Il 7 aprile 1954, il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower utilizzò l’immagine delle “tessere del domino che cadono” per rispondere alla domanda di un giornalista sull’importanza strategica dell’Indocina per gli Stati Uniti e i suoi alleati[1]. Egli descrisse la percezione di “insicurezza interconnessa[2]” del Sud-Est asiatico della Guerra fredda insinuando che l’Indocina si trovasse alla testa di una “fila di un domino”, il che significava che se i comunisti avessero “rovesciato la prima”, il resto del Sud-Est asiatico sarebbe “caduto molto rapidamente[3]”. Il mese successivo, i comunisti vietnamiti rovesciarono la prima tessera sconfiggendo sonoramente le forze francesi a Dien Bien Phu. In risposta, Eisenhower disse alla stampa che gli Stati Uniti e i suoi alleati non avrebbero dovuto abbandonare l’Indocina, ma piuttosto avrebbero dovuto cercare di “costruire quella fila di domino in modo che potessero contenere la caduta di una sua tessera[4]”.
Indipendentemente dal fatto che l’immagine del domino di Eisenhower avesse offerto o meno una valutazione strategica accurata del Sud-Est asiatico della Guerra fredda, la metafora rimane intimamente associata al coinvolgimento sempre più profondo degli Stati Uniti nella regione, volto a “costruire quella fila di tessere del domino” dopo la Seconda guerra mondiale. Alcuni storici della politica statunitense hanno spiegato l’infausto impegno statunitense in Viet Nam come un esempio di come Washington avesse imposto alla regione i luoghi comuni della teoria del domino, ignorando di proposito le dinamiche interne uniche di ciascun Paese del Sud-Est asiatico. Forse questo spiega perché la maggior parte degli studi sulla teoria del domino ne ha individuato le origini lontano dalla regione stessa alla quale Eisenhower applicò per la prima volta la sua metafora. Alcuni vedono tracce della teoria nell’acquiescenza dell’Occidente nei confronti di Adolf Hitler nel 1938, che presumibilmente incoraggiò l’espansionismo nazista in Europa. Altri sostengono che la teoria nacque quando gli analisti statunitensi videro l’Unione Sovietica invadere l’Europa orientale, l’Iran, la Grecia e la Turchia dopo il 1945. In poche parole, gli studiosi hanno a lungo ipotizzato che Washington non pensasse affatto al Sud-Est asiatico, ma guardasse altrove, quando pianificava la sua politica di Guerra fredda nella regione[5].
In realtà, i politici statunitensi avevano[6] ben presente la storia del Sud-Est asiatico quando consideravano l’importanza della regione nel conflitto bipolare. Nel bene e nel male, il principio del domino dell’insicurezza interconnessa del Sud-Est asiatico è emerso proprio perché i pianificatori statunitensi avevano studiato attentamente gli affari interni dei Paesi del Sud-Est asiatico, anche se attraverso la lente etnica, prestando particolare attenzione alla relazione tra la Cina controllata dai comunisti e la diaspora cinese sparsa nella regione[7]. Washington temeva infatti che l’etnia cinese che viveva nel Sud-Est asiatico – circa dieci milioni di persone all’inizio degli anni Cinquanta – potesse essere facilmente al servizio dei disegni egemonici di Pechino, essendo “etnicamente, culturalmente e politicamente […] legata alla madrepatria”. Tali asserzioni erano in realtà precedenti alla Guerra fredda, poiché i funzionari statunitensi e britannici temevano abitualmente che il Guomindang di Chiang Kai-shek, anticomunista, che aveva dominato la Cina continentale fino alla fine degli anni Quaranta, potesse usare i cinesi del Sud-Est asiatico e persino quelli di “sangue parzialmente cinese” come “strumento per estendere l’influenza della Cina nel Sud-Est asiatico[8]”.
