“La Cina è ancora lo specchio nel quale, da sempre, l’Occidente trova meglio riflessa la sua immagine al contrario” (p. 7). Inizia così, tra Italo Calvino e Marco Polo, l’intelligente e provocatorio libro-manifesto di Francesco Grillo, consulente strategico, editorialista, e docente universitario. L’autore parte da una semplice constatazione: come è possibile che l’Occidente negli ultimi decenni abbia sofferto un decremento della produttività, malgrado l’ampia diffusione di una tecnologia sempre più sofisticata? Il gap tra aspettative e realtà ha provocato frustrazione nei cittadini, e generato una comune percezione di “obsolescenza della democrazia” (p. 30). Nello specchio, invece, l’Occidente liberaldemocratico vede una Cina marxista-leninista che ha ridotto la povertà materiale di centinaia di milioni di persone, incrementato la vita media dei suoi abitanti, e migliorato considerevolmente l’istruzione dei giovani. Tutto questo significa che hanno ragione sia il presidente russo Putin, quando dichiara che la liberaldemocrazia è morta, sia gli elettori (e gli eletti) ammaliati dalla maggiore efficienza dei regimi autoritari? La risposta è ovviamente no, ma la tesi centrale del libro è che occorre in qualche modo smetterla di fare finta di niente e osservare inermi la piega degli eventi, riconoscendo che, se vogliamo davvero difendere il nostro modello politico, dobbiamo ripensare il funzionamento della democrazia, adattandolo alle sfide tecnologiche del XXI secolo.
L’Occidente, secondo l’autore, si trova a fronteggiare tre “blocchi” che gli impediscono di guardare serenamente al futuro. In primo luogo, l’Occidente – ubriacato dal neoliberismo – ha perso di vista la dimensione del ruolo dello stato in economia (l’autore cita spesso il best-seller Lo Stato Innovatore di Mariana Mazzucato), o meglio di una filosofia delle politiche pubbliche che Grillo chiama “intelligenza collettiva” (p. 47). Inoltre, il raggiungimento di un certo livello di benessere rende “difficile persino identificare i bisogni e capire cosa ci serve” (p. 48): come operare quindi scelte condivise? Infine, la confusione scatenata dall’overdose di informazioni fruibili grazie alla rete richiede un supplemento di conoscenza che ripropone la necessità “di tornare a una categoria di intellettuali universali che deve essersi estinta nelle università, diventate esse stesse burocrazie e frammentate in microscopici specialismi” (p. 49).
Appare quindi allo specchio la Cina, con l’umiltà dei suoi leader – anche se in questo caso si potrebbe obiettare all’autore che la presunta umiltà è a volte semplice insicurezza, e che l’attuale politica estera della Cina è invece assai ambiziosa. Pur ricordando le sfide che la Repubblica popolare cinese (Rpc) ha davanti a sé (non da ultima, la sfida dell’identità), il libro invita a conoscere la Cina al di là dei pregiudizi, e ad ascoltarne sette lezioni: l’umiltà appunto (data peraltro dalla necessità di rimboccarsi le maniche per uscire dalla povertà estrema frutto delle politiche maoiste), la visione strategica, la democrazia come metodo, la sperimentazione, la misurazione dei risultati delle politiche pubbliche, lo studio e il merito come meccanismi di avanzamento nelle carriere politiche, la capacità di innovare e affrontare mondi nuovi.
L’innovazione e la tecnologia sono centrali nel ragionamento di Grillo. Se la rete ha completamente stravolto le categorie politiche, a cominciare dalla rappresentanza, la dirigenza cinese sembra almeno avere sviluppato un’internet strategy di mantenimento e di sviluppo del consenso – la rete cioè come spazio (laboratorio) in cui il (controllato) dibattito fornisce gli strumenti per esperimenti di policy utili per la pianificazione statale. In un Occidente che ha perso la capacità di sperimentare politiche nuove, assistiamo invece alla “libertà senza responsabilità” e a una “cittadinanza senza doveri” (p. 164) in cui Internet è un’arena di scontro per tribù autoreferenziali di affezionati ai propri leader, essi stessi schiavi dei sondaggi, schiacciati sul presente e incapaci poi di governare realtà complesse.
Forse l’unico limite del libro è il rischio di sovrastimare i successi e le caratteristiche democratiche dello stato leninista cinese. Ad esempio, è vero che in Cina c’è confronto pubblico (Pechino non è una satrapia mediorientale), ma ne conosciamo i limiti, dati dall’assenza di libertà di espressione e dalla necessità (per l’ultimo impero) di controllare le minoranze mai completamente incorporate nel processo di costruzione dello Stato. Certo, è vero che nelle campagne esistono forme di democrazia partecipata, con forme elettive di selezione della classe dirigente, ma molti studiosi ne hanno evidenziato l’incompiutezza. Internet plus cerca di porre rimedio al caos della rete, ma non dà risposte al cruciale dilemma del XXI secolo relativo al rapporto tra l’uomo e le macchine: dobbiamo rassegnarci a un mondo in cui una (più o meno ristretta) élite domini le macchine che esercitano il controllo sul resto dell’umanità?
Ma si tratta di peccati veniali, perché in fondo la Cina è un’ottima scusa (o lo specchio perfetto) per l’autore per giungere, nella parte finale del testo, a elaborare dieci idee concrete (a cominciare dalla cittadinanza europea e dal ripensamento delle circoscrizioni elettorali) per scuotere dal torpore un’Europa che ha perso il gusto della conoscenza – bellissima la citazione del poeta americano Thomas Stearns Eliot che nel 1934 scrive: “Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione? E dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza?” (p. 45). Conoscenza come “imperativo morale” (p. 130), perché “è la conoscenza […] ciò che conta di più”, “più delle ricette che riempiono i programmi di partiti senza idee” (p. 150). Forse una lezione cinese che tutte le racchiude è l’idea che, nel XXI secolo, l’unica rivoluzione che ci resta da combattere è la rivoluzione della conoscenza: in teoria, l’Europa avrebbe un vantaggio competitivo, perché la sua tradizione umanistica le consentirebbe – se non avesse dimenticato lo slancio per l’esplorazione mostrato durante l’era delle scoperte geografiche – di avere uno sguardo a 360 gradi sul mondo, ben più ampio di quello che possono permettersi le tecnocrazie oggi all’apparenza vincenti. “Sarà questa, del resto, la scoperta inevitabile (o il ritorno al passato) che aspetta l’Occidente se vuole sopravvivere a un processo di selezione delle élite che è praticamente scomparso” (p. 132).
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