Il 10 agosto 2020, nel corso di una manifestazione antigovernativa organizzata presso l’Università Thammasat di Bangkok – l’istituto d’istruzione superiore più radicale del Paese, fondato nel 1934 dal rivoluzionario socialista Pridi Banomyong – la portavoce dell’Unione degli studenti di Thailandia, la ventenne Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul, rompe un silenzio durato più di sessant’anni presentando un manifesto radicale di riforma della monarchia, pilastro storico dell’identità nazionale accanto al Buddismo. È una mossa audace, suscettibile di sanzione penale, che dissacra il fondamento simbolico della gerarchia sociale thailandese.
La verbalizzazione dell’impronunciabile scuote l’indolenzito corpo sociale della nazione, intorpidito dalla sorveglianza virologica e dal controllo asfissiante del “governo pretoriano” di Prayut Chan-o-cha, ex comandante dell’esercito alla guida del Paese dal colpo di Stato del 2014[1]. Assieme alle dimissioni del governo, e a una revisione democratica della Costituzione, i giovani manifestanti hanno l’ardire di invocare la revoca dell’immunità sovrana e, soprattutto, l’abolizione del reato di lesa maestà, norma draconiana che prevede pene detentive fino a quindici anni di carcere per il crimine di “diffamazione della Corona”. Il tabù delle critiche al Re è stato infranto, e il protocollo reale disatteso con impertinenza, non da rappresentanti parlamentari di opposizione o da eminenti costituzionalisti – unanimemente concordi nell’affermare la sacralità della monarchia – ma da “bambini” (dek), come vengono chiamati gli studenti di ogni ordine e grado in Thailandia (anche quando sono maggiorenni).
La manifestazione del 10 agosto si inserisce nella più ampia cornice di mobilitazione giovanile, disubbidienza civile e fermento digitale che riempie di adolescenti le piazze thailandesi dalla dissoluzione giudiziale del partito progressista Futuro nuovo (phak anakhot mai) nel febbraio 2020, convogliando lo scontento di decine di migliaia di dek verso i “genitori putativi” della nazione: l’esercito e la monarchia. A colpi di hashtag quali #lunga-vita-alla-democrazia (riformulazione pungente del motto “lunga vita al re”) o, #siamo-adulti-e-possiamo-scegliere-da-soli, i “figli della nazione” delegittimano sprezzanti il paradigma politico del paternalismo monarchico, rivendicando il proprio ruolo di cittadini consapevoli, e rammentando al Re e ai militari i fondamenti della democrazia rappresentativa. Per comprendere a fondo la portata simbolica di queste rivendicazioni, occorre fare un primo passo indietro: agli anni Sessanta del secolo scorso.
Il paradigma del padre
Il prominente giurista conservatore Borwornsak Uwanno ha affermato che la monarchia thailandese è “un’istituzione sociale del tutto sovrapponibile alla famiglia […][2]”. I cittadini thailandesi riconoscerebbero nel sovrano il padre della nazione, nonché la personificazione suprema del dharma buddista: qualità semidivine, certamente extracostituzionali, che gli osservatori occidentali, sottolinea Borwornsak, sarebbero scarsamente in grado di comprendere. Non sono parole nuove.
La difesa della moralità nazionale (impersonata dal Re) dalle degenerazioni affaristiche e corruttive della politica è stata più volte sbandierata dai militari nella legittimazione dei dodici colpi di Stato che hanno punteggiato la storia thailandese dal 1932, anno di istituzione della monarchia costituzionale.
A margine del colpo di Stato del 1957, in particolare, il Generale Sarit Thanarat, alfiere anticomunista degli americani negli anni della Guerra fredda, dichiarava che il golpe poggiava “fermamente sul principio che il Re e la nazione sono unici e indivisibili”, e che “colui che governa è il capo di una grande famiglia che deve guardare alla popolazione come farebbe con i propri figli e nipoti[3]”. Con Sarit, dopo anni di invisibilità politica successivi alla caduta della monarchia assoluta, la figura trasfigurata del sovrano buddista torna al centro della vita pubblica nel ruolo di “garante sovrannaturale” della famiglia nazionale.
Se il Re è il padre della nazione, il cittadino modello deve essere conscio della sua posizione filiale. In questo contesto ideologico, dal sapore vagamente sino-confuciano, il sistema scolastico thailandese è tradizionalmente laboratorio nazionalistico di infantilizzazione della cittadinanza. Il ruolo degli studenti nei confronti degli insegnanti deve riflettere i doveri e le responsabilità dei figli nei confronti dei genitori, e – per estensione simbolica – dei cittadini nei confronti dello Stato[4].
