Traduzione dall’inglese di Simone Dossi
Lo spazio economico comune dell’Eurasia, immaginato in molti progetti infrastrutturali oggi al centro del dibattito internazionale, non potrà esistere senza uno spazio comune di sicurezza che ricomprenda l’intero continente eurasiatico. Ogni discussione sull’agenda della sicurezza in Eurasia implica inevitabilmente una comparazione tra Asia ed Europa, con la logica conclusione che la seconda è molto più progredita nel settore della sicurezza rispetto alla prima. Gli europei vantano una consolidata esperienza nel creare un sistema di istituzioni di sicurezza interconnesse che coprano l’intero continente, nel negoziare accordi giuridicamente vincolanti per il controllo degli armamenti, nell’attuare misure di controllo e di confidence building, e così via. Nulla di simile a questo articolato sistema di misure in materia di sicurezza è mai stato sperimentato in Asia. Spesso si afferma quindi che – se si vuole costruire un meccanismo comune per la sicurezza in Eurasia – esso non potrà che nascere come naturale estensione del modello europeo, opportunamente modificato e ricalibrato per servire una regione più ampia.
La recente crisi ucraina, tuttavia, ha dimostrato ancora una volta in modo drammatico la fragilità dell’attuale sistema di sicurezza eurasiatico. Nessuna delle numerose organizzazioni di sicurezza esistenti è stata in grado di intervenire nelle fasi iniziali della crisi, nessuna misura di confidence building si è dimostrata efficace. La crisi è stata gestita (o non è stata gestita) attraverso una serie di telefonate tra i leader di Russia, Unione europea e Stati Uniti e attraverso episodici incontri tra i rispettivi ministri degli Esteri. Ci sono voluti circa due mesi per convocare l’incontro di Ginevra sull’Ucraina, altri quattro mesi per organizzare un vertice a Minsk, e il risultato di quest’ultimo non è stata una roadmap dettagliata, bensì una dichiarazione assai breve e ambigua, soggetta ad interpretazioni arbitrarie da parte di ciascuna delle parti firmatarie. La crisi ha inoltre dimostrato che le vecchie percezioni da guerra fredda e i conseguenti approcci sono ancora ben presenti in Europa, e che la mentalità da “gioco a somma zero” è ancora in voga tanto a Oriente quanto a Occidente.
I recenti sviluppi in Europa riflettono problemi di più vasta portata, che non sono circoscritti al solo continente europeo. Stiamo oggi assistendo a un crescente deficit di governance a livello globale, che interessa tutti i continenti e tutte le regioni. Che cosa significa questo per la regione eurasiatica? Ha senso immaginare che essa possa dimostrare la propria natura innovativa non solo nel campo delle tecnologie avanzate e nelle pratiche di business, ma anche nell’approccio alla sicurezza regionale e globale? L’approccio tradizionale alla sicurezza – quello prevalso nel XX secolo – attribuiva assoluta priorità ad accordi sul controllo degli armamenti che fossero giuridicamente vincolanti e prevedessero meccanismi di verifica. Ciò era vero tanto per le armi convenzionali quanto per quelle nucleari. Due aspetti del regime di controllo degli armamenti erano di particolare importanza: l’“aritmetica” (quantità specifiche di determinate armi, soggette a controllo, riduzione o eliminazione) e la “geografia” (le specifiche aree geografiche coperte da ciascun accordo). Questi erano i pilastri dell’approccio tradizionale al controllo degli armamenti che ha funzionato piuttosto bene nel corso del XX secolo.
È però difficile immaginare che questo modello possa funzionare altrettanto bene in Europa e in Asia oggi. Nel mondo contemporaneo il numero di armi non è più di importanza decisiva, poiché i fattori qualitativi stanno acquisendo più importanza degli aspetti quantitativi: l’equilibrio di sicurezza non è più definito dall’aritmetica bensì dall’“algebra” della sicurezza – l’efficienza dell’infrastruttura C3I (comando, controllo, comunicazione e intelligence), la precisione, la potenza di fuoco e altri parametri non numerici dei sistemi d’arma. Anche la geografia della sicurezza sta perdendo la sua centralità e viene sempre più rimpiazzata da parametri quali la mobilità, le capacità di dispiegamento rapido e di proiezione di potenza. Nel nostro mondo nomadico anche il potere militare è divenuto nomadico, il che complica immensamente i negoziati per il controllo degli armamenti. A ciò si aggiunga che il progresso tecnologico genera nuovi tipi di armi, come i droni, che sono estremamente difficili da localizzare, verificare e includere nell’equazione del controllo degli armamenti. Infine, accordi giuridicamente vincolanti sono destinati a incontrare notevoli ostacoli nel processo di ratifica da parte dei parlamenti nazionali, per effetto delle complicazioni della politica interna.
