Quarant’anni di riforme: la crescente risonanza del modello sino-capitalista

La terza sessione plenaria dell’11° Comitato centrale del Partito comunista cinese nel dicembre 1978 ufficializzò l’inizio dell’era delle riforme. A quarant’anni da quell’evento di portata storica, la Cina è la seconda economia a livello globale, la prima potenza commerciale, il primo mercato per numero di consumatori, ed è una delle maggiori potenze militari. Le relazioni sempre più strette della Cina con le altre economie mondiali hanno permesso inoltre l’affermarsi di nuovi valori, l’elaborazione di nuove politiche, e la fondazione di nuove istituzioni. È dunque naturale chiedersi quali fattori abbiano trainato la rinascita della Cina contemporanea, cosa si possa imparare dall’esperienza di sviluppo del paese, e se il modello di sviluppo della Cina abbia trovato risonanza internazionale al punto tale da arrivare a dare forma alle pratiche di sviluppo delle economie di altri paesi.

Un gruppo di visitatori transita davanti a un dipinto raffigurante il Presidente Xi Jinping, parte della mostra “Great Tides Surge Along the Pearl River 40 Years of Reform and Opening-up in Guangdong” del Museum of Contemporary Art & Planning Exhibition (MOCAPE) di Shenzhen (immagine: Qilai Shen/Bloomberg via Getty Images).

L’era delle riforme in Cina ebbe inizio quando la leadership del Partito comunista – Deng Xiaoping in primis – decise di accantonare le lotte ideologiche e diclasse, intraprendendo vari esperimenti in materia economica, come consentire ai mercati di giocare un ruolo di maggiore spicco nella ridistribuzione delle risorse economiche, riformare le imprese di Stato, e autorizzare la proprietà privata, pur entro certi limiti.[1] Si aprì così una fase improntata a un forte pragmatismo, un momento storico in cui la dirigenza del Pcc propose audaci politiche di sviluppo, facendo del rilancio dell’economia un obiettivo di primaria importanza per la Repubblica popolare cinese. L’intento di Deng risulta oggi chiaro: mantenere intatto il regime politico imperniato sul Pcc, evitando che Pechino compisse un nuovo, ideologico “balzo in avanti” simile a quelli già sperimentati con gravi conseguenze nella storia della Cina comunista. Deng non credeva nei dogmi del socialismo. Al contrario, egli spinse i vertici del Partito-Stato verso la pragmatica ricerca del maggior numero possibile di soluzioni che avrebbero consentito alla Cina di tornare ad essere una potenza globale forte e prospera.

Gli avvenimenti di Piazza Tian’anmen nel 1989 e il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 inflissero alla politica riformista di Deng un pesante contraccolpo, ma questa riprese nuovo slancio con il “viaggio a sud” del 1992. Durante la sua visita nel Guangdong, Deng definì lo sviluppo “una dura verità”, ponendo così fine ai tradizionali dibattiti sulla natura “socialista” o “capitalista” delle riforme da lui stesso introdotte.

Una nuova tornata di riforme nei primi anni Novanta allentò il controllo dello Stato sulle attività economiche e sociali, legalizzò la proprietà privata e consentì la competizione di mercato. L’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 2001 segnò il successo dell’integrazione del paese nell’economia di mercato globale. La Cina cominciò così ad attirare una nuova ondata di investimenti diretti esteri e si trasformò in uno snodo cruciale delle catene globali del valore, specialmente per quanto riguarda settori come l’elettronica. Anche grazie a un progresso tecnologico tanto importante quanto celere, quando Xi Jinping si affermò come nuovo leader indiscusso del paese nel biennio 2012-2013 la Repubblica popolare aveva ormai archiviato il proprio passato di società tra le più povere al mondo per accedere ai ranghi dei paesi a reddito medio. Sul piano della partecipazione politica, sin dall’inizio degli anni 2000 agli imprenditori privati era stato concesso di entrare a far parte del Pcc. Unica regola, quella stabilita dal Deng nel 1979: le basi sulle quali poggia il dominio del Partito comunista non possono essere messe in discussione.

Questo assetto emerge in modo evidente nel documento della “Decisione” ufficializzata al termine  della terza sessione plenaria del 18° Comitato centrale del Pcc del novembre 2013.[2] Tale “Decisione” rifletté l’impulso originario del periodo delle riforme in Cina, ma conferì maggior rilievo ad alcuni elementi ulteriori specificamente riferibili all’agenda politica di Xi Jinping. Il documento dispone riforme di ambizione considerevole, che per la prima volta consentano al mercato di giocare un ruolo “decisivo” nell’economia cinese. Negli ultimi cinque anni, tuttavia, non si sono riscontrati interventi normativi e regolativi a supporto delle sole forze di mercato. È stata, infatti, altresì ribadita la centralità del Pcc, dello Stato, e del loro agire come forze di governance socio-economica.[3] La più chiara espressione di questa dinamica è probabilmente rappresentata dal piano “Made in China 2025” (MC2025), un progetto volto a conciliare le logiche della competizione di mercato e della proprietà privata con le politiche di uno Stato interventista e sviluppista. È un piano che impegna la Cina a raggiungere i livelli di progresso tecnologico dell’Occidente entro il quinquennio 2025-2030.