In continuità con le giunte militari che lo hanno preceduto, l’attuale Primo ministro thailandese Prayut sembra aver colto alla perfezione le implicazioni politiche di tale costruzione dell’infanzia. Al fine di rinvigorire il patriottismo dei “figli della nazione”, il Generale ha così introdotto un nuovo rituale in tutte le scuole del Paese. Prima dell’inizio delle lezioni, i “bravi bambini” (dek di) devono recitare i “dodici valori chiave della thailandesità”, fra i quali figurano le ingiunzioni a riverire e onorare i genitori, la monarchia, il Buddismo e la nazione, di cui l’esercito si proclama garante supremo[5].
I manifestanti che affollano le piazze thailandesi appartengono, d’altra parte, a una nuova generazione di netizen progressisti, post-millenials cresciuti a riso e Facebook, poco propensi ad assecondare il conservatorismo monarchico di genitori all’antica, o le prescrizioni paternaliste di istituzioni non elette. Un agguerrito gruppo di liceali ha persino scelto di chiamarsi “Studenti cattivi” (nakrien leo) per rivendicare con sarcasmo il proprio dissenso contro ogni forma di gerarchia e disuguaglianza generazionale, e per denunciare gli abusi di insegnanti e amministratori scolastici. Cosa più importante, gli studenti non si sono limitati a invocare genericamente il ripristino della democrazia e la modifica degli assetti costituzionali. Hanno articolato una serie di proposte circostanziate: libertà di opinione, abbandono delle divise scolastiche, demilitarizzazione della società, riconoscimento dei diritti LGBTQ+, e – soprattutto – l’introduzione di forti limitazioni ai poteri del Re. Attraverso quest’ultima, dissacrante proposta, i cosiddetti dek dimostrano di riconoscere con precisione il nesso simbolico tra culto patriarcale della monarchica e autoritarismo militare, assieme alle ramificazioni capillari della gerontocrazia thailandese in diversi settori della vita dei giovani.
La loro protesta si avvale, fatto inedito, di flash mob irriverenti e strumenti digitali, e attinge a piene mani dalla cultura pop globalizzata: eroine hollywoodiane, manga giapponesi, serie TV “arcobaleno”, star del K-pop, meme popolari, branditi come simboli virtuali di mobilitazione generazionale capaci di travalicare i confini nazionali, catturando l’attenzione di media e spettatori internazionali. Una strategia efficace – orizzontale, decentralizzata e largamente apartitica – che ha colto impreparati, quanto meno inizialmente, i “vecchi” membri del Palazzo monarchico-militare, non a caso ribattezzati “dinosauri” dai giovani manifestanti.
Lord Voldemort, Hamtaro e il gesto delle “tre dita”
Il 3 agosto 2020, centinaia di ragazzi si sono radunati nel centro di Bangkok per lanciare un “incantesimo democratico”. Travestiti da Harry Potter, il maghetto della celebre epopea fantasy, hanno agitato sornioni le proprie bacchette magiche verso il Monumento alla Democrazia – già sit-in di proteste durante la stagione dello scisma fra le “camicie rosse” e le “camicie gialle” susseguente alla deposizione dell’ex Premier Thaksin Shinawatra nel 2006.
“La Thailandia è oppressa dal potere oscuro dei mangiamorte”, spiegano in una nota[6]. Reggono ritratti di Lord Voldemort, il malvagio avversario del giovane Potter, descritto dalla scrittrice britannica J.K. Rowling come “colui che non deve essere nominato”. Il riferimento è all’incriticabile Re di Thailandia, Maha Vajiralongkorn (Rama X), succeduto nel 2016 all’amato padre, Bhumibol Adulyadej (Rama IX), ma mai davvero entrato nel cuore dei sudditi.
Assunte le fattezze di “maghi e maghe della democrazia”, i giovani manifestanti hanno quindi alzato tre dita al cielo, un gesto popolarizzato dopo il colpo di Stato del 2014 e divenuto icona di resistenza silente alle diverse latitudini del brutale autoritarismo asiatico: da Bangkok a Yangon, da Hong Kong a Manila[7]. Ispirato a un’altra saga cinematografica, The Hunger Games, il “saluto delle tre dita” esprime ribellione antigolpista e veicola, a detta dei giovani manifestanti, i principi della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Il motto settecentesco della Rivoluzione francese viene qui accostato con disinvoltura all’immaginario post-apocalittico di Hollywood; la spettacolarizzazione digitale della resistenza democratica intercetta gli appetiti sensazionalistici dei media internazionali. Questi dek non sono affatto degli sprovveduti.
