“In una delle maggiori città della costa orientale, a metà dicembre 1940, il figlio quindicenne nato in America di un immigrato italiano naturalizzato americano ha tentato il suicidio mentre era a casa da solo dopo la scuola. Fortunatamente, suo padre era tornato a casa presto quel giorno, in tempo per chiudere il gas, trasportare il ragazzo esanime sulla veranda, aprire tutte le finestre e correre dal dottore italo-americano il cui studio era nel medesimo quartiere. Una volta ripresi i sensi, il ragazzo spiegò che aveva voluto morire perché così tanta gente era contenta delle sconfitte italiane in Africa e in Albania, e si divertivano così tanto a prendere in giro gli affranti residenti di Little Italy, deridendo la scarsa qualità di combattenti degli italiani. ‘Questo mi fa impazzire’, spiegò il ragazzo, ‘è terribile essere italiani… oggi in classe uno dei ragazzi mi ha incollato al banco un articolo scritto da quel tipo, Westbrook Pegler[1], che se la prendeva con gli italiani… qualcuno ci aveva scritto sotto: Ha-ha-ha!, a caratteri cubitali. Perché il mio nome è italiano. Ma io non lo sono, papà! Io sono americano! […] Così quando sono tornato a casa, non potevo più sopportare oltre. Mi dispiace papà, lo so che non è colpa tua se sei nato in Italia”[2].
Westbrook, da parte sua, ce l’aveva soprattutto con il modo in cui l’Italia di allora sembrava fortemente intenzionata a interferire con il processo di americanizzazione degli immigrati italiani: “improvvisamente l’Italia mostra un grande amore per queste persone, mentre agenti del Duce cercano di organizzarle in una quinta colonna di traditori nei confronti del paese che diede loro rifugio dall’oscurantismo e dallo squallore dello Stivale”. L’accorata testimonianza del ragazzino italo-americano, raccolta nel bel volume curato da Salvatore Lagumina sulla discriminazione degli italiani negli Usa, risale a oltre settanta anni fa, eppure è straordinariamente attuale. Chi ricorda, oggi, quali considerazioni hanno portato, nel lontano 1912, a plasmare la legge sulla cittadinanza italiana nel senso dello jus sanguinis? A sentire alcuni nostri politici, sembra che tale assunto sia da sempre complemento imprescindibile dell’identità nazionale italiana. Le cose non andarono proprio così, e forse anche per questo vale la pena di riscoprire questi passaggi decisivi del nostro passato, come pure ripercorrere un altro processo storico, ideologicamente strettamente imparentato con il primo: il tentativo mussoliniano di costruire una diaspora fascista. Questo viaggio in un nostro passato tanto imbarazzante, eppure ancora così presente nella nostra normativa vigente, può forse aggiungere pregnanza agli spunti di riflessione già in passato offerti in questa rubrica sulla questione dello “jus soli temperato” che ha infuocato le polemiche politiche di questa primavera-estate 2017.
Nel 1911 l’Italia, con una proditoria aggressione alla Turchia, s’imbarcò nella “impresa di Libia” e conquistò finalmente la “quarta sponda” di un redivivo impero romano, da tempo agognata dai nazionalisti italiani. Questi erano capitanati da Enrico Corradini, fautore di una più assertiva politica coloniale che, a suo parere, avrebbe contribuito a risolvere il problema dell’emigrazione, questo fenomeno “proprio di un popolo a uno stadio inferiore di esistenza”[3]. Perché allora gli italiani emigravano più di qualunque altro popolo al mondo: tra il 1894 e il 1914 se ne erano andate circa tredici milioni di persone. Ma ora che l’Italia stava mettendo insieme i primi pezzi del suo impero coloniale in Africa, si volle trovare un modo per legare a sé anche quei sudditi che erano nati all’estero o avevano scelto di diventare cittadini della nazione dove erano emigrati: il principio dello jus sanguinis, insieme alla scelta di ammettere la doppia cittadinanza, permise all’Italia di reclamare come suoi anche tutti i figli smarriti, una diaspora legata alla lontana madrepatria da inscindibili vincoli di sangue. Si accantonò così l’originaria matrice ideale mazziniana e garibaldina della nazione volontaria, fondata per l’amore della terra in cui si è nati, la civiltà italiana e il servizio che a questa patria si è reso, combattendo per essa o facendole onore[4]. Ora la nazione italiana veniva invece definita come gruppo di discendenza biologico, una stirpe: cioè una declinazione del concetto di “razza” che si sarebbe contrapposta alla sua declinazione antropometrica, il “mito ariano”, per tutta la prima metà del Novecento.