Il progetto MC2025 desta non poche preoccupazioni a Washington, Bruxelles e Berlino. E’ ragionevole che l’Occidente sia preoccupato per il progresso tecnologico di un’enorme economia politica, ma le critiche rivolte contro le pratiche economiche della Cina spesso sembrano puntare nella direzione sbagliata. Alla Cina si rimprovera tendenzialmente di aver sviluppato una forma di “capitalismo di Stato” in cui le autorità dominano i processi decisionali dell’economia, conferendo a Pechino quello che è percepito come un ingiusto vantaggio nel contesto competitivo dell’economia globale.

Tuttavia, la peculiare varietà di capitalismo che la Cina ha sviluppato negli ultimi quarant’anni non è caratterizzata dalla dominazione dello Stato. Quello che è qui definito come “sino-capitalismo” è il combinato dell’interazione dialettica tra modalità gerarchiche e Stato-centriche di governance e una vivace imprenditoria fatta di reti che influenzano le dinamiche economiche dal basso. La maggior parte delle interpretazioni sull’evoluzione della Cina in senso capitalistico non sembra tuttavia cogliere come quest’interazione dialettica tra Stato e capitale privato sia l’essenza del successo economico cinese. In Occidente, le opinioni sul sino-capitalismo sono spesso di parte, poiché si diffida dell’efficacia di un qualsiasi intervento dello Stato nell’economia, e si attribuiscono valenze positive solo all’imprenditoria e ai meccanismi di competizione del mercato. Una visione uni-dimensionale del fenomeno appena citato, tuttavia, non sembra cogliere come sia stato proprio l’originale equilibrio tra queste due forze a consentire la straordinaria ascesa economica della Cina.

Il modello “sino-capitalista”
Il modello “sino-capitalista” comprende al suo interno varie componenti,[4] tra cui le istituzioni derivate della storia cinese e più moderne rivisitazioni delle istituzioni asiatiche di sviluppo e del Washington Consensus neo-liberale. Pechino, ad esempio, ha adottato diversi princìpi riconducibili al Washington Consensus, quali la prudenza fiscale e monetaria, l’apertura internazionale dell’economia, l’importanza riconosciuta all’iniziativa privata e all’imprenditoria, e una graduale liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei beni di consumo. Tuttavia, nonostante l’adesione a queste agende politico-economiche di matrice neo-liberale, il sino-capitalismo consente il raggiungimento di un perfetto equilibrio tra Stato interventista e imprenditoria perché non rinuncia a determinati elementi tipici delle economie in via di sviluppo impegnate nel realizzare la propria crescita economica. Oggi diversi aspetti di questo modello sembrano aver ottenuto risonanza internazionale.

Anzitutto, il modello pone enfasi sulla necessità di stabilire un apparato di governo relativamente integro che possa implementare le politiche stabilite in modo efficace. Il Partito-Stato cinese è tendenzialmente riuscito ad agire efficacemente nell’implementazione delle decisioni assunte in sede politica. Con il proseguire della vigorosa campagna anti-corruzione lanciata da Xi Jinping nel tardo 2012 il paese continua a fare i conti con quella che sarà probabilmente la più grande esperienza di censura e rimozione di pratiche e funzionari corrotti della storia del paese. Questo non significa che  un intervento così invasivo non provochi problemi, ma la campagna ha già avuto due effetti principali: ha riscosso il consenso della maggior parte dei cittadini cinesi e ha inciso drasticamente sulla controverse pratiche di corruzione endemiche nel sistema cinese.

Una seconda caratteristica del modello sino-capitalista rinvia ai massicci investimenti compiuti per sviluppare le infrastrutture fisiche del paese. Oggi la Cina non solo prosegue in questa direzione, ma ha iniziato ad esercitare una vera e propria leadership globale nel settore, specialmente attraverso la Belt and Road Initiative (BRI) e la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (AIIB).[5] Per molte economie in via di sviluppo iniziative di questo genere hanno una portata prevalente rispetto all’enfasi che in Occidente si suole mettere sulle riforme di apertura del mercato interno cinese, che possono avere conseguenze non previste, minando la capacità produttiva nazionale e creando instabilità finanziaria. Le iniziative cinesi sostengono progetti per le infrastrutture fisiche che possono apportare benefici diretti alle economie nazionali di paesi terzi, al contempo permettendo loro di partecipare all’economia globale.

