Se guardiamo ai freddi numeri, i rapporti economici tra Italia e Cina non sono particolarmente significativi e sembrerebbero non giustificare l’enorme attenzione che l’opinione pubblica e le imprese italiane tributano al colosso asiatico. Effettivamente, vista dalla Cina, l’Italia non è un partner economico particolarmente importante: è solo il ventunesimo per interscambio commerciale. Ci viene riconosciuta la storia che a tratti ha unito i due paesi, grazie a uomini come Marco Polo e Matteo Ricci, così come la cultura, la moda, il design e il lusso. Questi ambiti, però, non generano grandi volumi, almeno per ora. Se poi un marchio come Bulgari, forte di un buon successo in Cina, passa in mano francese, è chiaro che la situazione non è rosea.
Vista dall’Italia la Cina scatena sentimenti contrastanti tra chi la considera come grande mercato cui aggrapparsi per uscire dalla crisi cominciata nel 2008 (ma per alcuni settori del made in Italy le difficoltà sono iniziate ben prima) e chi invece vede nella competizione delle aziende cinesi la “minaccia finale”, destinata a stroncare le moltissime Pmi italiane.
Probabilmente entrambe le prospettive colgono elementi reali. Di certo, i dati ci dicono che la prima opzione non è per tutti, visto che la Cina rappresenta l’undicesimo paese di sbocco delle nostre merci, ricettore di un magro 2,3% delle nostre esportazioni. Ci si può consolare con il fatto che 10 anni fa questa percentuale era dello 0,7% e che, tutto sommato, esclusa la Germania e in parte la Francia, gli altri paesi europei non fanno meglio di noi. Per ora i numeri ci dicono che la Cina è un mercato importante per chi produce tecnologia e in particolare per la meccanica, che rappresenta oltre il 50% delle nostre esportazioni verso il paese. Dal lato delle importazioni, invece, l’importanza della Cina è cresciuta notevolmente. Se nel 2000 solo il 2,7% delle nostre importazioni veniva dalla Cina oggi siamo a circa il 7%.
Ancora più interessanti sono i dati disaggregati, da cui emergono alcuni fatti noti e altri meno. Dalla Cina importiamo il 30% di tutti i beni semidurevoli, che ricomprendono la gran parte del made in Italy, oltre ad altri prodotti come l’elettronica di consumo. In realtà, quindi, l’Italia esporta verso la Cina pochi prodotti tipici del made in Italy come abbigliamento, arredo casa ecc. (circa il 20% del nostro export verso la Cina), mentre, in compenso, ne importa molti.
Importante, poi, è l’aumento delle importazioni di beni capitali, passate in 10 anni dal 2,5% al 12% sul totale delle importazioni italiane dalla Cina. Questo vuol dire non solo che la Cina sta alzando il livello qualitativo delle sue esportazioni, ma che sempre di più le nostre imprese acquistano macchine e componenti da quel paese. In sostanza le filiere produttive italiane sono sempre più legate alla Cina. Chi sarà in grado di gestire questa filiera allungata riuscirà ad approfittare della Cina non solo come mercato di sbocco ma anche come fonte di approvvigionamento.
Certo è una sfida difficile soprattutto per le imprese più piccole: per approvvigionarsi in Cina occorrono investimenti importanti in termini di tempo e di capitale umano. La selezione dei fornitori è complessa e notoriamente esistono problemi di affidabilità e fidelizzazione. Tipicamente le nostre imprese fanno ordini piccoli e richiedono alta qualità; questo non sempre si addice al sistema produttivo cinese, che è cresciuto soprattutto sui volumi.
Non che in Cina manchino i fornitori di qualità, ma spesso sono rappresentati da imprese di dimensioni importanti e non sono interessati agli ordini relativamente piccoli delle nostre imprese. Ci possono essere fornitori di dimensione minore che vedono negli ordini delle nostre imprese un’opportunità di crescita, ma anche questi vanno monitorati con molta attenzione perché possono crescere rapidamente e perdere di interesse, con ripercussioni immediate sulla qualità e costanza delle forniture.
Le difficoltà legate all’aspetto dimensionale non si limitano però a chi in Cina compra, ma riguardano anche chi in Cina vende – una considerazione che vale in particolare per i settori tipici del made in Italy. Esiste una fascia di consumatori cinese molto benestante e disposta a comprare marchi italiani: questi ultimi però devono essere noti e prestigiosi. Chi ha un marchio importante in Cina vende molto bene. In difficoltà sono le imprese di altissima qualità italiana, ma di piccole dimensioni, che non possono intraprendere campagne pubblicitarie di dimensione adeguata e non riescono a entrare nei grandi shopping malls del lusso dove farsi conoscere.
Infine, va notato come gli investimenti cinesi all’estero stiano crescendo in modo consistente. In un momento di crisi come questo ogni investitore è benvenuto (non era così per gli investitori cinesi prima della crisi).
Purtroppo gli investimenti cinesi in Italia sono molto pochi e di scarso rilievo, anche se qualcosa si muove. Un esempio noto è la Zoomlion, impresa leader in Cina nei macchinari per l’edilizia, che ha di recente acquistato la Cifa, uno dei leader europei nel medesimo settore con oltre 300 milioni di euro di fatturato. Il nuovo gruppo andrà ad insidiare la leadership mondiale del gruppo tedesco Putzmeister. La Zoomlion/Cifa sta ora pensando di insediare a Milano un centro di ricerca per tutto il gruppo.
La dimensione medio-piccola delle nostre aziende fa sì che esse passano spesso sotto il radar degli imprenditori cinesi e che, anche quando sono intercettate, non vengono acquisite perché i costi per selezionare, valutare e gestire una simile impresa in un mercato così lontano non giustificano la portata dell’investimento. Insomma, per la Cina piccolo non è (quasi mai) bello.
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