Psicomagia birmana

“Il moderno indovino è una figura che sta a metà tra il prete e il terapista, e come tale è indispensabile a una popolazione che si sente perennemente insicura tra le mutazioni continue” ha scritto il thailandese Tew Bunnag, romanziere e maestro di arti marziali interne. In Sud-est asiatico è un concetto radicato nell’inconscio collettivo. Potremmo definirlo “psicomagia”, riprendendo l’idea del visionario regista Alejandro Jodorowsky: una cosciente finzione per ritrovare una forza positiva dentro di sé oppure, paradossalmente, per un’accettazione della malattia.

Quella che si sta compiendo in Myanmar è una rappresentazione psicomagica interpretata da 54 milioni di persone. Solo che è magia nera. La stessa accettazione della malattia, come sta accadendo in grandi strati della popolazione, è qualcosa di malsano che induce altri terrori. In molti casi porta alla disperazione e induce a un sacrificio quasi rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

La Birmania – in questa dimensione oscura è il toponimo più consono – diviene l’ultima frontiera del surrealismo, in cui psicomagia richiama sia i fantasmi, gli spiriti, i demoni che popolano l’inconscio collettivo delle popolazioni del Sud-est asiatico come i serpenti nella foresta, sia le psyops, le operazioni di guerra psicologica finalizzate a instillare terrore, sia termini come psicopatico, psicotico, riferiti e riferibili ai militari.

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Uno dei volti dei demoni del pantheon hindu-buddista in una pagoda della capitale Nay Pyi Taw. Fonte: Massimo Morello

La Birmania è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet. È una tragedia, avvolta in un orrore all’interno di un inferno.

“Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione” dice una voce da Yangon. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il COVID-19 si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno.

In questo scenario da incubo il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato capo di stato, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonato a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei Khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. Un delirio in cui il nemico diviene l’incarnazione del male.

Aung San Suu Kyi e la sua National League for Democracy (NLD) sono accusati di aver violato il dhamma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori. “Nei cinque anni precedenti [il golpe] i devoti del Buddha hanno cominciato a dubitare della loro fede nel buddismo” avrebbe dichiarato il generale Hlaing. La Signora, dunque, sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui Rohingya. Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari.

Il dhamma sta subendo una mutazione politica. I militari appoggiano un fondamentalismo buddista che si coniuga col nazionalismo, spesso identificato in una cultura etnica, quella Bamar. Si compone così un sistema in cui la religione diviene un sostegno al potere e un mezzo del potere per distrarre il popolo dai problemi economici, addossarne la colpa ad altri, diluire le sperequazioni sociali nello scorrere del karma. Sempre più valida l’osservazione dell’antropologa Monique Skidmore secondo cui la giunta starebbe sognando una “utopia buddista totalitaria”.

In Birmania, insomma, quando il buddismo si manifesta in forma di religione (il che rappresenta un’antinomia perfetta) diviene disfunzionale, si crea un cortocircuito che in Sud-est asiatico è amplificato dall’animismo, dal pensiero magico, che pervade la cultura dominante come le divinità del pantheon hindu e taoista che circondano le immagini del Buddha. È un concetto molto ben espresso da Thant Myint-U, il più noto storico birmano contemporaneo: “la retorica militare, legata al nazionalismo e alla religione buddista si è rafforzata negli ultimi anni. Spesso gli occidentali confondono il buddismo birmano con quello del Dalai Lama e con una visione pacifista del mondo. In realtà il buddismo in Myanmar è un misto fra religione, astrologia e tradizione, con una forte connotazione conservatrice derivata dalla corrente buddista Theravada. Nel passato anche i re birmani si professavano buddisti, ma questo non gli ha impedito di uccidere migliaia di persone. Rifacendosi agli stessi principi, nella storia più recente i generali birmani si sono sentiti investiti del ruolo di protettori, anche quando ciò implicava l’uso della violenza. Il generale Than Shwe, il dittatore che ha guidato il Myanmar dal 1992 al 2011, era sicuramente molto condizionato da una visione superstiziosa del mondo legata ad astrologia e numerologia. Anche il generale Min Aung Hlaing, attuale capo della giunta birmana è molto religioso nel senso tradizionale birmano.

Il processo mitopoietico che ha condotto a questa situazione nella sua complessità è ben delineato da Sylwia Gil in “The role of monkhood in contemporary Myanmar society”. Secondo la studiosa di buddismo Theravada, la tradizione fa risalire la diffusione della dottrina in Birmania a un’epoca di poco successiva al tempo in cui Siddartha Gautama ricevette l’illuminazione e divenne il Buddha storico. Successivamente, ben prima che si affermasse la dottrina Theravada, nel settimo secolo, in Birmania fu introdotta la pratica del buddismo Ari, originario dell’India e del Tibet e, secondo alcuni storici, praticato dagli Ari, monaci residenti nella foresta. Una forma di buddismo oscura come le sue origini in cui confluiscono varie correnti mistiche provenienti dall’Asia meridionale e dalla Cina oltre a culti animistici come quello dei nat, gli spiriti, i protagonisti dell’underworld birmano, e rituali come lo yadaya, derivato dal brahmanesimo, che serve a prevenire o neutralizzare il malocchio.