La terza caratteristica del modello sino-capitalista è una notevole capacità di adattamento, che consente approcci pragmatici ed eclettici in tema di politica economica. Uno dei successi meno citati dell’esperienza di riforma cinese riguarda il suo carattere sperimentale.[6] Si individuano siti specifici per la sperimentazione economica e li si trasforma in zone economiche (o commerciali, o industriali) speciali. Queste consentono il proliferare di iniziative “dal basso” che concorrono agli obiettivi generali delle riforme testando svariate proposte di soluzioni. Questo approccio sperimentale “dal basso” è poi bilanciato dagli interventi diretti dello Stato, volti a controllare che non si verifichino scenari inaspettati in seguito all’eventuale fallimento di alcuni esperimenti, o, al contrario, che si diffondano rapidamente eventuali buone pratiche in tutto il sistema.[7] In questo momento è lo sviluppo tecnologico indigeno ad essere principalmente ricercato attraverso tale approccio sperimentale.

Infine, l’ultima prerogativa del modello sino-capitalista consiste nel porre l’accento sull’upgrade tecnologico e, di conseguenza, sull’incremento della produttività dell’economia nazionale. Come illustrato da Xi Jinping nel discorso al 19° congresso nazionale del Partito comunista cinese nell’ottobre del 2017, la Cina farà grandi passi avanti nello sviluppo di tecnologie avanzate nei settori più vari, dalla telefonia mobile, ai veicoli elettrici, all’informatica quantistica.

Come per molti altri aspetti del modello sino-capitalista, anche l’innovazione tecnologica è vista come prodotto del connubio tra iniziative private e interventi statali – un assetto in netto contrasto con i dogmi del neo-liberismo, che vorrebbero le dinamiche economiche, innovazione tecnologica compresa, lasciate al mercato e all’impresa privata. Il pervasivo intervento della mano pubblica nelle politiche di sviluppo tecnologico, compresi i vari progetti di “lanci sulla luna” che potrebbero apportare considerevoli e inaspettati benefici anche al settore privato, richiamano pratiche tipiche dell’Occidente all’epoca della Guerra fredda. I paesi in via di sviluppo potrebbero ricorrere a queste stesse tecniche su vasta scala, applicandole in diversi settori.

La crescente risonanza internazionale del modello “sino-capitalista”

La popolarizzazione del concetto di Beijing Consensus, a partire dalla pubblicazione del volume di Joshua Cooper Ramo nel 2004, accese un vivace dibattito sulla replicabilità del modello di sviluppo cinese in altri contesti.[8] Il Beijing Consensus si presentava evidentemente come l’alternativa diretta al modello di sviluppo di conio statunitense incarnato dal Washington Consensus. Un approccio flessibile allo sviluppo, secondo Ramo, che non crede nell’applicazione delle stesse soluzioni a situazioni diverse. Il termine Beijing Consensus fu presto ridotto al significato di “capitalismo di uno Stato autoritario”. Il dibattito sulla sua applicabilità in altri paesi sfociò quindi in un’argomentazione secondo la quale questo modello non avrebbe ottenuto sufficiente credibilità a livello internazionale. La maggior parte dei commentatori cinesi arrivò addirittura a sostenere che l’esperienza di sviluppo della Cina sia troppo unica per poter essere replicata altrove e gli stessi leader cinesi hanno evitato accuratamente di presentare quello cinese come un modello di sviluppo “esportabile” in quanto tale.

Oggi le cose stanno velocemente cambiando. In occasione del 19° congresso nazionale del Pcc, Xi Jinping ha esposto il suo pensiero sul “socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era”.[9] Anziché enfatizzare la mera crescita del Pil nazionale, o il profitto delle aziende e del mercato interno, Xi ha proposto una visione di sviluppo incentrata sulla “costruzione di una Comunità di destino comune” che non comprende solo la Cina, ma anche paesi e popoli al di fuori dei suoi confini. Nel dicembre 2017, con l’intento di approfondire questa idea, il Pcc ha creato un’occasione di dialogo con partiti politici di altri paesi. Il documento pubblicato in seguito all’evento è stato intitolato “Beijing Initiative”: esso trae ispirazione proprio dalla nuova convinzione, espressa durante il 19° congresso, secondo cui l’esperienza di sviluppo della Cina può essere significativa anche per altri paesi. L’elaborazione di una strategia di portata globale è cosa nuova per i leader cinesi, ma la trasformazione economica della Cina permette ora loro di portare avanti credibili iniziative di respiro internazionale, quali la BRI e l’AIIB. I vertici del Partito-Stato considerano la Cina ormai pronta ad assumere un ruolo centrale nella formulazione di una nuova visione strategica che si basi sull’esperienza positiva di sviluppo del modello sino-capitalista.

