non sia stata immediatamente accolta da Pechino, ciò avvenne di fatto entro la fine degli anni Settanta.
In Malesia questo continua a essere considerato un evento-chiave nella storia diplomatica del paese. È del resto una lettura che la Cina stessa sembra intenzionata ad accreditare. Per esempio, quando funzionari malesi visitano la Cina – persino le aree più remote del paese – la controparte cinese di rado omette di ringraziare formalmente la Malesia quale primo Stato membro dell’Asean a stabilire relazioni con Pechino. È probabile che simili sentimenti vengano espressi su precisa indicazione del governo cinese, ma – ciò non di meno – essi contribuiscono a creare un’atmosfera positiva per i rapporti bilaterali.
Tutto ciò potrebbe essere letto cinicamente come una capitolazione della Malesia al crescente potere della Cina, o quanto meno come un’ingenua accettazione della retorica diplomatica di Pechino. Ma avrebbe senso per la Malesia adottare un approccio più intransigente nei confronti della Cina?
Una risposta affermativa a questa domanda è difficilmente sostenibile, almeno per ora. Nella controversia sul Mar cinese meridionale, si può dire che in generale la Cina abbia trattato la Malesia con i guanti di velluto. Se poi si guarda alla relazione bilaterale in senso più ampio, va considerato che la Cina è il primo partner commerciale della Malesia e che nessun altro paese del Sud-est asiatico commercia con la Cina quanto la Malesia. Così, dati intensità e benefici della relazione, non avrebbe senso per la Malesia deviare dalla propria politica di cordiali rapporti con la Cina.
Quel che è certo, però, è che la Malesia non si lascerà dominare dalla Cina al punto da perdere la propria libertà d’azione. In altre parole, la Malesia si attrezzerà (cfr. RSIS Working Paper No.244) per evitare di essere “finlandizzata” dalla Cina. In termini pratici ciò vuol dire che, in primo luogo, la Malesia sta rafforzando la propria relazione militare con gli Stati Uniti. Nel decennio precedente al 2011, le visite che navi militari statunitensi compiono ogni anno in Malesia sono passate da numeri a una cifra a oltre 30. Esistono però precisi limiti alla relazione tra Malesia e Stati Uniti: presso ampi settori della popolazione malese – in maggioranza musulmana – Washington resta ben poco popolare, o viene vista quanto meno con sospetto. L’invasione dell’Iraq nel 2003 e l’incapacità di porsi quale mediatore imparziale nel processo di pace israelo-palestinese hanno contribuito a radicare in parte dell’opinione pubblica una percezione negativa degli Stati Uniti.
È possibile che questi limiti vengano gradualmente erosi, parallelamente all’ascesa della Cina? Per ora la Malesia non pare intenzionata a intraprendere la strada del hard balancing. Giusto o sbagliato che sia, i decisori di politica estera continuano a vedere la Cina in termini positivi e i benefici di una solida relazione con Pechino continuano ad apparire irresistibili. Per ora, i leader malesi continuano a sostenere l’ascesa della Cina e a offrire ad essa il beneficio del dubbio. Se però la Cina deciderà che le navi militari sono lo strumento migliore per risolvere le controversie, allora la Malesia potrebbe essere costretta a rivedere questo approccio.
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