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Un monaco che medita in cammino nei corridoi della pagoda Ko-Taung a Mrauk-U. Fonte: Massimo Morello

È a questo brodo di coltura che si alimentano i weizza, i “maestri di saggezza”, ma anche “maestri d’incantesimi”, secondo le diverse traduzioni di un antico termine Pali. Sono individui che, coltivando le virtù buddiste, ma anche attraverso la pratica di arti esoteriche, acquisiscono poteri soprannaturali: maghi, taumaturghi, guide spirituali, modelli sociali e culturali. E anche tra i weizza si distinguono coloro che seguono la via delle virtù buddiste e altri che hanno ceduto alla seduzione del “lato oscuro” alimentando il fondamentalismo, l’intolleranza in nome di una presunta superiorità etnica e religiosa. Tra i primi, i monaci dell’ordine di Shwe Kyin, conosciuti per il rigore con cui seguono il vinaya, il codice di condotta monacale. Sono loro che hanno osato sfidare la giunta intimando ai militari di cessare ogni violenza. Ben più forte è la voce delle anime nere del potere. Il più famoso è il monaco Wiseitta Biwuntha, noto come Ashin — ossia il Maestro — Wirathu, che nel 2013 è apparso nella copertina di Time come “Il volto del terrore buddista”. Wirathu era il leader del Movimento 969, che si richiama ai nove attributi del Buddha, i sei del suo insegnamento e ai nove del Sangha, la comunità dei fedeli. In un paese, come gli altri dell’area, ossessionato dalla numerologia, 969 è divenuto il simbolo del Savanna. Questo termine Pali, che ingloba la comunità buddista e l’essenza stessa dell’insegnamento del Buddha, da oltre due millenni giustifica ogni deviazione dall’insegnamento stesso.

Nel 2003 Wirathu era stato incarcerato per istigazione alla violenza antimusulmana, ed è stato liberato nel 2012 con altre centinaia di prigionieri politici. Secondo molti osservatori era il momento di servirsi di lui come agente provocatore per spostare verso i musulmani il risentimento popolare e far apparire i militari quali difensori dell’identità nazionale. Non a caso Wirathu è poi divenuto anche uno degli esponenti del Ma Ba Tha (acronimo birmano per Associazione Patriottica del Myanmar) che promuoveva l’idea della “protezione della razza e della religione” e nella campagna elettorale del 2015 si era espresso a favore dei militari, invitando a votare contro la NLD di Suu Kyi.  In seguito, Wirathu è stato accusato di sedizione ma è “magicamente” sfuggito all’arresto, per poi ricomparire con un coup de theatre ed essere imprigionato a novembre 2020. Altrettanto spettacolare ma ancora più prevedibile il suo rilascio da parte dei militari, ai primi di settembre di questo anno.

Ma la vera anima nera del regime è un altro monaco, un weizza, Bhaddanta Vimala Ashin Kovida, più noto come Vasipake Sayadaw per la sua pratica del silenzio. È considerato il consigliere spirituale del generale Min Aung Hlaing e di sua moglie Daw Kyu Kyu Hla ed è anche il loro personale bedin-saya, astrologo. Sembra che Hlaing si sia rivolto a lui per stabilire il momento più propizio per il golpe. Secondo fonti ben accreditate è stato lui a consigliare di ordinare alle forze di sicurezza di sparare alla testa dei manifestanti. Il motivo è oscuro: potrebbe essere una punizione per aver voluto ergersi al di sopra dell’ordine gerarchico, una maledizione karmica, una forma di terrore… psicomagia.

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In molte pagode, come in questa di Mrauk-U, le immagini del Buddha vengono illuminate con neon colorati. Una versione psichedelica. Fonte: Massimo Morello


Per saperne di più

Morello, M. (2021) Burma blue. Rosenberg & Sellier. Disponibile su: https://www.rosenbergesellier.it/ita/scheda-libro?aaref=1454

Patton, T. N. (2020) The Buddha’s Wizards: Magic, protection, and healing in Burmese Buddhism. Columbia University Press. Disponibile su: http://cup.columbia.edu/book/the-buddhas-wizards/9780231187602

Tan, A. (2006) Perché i pesci non affoghino. Feltrinelli.

Thant Myint-U (2020) L’altra storia della Birmania. Una distopia del XXI secolo. add editore. Disponibile su: https://www.addeditore.it/catalogo/thant-myint-u-laltra-storia-della-birmania/


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