[LA RECENSIONE] All’ombra del dragone. Il Sud-Est asiatico nel secolo cinese

All’ombra del dragone. Il Sud-Est asiatico nel secolo cinese

Sebastian Strangio, All’ombra del dragone. Il Sud-Est asiatico nel secolo cinese, Torino: Add editore, 2022.


Se è vero che per comprendere fino in fondo la politica estera cinese è necessario osservare i rapporti di Pechino con i confinanti nel Sud-Est asiatico, è altrettanto vero che per capire le dinamiche politiche, economiche e sociali dei Paesi dell’Asia sud-orientale non si può prescindere dal loro complesso, antico e allo stesso tempo rinnovato rapporto con il grande vicino a nord. In questo affascinante percorso di conoscenza ci guida Sebastian Strangio, giornalista collaboratore delle più prestigiose testate internazionali (dal New York Times all’Economist, da Al Jazeera a Foreign Policy), attraverso le pagine di un articolato volume – pubblicato da Yale University Press nel 2020 – che passa in rassegna le relazioni della Cina con la regione, viste dalla prospettiva sud-est asiatica. L’ascesa della Cina ha inevitabilmente comportato il rafforzamento degli interessi economici, commerciali e (inevitabilmente) politico-strategici di Pechino in Viet Nam, Cambogia e Laos, Thailandia, Birmania, Singapore, Malaysia, Indonesia, Filippine, ma tale fenomeno non è completamente nuovo.

Nel corso dei secoli, mentre l’Impero cinese si preoccupava di difendersi dalle incursioni a settentrione, un continuo flusso migratorio di popolazioni del sud della Cina sosteneva la sua “marcia verso i tropici” (l’autore intitola così il secondo capitolo, prendendo a prestito il titolo di un famoso testo di Herold J. Wiens, pubblicato nel 1954). In piena epoca Ming, però, nel Sedicesimo secolo, nella regione arrivano gli europei, e il loro imperialismo porrà fine al mondo sinocentrico che “poneva la Cina al cuore della civiltà” (p. 36). Era uno schema basato sul riconoscimento dell’autorità imperiale, legittimata a governare “tutto quanto è sotto il cielo” (tianxia) in cambio del rispetto dell’autonomia, negli affari interni, dei diversi regni che ne contornavano i confini formali (peraltro in espansione). Strangio argomenta che oggi “il ritorno della Cina nel Sud-Est asiatico sancisce la fine di una breve parentesi storica – durata al massimo cinquecento anni – in cui la regione era perlopiù sotto il controllo delle nazioni occidentali” e “rappresenta una ripresa, seppur con mezzi diversi, dell’antica espansione verso sud” (p. 38). Ma la storia non si ripete uguale a sé stessa: questi antichi regni, dopo essersi liberati dal giogo coloniale, sono ora degli stati indipendenti – non riconoscenti alcuna autorità superiore, in senso westfaliano – con una propria agency e capacità, più o meno evidenti, di ridurre l’asimmetria di potere che caratterizza le relazioni bilaterali con un vicino così ingombrante. Che si tratti di rinegoziare i termini contrattuali della costruzione di un corridoio ferroviario – come in Laos e in Malaysia – o di una diga artificiale – come in Birmania –, oppure di assistere all’occupazione cinese degli isolotti e atolli del Mar Cinese Meridionale (o Mare Orientale, secondo i vietnamiti), i governi della regione non intendono sottostare passivamente alle condizioni poste da Pechino per l’engagement reciproco.

Essere proattivi, abili e inventivi per evitare di rimanere succubi è anzitutto una necessità di politica interna. In misura variabile, tutti questi stati sono caratterizzati dalla presenza di una vasta comunità di cittadini di origine cinese, che spesso fanno parte della ricca élite mercantile, attorno alla quale non è mai venuto meno il sospetto – quasi atavico – di rappresentare una possibile leva azionabile da Pechino per promuovere gli interessi della Repubblica Popolare. In epoca maoista il timore era rappresentato dall’infiltrazione dei partiti comunisti nazionali – basti pensare al sostegno al Partito comunista birmano –, spesso utilizzato per giustificare soppressioni di rivolte in nome della libertà (Thailandia 1976), o massacri su scala inimmaginabile (Indonesia 1965) (si vedano gli articoli di Takahashi Katsuyuki e di Guido Creta su questo numero). Oggi, il duplice sospetto è che Pechino faccia ricorso a questi legami storici con una parte della popolazione per, da un lato, contrastare o addirittura reprimere il dissenso e la critica verso il Partito Comunista Cinese (PCC), le sue politiche e la sua stessa idea di Cina, e, dall’altro, sostenere attività economiche, investimenti e piani infrastrutturali strategici per Pechino, ma non necessariamente conformi all’interesse nazionale del Paese ospitante.