Gli atteggiamenti statunitensi e britannici nei confronti del cosiddetto “problema cinese” non furono univoci. Per secoli, le potenze coloniali europee nel Sud-Est asiatico, come gli olandesi nelle Indie Orientali e gli spagnoli nelle Filippine, nutrirono simili sospetti sulle tendenze politiche dei cinesi del Sud-Est asiatico. Esse temevano che la dinastia Qing, malgrado fosse una monarchia straniera in Cina, potesse ancora attirare l’attenzione nella regione attraverso la diaspora cinese. Durante la Seconda guerra mondiale, anche l’Impero giapponese rimase diffidente nei confronti delle popolazioni cinesi nei territori occupati. Dopo tutto, i cinesi del Sud-Est asiatico, in particolare quelli di Malaya e Singapore, avevano raccolto ingenti somme di denaro per la guerra del Guomindang contro il Giappone a partire dalla fine degli anni Trenta. Per arginare l’afflusso transnazionale di risorse che la rete della diaspora cinese stava destinando ai nazionalisti cinesi, i militari giapponesi massacrarono migliaia di persone di etnia cinese in Malaya e a Singapore[9].
Non sorprende, quindi, che i politici statunitensi avessero espresso le loro ansie da Guerra fredda sulle ambizioni regionali del Partito Comunista Cinese (PCC) e delle sue reti della diaspora con frasi come “penetrazione cinese”. ’ll’inizio del 1949, quando il PCC sembrava sul punto di sconfiggere i nazionalisti di Chiang, gli analisti americani cominciarono a riflettere sul profondo impatto dell’“ascesa” comunista in Cina, prevedendo che il PCC avrebbe “fatto uso delle considerevoli minoranze cinesi” nel Sud-Est asiatico, tutte presumibilmente “legate alla patria da forti vincoli”. Queste aspettative si cristallizzarono ulteriormente dopo la vittoria del PCC nell’ottobre 1949. I funzionari americani che visitarono il Sud-Est asiatico nei mesi successivi tornarono con dei rapporti in cui scrissero che la diaspora cinese “estranea e non assimilata” avrebbe potuto diventare un “veicolo di infiltrazione del comunismo” nella regione, in due modi in particolare: ribellandosi ai governi amici degli Stati Uniti, come le autorità britanniche in Malaya e a Singapore, oppure sostenendo l’“invasione via terra” della Cina nel Sud-Est asiatico, che secondo i pianificatori britannici e statunitensi avrebbe ricalcato la campagna militare avviata dal Giappone imperiale nell’ultimo conflitto mondiale.
Gli stessi funzionari statunitensi produssero anche una mappa grezza del numero di etnie cinesi residenti in ogni Paese del Sud-Est asiatico, che probabilmente consolidò le visioni di Washington sulle reti cinesi in tutta la regione, ovvero una “quinta colonna” pronta a favorire l’espansionismo del PCC[10]. Sia la percezione dell’insicurezza interconnessa del Sud-Est asiatico della Guerra fredda, sia la logica principale di quello che Eisenhower chiamò in seguito il “principio del domino che cade”, evocavano una visione decisamente razziale della regione: il PCC avrebbe mobilitato i numerosi cinesi del Sud-Est asiatico, uniti tra di loro da una comune razza e cultura, per rovesciare come tessere del domino i governi della regione legati all’Occidente.
Per la verità, i timori degli Stati Uniti riguardo agli obiettivi e alle strategie del PCC non erano del tutto infondati. Subito dopo che il PCC aveva preso il controllo della Cina continentale, l’intelligence statunitense apprese che Pechino progettava di “raddoppiare gli sforzi per utilizzare i gruppi di cinesi d’oltremare” per espandere l’influenza comunista nel Sud-Est asiatico[11]. A tal fine, il PCC inviò un’ingente quantità di materiale di propaganda comunista all’etnia cinese nella nuova Indonesia indipendente, in Malaya e a Singapore, entrambi sotto il controllo britannico, contribuendo a far sì che molti cinesi in Indonesia partissero per unirsi al servizio civile cinese, una scelta parallela a quella dei cinesi malaysiani e singaporiani che si recavano nel continente per proseguire gli studi superiori. Allo stesso modo, gli analisti statunitensi che in quel periodo avevano studiato la Malaya, Singapore e la Thailandia appresero che il PCC fu particolarmente abile nel conquistare i convertiti tra gli studenti delle scuole di lingua cinese, poiché i comunisti cinesi inondavano le aule di libri di testo rivisti dal PCC e ingaggiavano insegnanti filocomunisti, ispirando i giovani di etnia cinese con appelli a una valorosa lotta anti-imperialista contro l’Occidente.