Osservando questi progressi in prospettiva storica, è ancora troppo presto per valutare come il resto del mondo abbia interpretato gli sforzi di Pechino. Appare però innegabile che certi aspetti dell’emergente modello sino-capitalistico sono già stati adottati da altre economie in via di sviluppo. L’Arabia Saudita è un esempio inatteso: diverse tra le più recenti iniziative politiche di Riad sono un palese richiamo alle politiche introdotte in Cina. L’iniziativa “Vision 2030”, in particolare, punta a ridurre la dipendenza del regno saudita dal petrolio, allo stesso tempo diversificando l’economia del paese per trasformarlo in un leader globale in diversi settori industriali. Il piano, che comprende anche un rinnovato slancio verso l’attuazione di riforme sociali e culturali, richiama espressamente in più occasioni la Belt and Road Initiative. Il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman ha inoltre avviato una campagna anti-corruzione su vasta scala, chiara eco degli analoghi tentativi di Xi di estirpare le pratiche di corruzione dal Partito-Stato cinese.

“Vision 2030” ha attirato critiche per via della natura troppo ambiziosa di molti degli obiettivi che vi sono associati, oltre che per la notevole differenza tra le necessità di sviluppo dell’Arabia Saudita rispetto alla Cina, cui pure le autorità saudite paiono ispirarsi. Ai fini del nostro discorso, tuttavia, ciò che rileva è che l’elaborazione di politiche come “Vision 2030” può indicare come il modello sino-capitalista stia acquisendo sempre maggiore risonanza a livello internazionale. Naturalmente, esso non costituisce un insieme coerente di principi di sviluppo: al contrario, fa leva su una varietà di approcci flessibili, pragmatici, eclettici, e specificamente pensati perché si possano applicare alle situazioni più disparate. Probabilmente è proprio questo il segreto della forza del modello sino-capitalista: la sua adattabilità a molteplici percorsi di sviluppo non deriva da dogmi ideologici adatti a tutte le circostanze, bensì da principi generali e logiche applicative di carattere mutevole.

Con l’affievolirsi della credibilità del Washington Consensus è poco probabile che assisteremo alla virata del resto del mondo verso formule di conio cinese.  Piuttosto, la principale implicazione dell’inedita influenza del modello sino-capitalista consiste nell’indicare un futuro di rinnovato pluralismo in termini di definizione del concetto di sviluppo economico e di pratiche utili a perseguire la prosperità globale.

 

 

 

 

[1] Barry Naughton, Growing out of the plan: Chinese economic reform, 1978-1990 (Cambridge: Cambridge University Press, 1995).

[2] “Communiqué of the third plenary session of the 18th Central Committee of the Communist Party of China”, China.org.cn, 15 gennaio 2014, disponibile all’Url http://www.china.org.cn/china/third_plenary_session/2014-01/15/content_31203056.htm.

[3] Elizabeth C. Economy, The third revolution: Xi Jinping and the new Chinese state (New York: Oxford University Press, 2018).

[4] Si vedano: Christopher A. McNally, “Sino-capitalism: China’s reemergence and the international political economy”, World Politics 64 (2012) 4: 741–776; Christopher A. McNally, “Theorizing sino-capitalism: implications for the study of comparative capitalisms”, Contemporary Politics (2018) numero da assegnarsi, disponibile all’Url https://www.tandfonline.com/eprint/84QskzkympXrPUYqsfFA/full.

[5] Giuseppe Gabusi, “Crossing the river by feeling the gold: the Asian Infrastructure Investment Bank and the financial support to the Belt and Road Initiative”, China & World Economy 25 (2017) 5: 23-45.

[6] Sebastian Heilmann, Red swan: how unorthodox policy-making facilitated China’s rise (Hong Kong: Chinese University Press, 2018).

[7] Christopher A. McNally, “Theorizing sino-capitalism: implications for the study of comparative capitalisms”, Contemporary Politics (2018) numero da assegnarsi, disponibile all’Url https://www.tandfonline.com/eprint/84QskzkympXrPUYqsfFA/full.

[8] Joshua Cooper Ramo, The Beijing Consensus (Londra: The Foreign Policy Centre, 2004).

[9] “Backgrounder: Xi Jinping thought on socialism with Chinese characteristics for a new era”, Xinhua, 17 marzo 2018, disponibile all’Url http://www.xinhuanet.com/english/2018-03/17/c_137046261.htm.

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