Questo, intriso dei peggiori detriti intellettuali del secolo scorso, contaminato dalle più abominevoli esperienze storiche che hanno visto protagonista l’Italia, è il terreno da cui si è tratto il principio che ancora oggi informa la normativa vigente sulla cittadinanza nel nostro paese. Principio che voci stentoree, come quella di Giovanni Sartori[5], vollero ad ogni costo difendere, in nome di non si capisce quale mal riposto senso di nazione: di certo non quello risorgimentale, men che meno quello forgiato nel tritacarne della Grande guerra. Intimamente collegato alla genesi delle letali utopie (darwinismo sociale, razzismo, positivistica affermazione della superiorità dell’Occidente) che offrirono appoggio morale e intellettuale al periodo di maggior proiezione di potenza delle nazioni occidentali, lo jus sanguinis appartiene in toto a quel lungo XIX secolo[6] che si chiude con la fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc): la prima civiltà non europea a scrollarsi di dosso il giogo dell’imperialismo occidentale[7].
Bisognerà attendere l’avvento del fascismo per comprendere in che modo la nazione-stirpe potesse interferire con la sovranità di altre nazioni, facendo delle “altre Italie” delle potenziali “colonie in pectore”, in grado di sostenere l’espansione coloniale italiana sia in termini economici sia grazie a una diretta partecipazione alla conquista del Corno d’Africa. Nel 1920 il numero degli italiani residenti all’estero aveva toccato i nove milioni, facendo salire del 25% la popolazione italiana complessiva. E questo senza neppure contarne i figli, che per diritto di sangue sarebbero rimasti “italiani” pur essendo nati e cresciuti negli Usa, in Brasile, o in Argentina. Il Partito nazionale fascista fece tutto il possibile per cooptare il consenso degli emigranti e farne, se non propriamente una quinta colonna, quantomeno dei potenziali influencer in grado di spostare l’opinione pubblica dei loro paesi adottivi in senso favorevole all’Italia fascista e alla sua ricerca del proprio “posto al sole” in Africa. Così i consoli si fecero promotori di una programmazione culturale che enfatizzasse l’unità degli italiani dovunque si trovassero, finanziando le scuole di lingua italiana, giornali e programmi radiofonici in lingua italiana, e la Società Dante Alighieri. Alla fine degli anni Trenta c’erano 487 fasci locali istituiti al di fuori dell’Italia, sostenuti da una moltitudine di periodici, opere di carità e religiose, associazioni sportive, scolastiche e di reduci filofasciste. Nel mentre, in Italia, i fascisti incoraggiavano la fedeltà alla nazione fondando colonie estive per i figli d’italiani nati all’estero. Oggi se ne parlerebbe come di promozione del soft power nazionale. Va detto, però, che nei paesi dove gli emigrati italiani e i loro discendenti costruivano le proprie nuove vite, questi, anche quando non apertamente antifascisti, generalmente non erano granché sensibili al richiamo della patria fascista, mentre di certo gli “autoctoni” vedevano con grande sospetto, se non con aperta ostilità, il proliferare di associazioni politiche fasciste sul proprio territorio. Le polemiche sulla lealtà degli italo-americani sono un esempio di come questa politica minasse alla base i processi di radicamento e integrazione socioculturale tanto dei padri come dei figli, rendendo tanto più arduo e doloroso un percorso mai facile.