Inoltre, i guerriglieri del Partito Comunista della Malaya (PCM) – un movimento composto quasi interamente da cinesi – avevano lanciato una rivolta armata contro le autorità britanniche a partire dalla fine degli anni Quaranta. Fresco della sua resistenza popolare contro le forze di occupazione giapponesi, il PCM riuscì a infiltrarsi anche nei sindacati e nelle scuole medie di lingua cinese a Singapore. Poiché l’etnia cinese costituiva quasi il 40% della popolazione dell’allora Malaya e i tre quarti di quella di Singapore, i leader britannici erano molto preoccupati della capacità del PCM di utilizzare le affiliazioni etniche e culturali per il reclutamento di altro personale o, quantomeno, per ottenere sostentamento dai simpatizzanti della comunità cinese. Per preservare i propri interessi imperiali in Asia Orientale, il governo di Londra non poteva permettere che il PCM invadesse la Malaya (la sua produzione di gomma era, allora, la principale materia prima di importazione per la Gran Bretagna) o Singapore (le sue basi aeree e navali erano le più importanti del Commonwealth nella regione)[12].
Sebbene non fosse chiaro fino a che punto il PCM avesse goduto del sostegno di Pechino, i servizi segreti britannici e statunitensi scoprirono che agenti del PCC erano stati inviati in Malaya e a Singapore. Queste informazioni, insieme al costante flusso di propaganda del PCC in entrambi i territori, confermarono ai funzionari statunitensi e ai loro alleati britannici la presenza della mano della Cina comunista dietro le paralizzanti manifestazioni antibritanniche degli anni Cinquanta, guidate in gran parte da studenti delle scuole medie in lingua cinese di Singapore. In ogni caso, il PCM accennava apertamente, all’interno del suo materiale ideologico, alle sue strette relazioni con il “fratello” cinese, rafforzando così le convinzioni statunitensi sulla tendenza di lunga data del partito ad emulare l’esperienza del “comunismo cinese”. Per i politici statunitensi, le prove che gli agenti del PCC stavano collaborando o corteggiando attivamente l’etnia cinese nelle Filippine, così come la modesta minoranza cinese in Birmania, non facevano che chiarire come la “penetrazione cinese” avesse ormai intrecciato i destini dei Paesi del Sud-Est asiatico[13].
In questo contesto, la Gran Bretagna svolse un ruolo decisivo nel permettere alla logica del domino di coagularsi nella visione strategica del Sud-Est asiatico che l’alleato statunitense aveva in mente. Mentre i funzionari statunitensi viaggiavano nella regione all’indomani del trionfo del PCC nel 1949, le loro controparti britanniche in Malaya e a Singapore alimentavano coraggiosamente le preoccupazioni dell’alleato riguardo alla Cina e alla sua diaspora, nella speranza di incrementare gli aiuti e l’impegno degli Stati Uniti nel sostenere gli interessi occidentali contro il comunismo asiatico. Dalla fine del 1949 fino al 1950, i funzionari britannici spiegarono ripetutamente ai funzionari statunitensi in visita nella regione, tra cui alti diplomatici e comandanti militari, che Pechino avrebbe operato per “procura”, attivando la “quinta colonna locale” formata da comunisti e da cinesi di ogni Paese del Sud-Est asiatico per ottenere il dominio regionale.
Il commissario generale britannico per il Sud-Est asiatico, Sir Malcolm J. MacDonald, si dimostrò molto persuasivo. Egli descrisse vividamente come i Paesi del Sud-Est asiatico sarebbero caduti, uno dopo l’altro, nel momento in cui la Cina si sarebbe collegata con la sua diaspora e avrebbe conquistato prima l’Indocina, e in seguito la Thailandia, la Malaya e Singapore. I funzionari statunitensi elogiarono, senza risparmiarsi in complimenti, le acute intuizioni di MacDonald sulla minaccia comunista cinese: il commissario britannico fu il grande comunicatore delle loro paure incoerenti, dando a queste una forma definita e un movimento dinamico[14].