Sembra dunque necessario allontanarsi dal controllo degli armamenti tradizionale, immaginando un nuovo modello di cooperazione nel settore della sicurezza che si potrebbe sperimentare in Eurasia e – se avesse successo – applicare in futuro ad altre regioni del mondo. Dovrebbe basarsi non tanto sulla riduzione di specifici tipi di armi, bensì su misure concrete che producano una maggior prevedibilità, trasparenza e coordinamento delle politiche di difesa degli attori principali della regione. È la fiducia reciproca a generare sicurezza, e non il contrario. Per creare fiducia occorre avere consapevolezza dei timori, delle aspirazioni, delle intenzioni e delle decisioni della controparte, il che richiede sforzi volti a: (1) riconciliare le percezioni di minaccia dei diversi attori; (2) rendere pubbliche informazioni sui programmi di ricerca, sviluppo e acquisizione nel settore della difesa; (3) rendere pubbliche informazioni più dettagliate sui bilanci della difesa; (4) aumentare l’efficacia dell’osservazione reciproca di esercitazioni militari nazionali e internazionali; (5) rafforzare sia i contatti tra Forze armate, sia la cooperazione nel settore delle industrie della difesa. Se assumiamo che le preoccupazioni di sicurezza delle principali potenze della regione eurasiatica coincidono in buona parte, allora un simile approccio soft alla cooperazione di sicurezza potrebbe dimostrarsi più realistico del tradizionale approccio hard incentrato sul controllo degli armamenti.
Questo approccio richiederà molto impegno e molta pazienza. Data la sensibilità delle questioni relative alla sicurezza, è difficile immaginare che gli Stati siano pronti a una maggiore trasparenza in questo settore. Vi sono tuttavia alcuni casi in cui il modello è stato effettivamente testato in Eurasia e si è dimostrato straordinariamente efficace: in particolare la gestione del confine tra Russia e Cina, che configura a tutt’oggi il più importante accordo di riduzione degli armamenti convenzionali al mondo. La Russia e la Cina non hanno negoziato su specifici numeri di truppe, carri armati, pezzi d’artiglieria, mezzi da trasporto corazzati, aerei da combattimento ed elicotteri dispiegati su ciascuno dei due versanti del confine. Al contrario, le due parti hanno prima rafforzato la fiducia reciproca, risolvendo le controversie territoriali ancora aperte, scambiandosi informazioni sulla difesa, organizzando esercitazioni militari congiunte, favorendo la cooperazione nel settore della difesa. Il risultato è che oggi il confine tra i due paesi è drasticamente smilitarizzato e la probabilità di un conflitto al confine tra i due paesi non è maggiore di quella di uno scontro militare tra Stati Uniti e Canada nella regione dei grandi laghi. Da un punto di vista tradizionale questa sistemazione è per definizione inferiore a un accordo hard giuridicamente vincolante, ma la realtà è che nessuna delle due parti si sente per questo motivo meno sicura.
In Eurasia si pone anche l’esigenza di integrare le agende di sviluppo e di sicurezza dei diversi attori. Per lungo tempo queste due agende sono state mantenute separate, nel timore che collegando la cooperazione economica ai problemi di sicurezza irrisolti la si potesse compromettere. Il risultato di questo approccio è la situazione paradossale nella quale ci troviamo oggi: l’Eurasia è caratterizzata da una profonda interdipendenza economica, con i più alti livelli al mondo di scambi intra-regionali di beni, tecnologie e capitali, ma è, al tempo stesso, il continente in cui le spese per la difesa crescono più velocemente, e in cui resta attuale la minaccia della proliferazione nucleare, il commercio di armi è in forte crescita e restano irrisolte diverse controversie territoriali.
È possibile mantenere le due agende separate all’infinito? Probabilmente no. Non solo perché problemi di sicurezza irrisolti potrebbero costituire un grave ostacolo all’ulteriore approfondimento dell’integrazione economica, ma anche perché l’agenda della sicurezza del XXI secolo in Eurasia sta diventando sempre più satura di questioni economiche e sociali. La maggior parte dei problemi ereditati dall’era precedente – controversie territoriali, rivalità nazionali radicate nella nostra storia comune, il problema delle nazioni divise – non sono riconducibili a una dimensione meramente economica. Al contrario, le nuove sfide – la sicurezza cyber, quella alimentare ed ecologica, quella energetica, la criminalità transnazionale, il traffico di stupefacenti – hanno una preminente dimensione economica. Persino le minacce poste dal radicalismo politico, dal fondamentalismo religioso e dal terrorismo sono strettamente interconnesse con gli sviluppi demografici, sociali ed economici in atto nel nostro spazio comune.
Integrare le agende della sicurezza e dello sviluppo in Asia è un obiettivo straordinariamente complesso, che richiede sforzi comuni da parte di tutti gli attori responsabili della regione. Ogni paese ha la propria lista di questioni da affrontare. Ma senza la sicurezza lo sviluppo rimane fragile, e senza lo sviluppo la sicurezza non è sostenibile.
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