In più, conta la dimensione esterna. Malgrado le reticenze di Pechino ad ammettere gli episodi di conflitto con i vicini – un esempio su tutti è rappresentato dalla breve invasione del Viet Nam, nel 1979 –, gli stati dell’Asia sud-orientale sanno che non è possibile fidarsi completamente della Cina, nemmeno quando Xi Jinping, in un apposito incontro dell’ottobre 2013, auspica la loro inclusione nella più ampia visione strategica di una “comunità dal destino comune”: “nonostante i tentativi di incoraggiare il vicinato meridionale, questo ricorso a slogan che promettono vantaggi a trecentosessanta gradi cozza con la modalità effettiva con cui la Cina si supporta alla regione: una modalità sempre più lontana dalla “seduzione” e sempre più vicina all’aggressione” (p. 51). Perciò, i singoli governi restano in qualche modo, mediante accordi bilaterali o all’interno dei molteplici fora asiatici, agganciati all’Occidente per garantirsi un futuro privo di sottomissione. Questo esercizio non è privo di difficili equilibrismi e contorsioni diplomatiche, come ben racconta l’autore descrivendo la politica estera dell’ex presidente delle Filippine Rodrigo Duterte. Ciò spiega anche perché i governi dei Paesi ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) non siano indifferenti alla proposta occidentale di riconfigurazione della regione attorno alla visione dell’Indo-Pacifico – un costrutto sociale che mira a rafforzare l’idea di regione libera, aperta, equa che, se non esclude a priori la Cina, di fatto propone un’architettura politica, economica e istituzionale a cui la Repubblica Popolare Cinese, per come oggi è configurata, non può aderire.

Benché siano consapevoli che la loro prosperità dipenderà dalla forza e dalla resilienza dell’economia cinese, gli stati della regione non credono alla retorica di una Cina diversa e distinta dalle altre grandi potenze perché unica, o “unicamente unica”, armoniosa e inclusiva, e vedono invece un gigante, dotato di enorme potere strutturale – come definito da Susan Strange – pronto ad approfittare delle asimmetrie di potere e della debolezza altrui per estendere la propria influenza. La retorica di una Cina vittima dei grandi imperi coloniali europei, e perciò stesso nuova fonte di ispirazione per tutti gli stati che nel passato vissero la stessa condizione, non convince: “per quanto Pechino stia recuperando il potere e la ricchezza di un tempo, le sue azioni restano improntate al mito della vittimizzazione delle potenze imperiali, passate o presenti che siano. Finché resterà legata a quest’idea, è molto probabile che la classe dirigente cinese non riuscirà a capire perché il suo potere e il suo comportamento provochino preoccupazioni così persistenti. Il rapporto tra Cina e Sud-Est asiatico si basa dunque su una contraddizione sempre più tesa tra la percezione di sé professata dal PCC come parte lesa dei disegni occidentali e la realtà del proprio fiorente potenziale imperiale” (p. 473).

Tuttavia, la geografia conta: pur non volendo essere messi nelle condizioni di dovere scegliere tra Pechino e Washington, gli stati del Sud-Est asiatico considerano inevitabilmente la Cina un attore di riferimento anche per il futuro, mentre gli Stati Uniti dovranno essere in grado di convincerli che la loro (non scontata) presenza nella regione sia necessaria perché utile. L’autore cita Chan Heng Chee, ex ambasciatore di Singapore a Washington: “Non obbligate i Paesi della regione a scegliere. Quello che sentirete potrebbe non piacervi” (p. 485). Perciò, e poiché diversamente da quel che succedeva negli anni Sessanta e Settanta del Ventesimo secolo la crescita dell’influenza cinese è di natura economica, e non ideologica, “la strategia americana dovrebbe assumere un atteggiamento più sfumato: tendere a un equilibrio più realistico tra valori e interessi, e creare un modello di competizione stabile che eviti i toni eccessivi di una retorica della contrapposizione speculare” (p. 486).

Nella tradizione del miglior giornalismo anglosassone, Sebastian Strangio ha il merito di riuscire, in cinquecento pagine, a dare conto, senza annoiare, dell’estrema complessità dei rapporti del Sud-Est asiatico con la Cina, grazie ad anni di ricerca sul campo passati a intervistare attori economici, politici e del mondo della cultura, raccogliere dati di prima mano, osservare situazioni. All’ombra del dragone è quindi un volume a tratti quasi enciclopedico, molto denso, ricco di fatti e opinioni da cui partire per approfondire specifici aspetti dei temi trattati. Leggere il volume è aprire una porta d’ingresso alla regione, e scoprire una realtà variegata che non smette di affascinare, incuriosire, interrogare: una lettura obbligatoria per chi voglia capire come sta evolvendo il Ventunesimo secolo.

Questo recensore ha solo due piccoli appunti da muovere. Come già ricordato altrove, avremmo dovuto eliminare da tempo l’espressione “Dragone” dai titoli dei libri sulla Cina contemporanea: farà anche vendere copie, ma non rende giustizia all’articolata problematizzazione del contenuto, e rischia sempre di fare della Cina una caricatura stereotipata (peraltro nella versione in lingua inglese il titolo è esattamente identico, quindi non si tratta di una scelta dell’editore italiano). Infine, RISE continua a seguire l’indicazione ricevuta dalla Crusca all’inizio della sua pubblicazione come rivista: in italiano, per indicare lo stato con capitale Kuala Lumpur è preferibile la forma “Malaysia” a “Malesia”, e i suoi cittadini sono “malaysiani” e non “malesiani”, evitando così di confondere etnia e stato. Che per segnalare difetti del volume si debba ricorrere al puntiglio formale su due questioni marginali è la prova che il libro, invero, difetti non ha.


 

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