Nell’ottobre 1950, i funzionari statunitensi avevano formalmente inserito questo embrionale principio del domino nella loro visione strategica della regione. Nel valutare le conseguenze della dominazione comunista del Sud-Est asiatico continentale, l’intelligence statunitense accettò pienamente l’assunto secondo il quale la caduta dell’Indocina avrebbe “fornito ai comunisti un’area di sosta, oltre alla Cina, per le operazioni militari contro il resto del Sud-Est asiatico continentale”. Questa condizione avrebbe visto la Thailandia cedere per mano dei comunisti e, a sua volta, le lotte della Gran Bretagna in Malaya e a Singapore si sarebbero “notevolmente aggravate[15]”. Quattro anni dopo, l’immagine idiosincratica del domino di Eisenhower avrebbe semplicemente dato un nome alle ricorrenti percezioni di stampo razziale dell’interconnessione del Sud-Est asiatico che molte Potenze imperiali sembravano da tempo mostrare. Non solo, la medesima immagine dava un nome alla visione grafica di MacDonald che di fatto permise ulteriormente agli Stati Uniti di dare avvio a un loro coinvolgimento in una regione in cui sono tuttora essenzialmente presenti.
In questo nuovo secolo, tuttavia, la rinascita della Cina e le sue esplicite ambizioni regionali nel Sud-Est asiatico hanno messo alla prova ciò che settant’anni di sforzi statunitensi hanno prodotto per “costruire quella fila di domino”. Purtroppo, gli orrori, gli spargimenti di sangue e le distruzioni della Guerra fredda che si verificarono maggiormente in Viet Nam, senza citare altri Paesi della regione, offrono scarse speranze che l’attuale rivalità sino-statunitense lascerà indenni i popoli del Sud-Est asiatico.
Traduzione dall’inglese a cura di Raimondo Neironi
[1] Eisenhower, D.D., The President’s News Conference, 7 aprile 1954, The American Presidency Project, disponibile online al link https://www.presidency.ucsb.edu/documents/the-presidents-news-conference-361 [ultimo accesso, 5 gennaio 2021].
[2] Ngoei, W-Q., “The Domino Logic…”, cit.
[3] Eisenhower, D.D., The President’s News…, cit.
[4] Eisenhower, D.D., The President’s News Conference, 12 maggio 1954, The American Presidency Project, disponibile online al link https://www.presidency.ucsb.edu/documents/the-presidents-news-conference-452, [ultimo accesso, 5 gennaio 2021].
[5] Sulle critiche e le spiegazioni delle origini della “teoria del domino” della politica statunitense nel Sud-Est asiatico, si vedano Logevall, F. (2012), Embers of War: The Fall of an Empire and the Making of America’s Vietnam, New York; NY: Random House; Ninkovich, N. (1994), Modernity and Power: A History of the Domino Theory in the Twentieth Century, Chicago: University of Chicago Press; Khong, Y.F. (1992), Analogies at War: Korea, Munich, Dien Bien Phu, and the Vietnam Decisions of 1965 (Princeton; NJ: Princeton University Press.
[6] Il corsivo è dell’autore [N.d.T.].
[7] Ngoei, W-Q., “The Domino Logic…”, cit.
[8] Ibi, pp. 233, 237.
[9] Ngoei, W-Q., “The United States and …”, cit., pp. 243–244.
[10] Ibi, p. 244.
[11] Ibi, p. 246.
[12] Ngoei, W-Q., “The Domino Logic…”, cit., p. 237.
[13] Ngoei, W-Q., “The United States and …”, cit., pp. 246-247; Id., Arc of Containment…, cit., pp. 17–44.
[14] Ibi, pp. 39–43.
[15] Ibi, p. 43.
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