Dopo la crisi di Piazza Tiananmen e lo sfaldamento dell’impero sovietico, molti pronosticarono l’imminente crollo del Partito-Stato cinese, o la sua apertura in senso democratico. La contraddizione tra il permanere di un sistema politico dichiaratamente comunista e la diffusione di pratiche economiche di matrice capitalistica appariva insostenibile negli anni che avrebbero portato all’egemonia culturale del cosiddetto “Washington consensus”. Nel 1992, tuttavia, l’allora leader supremo Deng Xiaoping si imbarcò in un eccezionale viaggio attraverso le province meridionali della Repubblica popolare cinese (Rpc) (un tour passato alla storia come nanxun, 南巡) con l’obiettivo di rilanciare il programma di riforme economiche che l’ala conservatrice del Partito comunista cinese (Pcc) avrebbe voluto annullare in quanto destabilizzanti per il regime. L’indirizzo del paese è da allora rimasto inalterato nella sua fisionomia di base: la società è chiamata a partecipare da protagonista alla creazione di una “moderata prosperità” (xiaokang, 小康) attraverso l’arricchimento differito dei suoi vari segmenti, accettando il monopolio del potere politico del Pcc in quanto unica guida che abbia saputo archiviare il “secolo delle umiliazioni” e creare una Cina finalmente ricca e forte (fuqiang, 富强, l’elusivo obiettivo delle élite cinesi nella storia contemporanea). Nel 1993 l’Assemblea nazionale del Popolo – l’organo parlamentare, secondo l’ordinamento cinese – approvò un emendamento alla Costituzione che superava la nozione di “economia pianificata” a favore di una nuova formula, tuttora in vigore: “economia socialista di mercato”.
In questo quadro, la legittimità del Partito non si fonda più sul mito rivoluzionario-partigiano o sulla tensione ideologica propri delle epoche “eroiche” della fondazione della Repubblica popolare e dell’alto maoismo, bensì sul perdurare di una soddisfacente performance dell’economia nazionale. L’attuale ricambio ai vertici di Partito e Stato non è destinato a alterare questa logica basilare di tutela delle condizioni che consentono la stabilità del sistema politico. È lo stesso assetto del Pcc a garantire questa dinamica, combinando un’antica cultura politica burocratico-clientelare con un approccio organizzativo che è stato ben definito “leninismo consultativo”. Nell’assenza di una figura che trascenda – o sappia dominare appieno – l’opaco reticolato di relazioni che innerva il sistema-Cina, appare improbabile che possa ripetersi il tentativo di sciogliere la commistione politicolegale del Partito-Stato cinese attuato negli anni ’80 del secolo scorso dal leader riformista Hu Yaobang (alla cui morte prese il via il movimento di protesta di Tiananmen). Soluzioni affini all’esperienza di riforma dall’alto sperimentata da Taiwan o ispirate alla costruzione di uno stato di diritto sul modello di Singapore paiono ambiziose al punto da essere utopiche.
Quali sono, dunque, le sfide sistemiche che la Rpc organizzata intorno alla “quinta generazione” di leader si troverà ad affrontare? Sostanzialmente tre: la graduale definizione di un nuovo paradigma per lo sviluppo economico nazionale, la revisione degli incentivi socioculturali necessari a conferire sostenibilità al progetto di modernizzazione della nazione, e la gestione dei “perdenti” del sistema e dell’“opposizione leale”.
La prima questione è trattata diffusamente nella letteratura e nel dibattito pubblico cinese e internazionale: il passaggio da un’economia orientata all’esportazione e caratterizzata da un altissimo tasso d’investimento a una formula che incentivi la domanda interna e in particolar modo i consumi privati sarebbe benefico sia per la cittadinanza, sia per il comparto manifatturiero globale, per il quale è impellente l’aprirsi di mercati non saturi. Per un verso, infatti, le politiche miranti a questa trasformazione del modello di sviluppo cinese avrebbero una chiara vocazione redistributiva, poiché richiederebbero il superamento dell’attuale prassi di moderazione salariale, la riforma dell’organizzazione del lavoro e dei relativi meccanismi negoziali, e la presenza di una rete socio-assistenziale che tuteli realmente il cittadino, riducendo l’atavica propensione al risparmio in vista dei “tempi bui” (invero numerosi nella storia cinese). Nel contesto economico globale, poi, una Cina che cessasse di fungere primariamente da piattaforma manifatturiera (o, più sovente, d’assemblaggio) internazionale e riequilibrasse il proprio ruolo nel sistema attraverso una maggiore domanda di beni e servizi favorirebbe l’attenuarsi di molti degli squilibri che contribuiscono a esacerbare le tensioni generate dalla crisi finanziaria del 2008. Il documento che postula il perseguimento di quest’obiettivo macroeconomico è il 12° Piano quinquennale (2011- 2015), varato dalla leadership uscente nel marzo 2011, ma destinato a generare i propri risultati principalmente nella fase di governo della nuova dirigenza. Si tratta di un documento che costituisce un chiaro bastione di continuità della linea politico-economica del paese.