È interessante notare che la politica della Rpc nei confronti della diaspora cinese è stata a lungo l’opposto esatto di questo tipo di avventurismo nazionalista praticato sulla pelle degli emigranti. Nel 1955, durante la Conferenza di Bandung, la Rpc propose infatti di abolire la cittadinanza plurima per i propri cittadini, con lo scopo di delimitare chiaramente la sovranità del nuovo Stato cinese, evitando che i cinesi della diaspora potessero essere visti come quinte colonne comuniste nei paesi asiatici in corso di decolonizzazione. In questo modo la Rpc poteva concentrarsi sul rafforzamento del controllo interno sui propri cittadini, senza essere coinvolta in faccende che, di fatto, riguardavano ormai cittadini di altri stati[8]. Bisognerà attendere l’epoca delle riforme perché le retoriche identitarie nei confronti della diaspora tornino in auge, anche in questo caso obbedendo a una stringente ragion di Stato: cooptare consenso e capitali per una Cina rampante, la cui proiezione globale diventerà evidente all’inizio del nuovo millennio. Anche la normativa cinese sulla cittadinanza si avvale dello jus sanguinis[9], e dato che non ammette la doppia cittadinanza, nella retorica corrente la rinuncia alla cittadinanza equivale a una sorta di abiura identitaria, un tradimento della nazione. Ciò spiega, in parte, la riluttanza di molti diciottenni cinesi nati in Italia a richiedere la cittadinanza italiana. Contemporaneamente, l’attuale politica di outreach nei confronti della diaspora cinese da parte del governo è parte integrante delle misure volte a incrementare il soft power della nazione cinese, garantendo in tutti i paesi stranieri in cui risiedono cittadini cinesi un blocco di consensus building su cui poter contare in caso di bisogno. Così, in Italia (il paese europeo con il maggior numero di cittadini della Rpc residenti sul territorio), dimostrare sostegno alla patria in occasione della visita di dissidenti (o del Dalai Lama), oppure in caso di contenziosi con altri paesi è diventato un imperativo per le associazioni cinesi nostrane. Perfino le associazioni sino-italiane di advocacy pro jus soli, come Associna, negli ultimi tempi tengono un profilo più basso sul tema, una cautela che si radica nella consapevolezza di come questo sia ormai un tema sensibile per le istituzioni cinesi con cui interloquiscono. C’è da chiedersi cosa mai abbia da guadagnare l’interesse nazionale dalla crescente radicalizzazione dell’amor di patria per la Cina di migliaia di giovani sino-italiani nati e cresciuti in Italia.
[1] L’articolo in questione era “Half-American”, scritto da Westbrook Pegler e pubblicato sul New York World-Telegram del 4 giugno 1940.
[2] Louis Adamic, Two-Way Passage (New York: Harper & Brothers, 1941), 149-50. Citato in Salvatore J. LaGumina, WOP! A Documentary History of Anti-Italian Discrimination in the United States (Toronto-Buffalo-Lancaster: Guernica, 1999) (traduzione dall’originale inglese mia).
[3] Citato in Claudio G. Segrè, Fourth Shore. The Italian Colonization of Libya (Chicago: University of Chicago Press, 1974), 18.
[4] Imprescindibile, per un quadro generale dell’emigrazione italiana, l’opera di Donna Gabaccia, e in particolare il suo classico Italy’s Many Diasporas, trad. it. Donna Gabaccia, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi (Torino: Einaudi, 2003), da cui sono tratte le informazioni e interpretazioni proposte in queste righe. Vedi anche: Federico Chabod, L’idea di nazione (Bari: Laterza, 1961).
[5] In un suo articolo sul Corriere della Sera del 17 giugno 2013: “L’Italia non è una nazione meticcia. Ecco perché lo ius soli non funziona”. Il testo è stato recentemente ripescato e popolarizzato dalla virulenta campagna contro la riforma della cittadinanza da parte di componenti anche assai diversificate dello spettro politico nostrano, ma soprattutto riferibili al centro-destra.
[6] Cfr. Christopher A. Bayly, La nascita del mondo moderno, 1780-1914 (Torino: Einaudi, 2007); ma anche Pankaj Mishra, From the Ruins of Empire. The Revolt Against the West and the Remaking of Asia (London: Allen Lane, 2012).
[7] Robert Bickers, Out of China. How the Chinese Ended the Era of Western Domination (London: Allen Lane, 2017).
[8] Cfr. Daniele Brigadoi Cologna, “La ricerca delle radici e la riaffermazione dell’appartenenza nazionale: politiche e narrazioni dei cinesi d’oltremare nella Cina di Xi Jinping”, Politica, società e cultura di una Cina in ascesa. L’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato, a cura di Marina Miranda (Roma: Carocci, 2016), 153-169.
[9] Legge sulla cittadinanza cinese (approvata durante la III sessione della V Assemblea nazionale del popolo della Rpc, il 10 settembre 1980), art. 4: “Chi è nato in Cina da genitori cinesi o con un genitore cinese, ha cittadinanza cinese”; art. 5: “Chi è nato in uno Stato estero da genitori cinesi o con un genitore cinese ha cittadinanza cinese”.
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