Come già il Piano precedente (2006-2010), anche l’attuale non è tanto un esercizio di pianificazione, quanto un insieme di “parametri-guida” per le amministrazioni locali, che peraltro sono alquanto autonome nell’interpretare le indicazioni provenienti da Pechino. Se l’orizzonte di massima rimane quello della creazione di una “società armoniosa” (hexie shehui, 和谐社会) – con l’accento più sul concetto di sviluppo che sulla massimizzazione della crescita economica –, speciale attenzione ricevono le politiche destinate a garantire la sostenibilità di medio periodo della lunga parabola virtuosa dell’economia cinese. Nel complesso è importante notare come, dei 24 obiettivi enunciati nel 12° Piano, ben nove riguardino la valorizzazione del capitale umano. Il dato più evocativo è l’atteso incremento dall’1,75% al 2,20% su Pil della spesa nazionale in ricerca e sviluppo, volto a stimolare condizioni di aumentata creatività e capacità d’innovazione. L’eccessiva dipendenza da ingegno e modelli stranieri costituiscono, infatti, un freno in termini di sviluppo economico, ma anche un fattore di debolezza del soft power nazionale, che è funzione del dinamismo sociale (e civile) di un popolo, prima di essere strumento di potere. Qui, tuttavia, si registra la contraddizione fondamentale con cui la nuova leadership cinese dovrà misurarsi: l’imperativo politico di assicurare “la stabilità prima di tutto” (wending yadao yiqie, 稳定压倒 一切) è incompatibile con la necessità di stimolare il diffondersi nella società di uno spirito critico responsabile e di un’intraprendenza individuale fondata su regole del gioco condivise e istituzioni indipendenti preposte a tutelarle. Nonostante l’efficacia con cui la dirigenza cinese insiste sulle “circostanze peculiari” (guoqing, 国情) in cui verserebbe la Rpc, la sua scelta di produrre e enfatizzare una singola – e pertanto necessariamente artefatta – narrazione della Cina (zhongguode gushi, 中国的故事) risponde a una logica di controllo dell’identità collettiva che mortifica lo straordinario pluralismo di esperienze in cui consiste la vera ricchezza del paese. In assenza di una profonda revisione dei valori e degli incentivi sociali e culturali, una dinamica deteriore costituita di nepotismo, conformismo e rassegnazione rischia di affievolire la vitalità della nazione cinese. Segni preoccupanti in tal senso si registrano già oggi in modo macroscopico non soltanto nel sistema universitario, bisognoso di riforme radicali, ma anche nel mondo dell’impresa, dove l’iniziativa privata negli ultimi anni è stata depressa da politiche di accesso al credito che hanno fortemente agevolato le imprese pubbliche.
Non si tratta, tuttavia, di una mera questione di modelli – se cioè la Rpc configuri un esempio di capitalismo di Stato originale o in continuità con l’esperienza degli stati sviluppisti dell’Asia orientale. Vi sono cruciali risvolti di governance in gioco: l’affermarsi di una prassi di governo fondata sul consenso tra leader alla costante ricerca di un punto di equilibrio non agevola l’impiego di quote consistenti di capitale politico per rilanciare gli interessi dell’imprenditoria privata a discapito delle rendite delle imprese di Stato. Queste ultime sono dirette da figure che provengono dalle fila del Partito-Stato, e sono destinate a ruotare tra posizioni di management e governo secondo logiche di carriera che guardano ai risultati di breve periodo. In assenza di media liberi e di una magistratura indipendente, una simile dinamica non può che incoraggiare fenomeni macroscopici di corruzione, già ufficialmente riconosciuti come grave minaccia alla tenuta del sistema.
La tendenza prevalsa negli ultimi anni è però quella di attribuire le degenerazioni nella gestione della cosa pubblica alla fallibilità dei singoli funzionari, misconoscendo le evidenti fragilità dell’assetto complessivo del paese. La scelta di ostacolare – o intimidire – avvocati impegnati in cause ad alto impatto sociale e di reprimere le voci che potrebbero costituire una “opposizione leale” funzionale alla riforma delle istituzioni è destinata a essere gravida di conseguenze.
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