Non è soltanto il cinema occidentale a ispirare la creatività goliardica dei giovani dissidenti. Un flashmob contro il governo Prayut si è, ad esempio, incentrato sulla figura di Hamtaro, il criceto protagonista dell’omonimo manga giapponese. “Siamo come criceti in gabbia. Corriamo, Hamtaro!”, gridano migliaia di liceali convocati in piazza da uno stormo di tweet[8].
Alcuni osservatori occidentali, pur valorizzando il carattere temerario, creativo, e non-violento di tali iniziative, hanno sollevato seri dubbi sulla loro efficacia politica. Secondo questa prospettiva, le aspirazioni democratiche dei giovani del Sud-Est asiatico sarebbero venate da un idealismo virtuale, ingenuo e romantico, popolato da dive di Hollywood, star coreane dal look androgino, e supereroi da cartone animato. Troppo poco per impensierire i militari in assenza di rappresentanza parlamentare e leadership politica.
Questo ritratto etnocentrico, e velatamente paternalista, dei “ragazzini” thailandesi spesso non coglie il significato profondo del loro messaggio. I manifestanti non fanno un uso indiscriminato della cosiddetta cultura pop, piuttosto, ne manipolano con sagacia i simboli per esprimere verità proibite, non verbalizzabili in contesti pubblici. Il loro progetto politico è tutt’altro che disancorato dalla realtà storica. I social network sono solo un mezzo. Il fine è abbattere il muro di silenzio sulle origini della nazione, farsi digitalmente largo fra le pieghe della censura, dare voce a un passato rimosso che – ironia della sorte – i giovani dissidenti non hanno vissuto, ma che incombe inesorabile sul loro futuro.
Rompere il silenzio, dare voce al passato
Fra i gruppi più influenti del variegato movimento democratico thailandese figura il Partito del Popolo (khana ratsadon). Ne è componente autorevole Rung, menzionata in precedenza. Il nome khana ratsadon non è né casuale né neutrale. È un riferimento preciso, emblema della storia costituzionale thailandese. Si chiamarono infatti khana ratsadon i rivoluzionari – fra i quali il fondatore dell’Università Thammasat, Pridi Banomyong – che nel 1932 deposero Re Prajadhipok (Rama VII), segnando il tramonto della monarchia assoluta e l’avvento della fragile democrazia thailandese. Nei decenni successivi, la propaganda monarchico-buddista dello Stato ha tentato di rimuovere le gesta di questi pionieri dalla memoria nazionale, anche materialmente: nel 2017 una targa commemorativa a loro intitolata nel centro di Bangkok è misteriosamente scomparsa. Rung e i suoi colleghi hanno reagito con prontezza, installando una nuova targa di fronte al Palazzo reale. Su quest’ultima, immediatamente rimossa dai militari, compariva l’incisione: “Questo Paese appartiene al popolo, non al Re”.
La “Rivoluzione siamese” del 1932 non è l’unico fatto storico sul quale il regime ha imposto il silenzio di Stato. Il 6 ottobre 1976, militari, poliziotti e squadracce fedeli alla Corona assaltarono l’Università Thammasat con ferocia inaudita, sparando sui giovani studenti disarmati. La loro unica colpa: invocare il ripristino della democrazia. Secondo lo storico thailandese Thongchai Winichakul, testimone diretto dell’esecuzione, il ruolo ambiguo giocato della monarchia durante il massacro si cela sotto la coltre di un silenzio traumatico che persiste incontrastato malgrado il coraggio degli attivisti[9].
Questo silenzio è stato spezzato ancora una volta dai bambini thailandesi nel 2018, a colpi di rap. In un video musicale, diventato subito virale, il collettivo “Rap contro la dittatura” dà voce alla frustrazione dei dek alternando una serie di rime sferzanti, colonna sonora della protesta contro il governo[10]. Sullo sfondo del video un gruppo di attori, molti dei quali appena adolescenti, mette in scena il massacro del 1976: il corpo esanime di uno studente impiccato viene percosso da una folla inferocita – è la scena immortalatala in una foto sinistramente iconica dal premio Pulitzer Neal Ulevich, la stessa scena proiettata dai manifestanti all’Università Thammasat il 10 agosto dell’anno scorso, prima che Rung prendesse la parola.
“La storia intellettuale dell’umanità – ha scritto Jurij M. Lotman nel 1975 – si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi[11]”. Nel momento in cui scrivo questo articolo (marzo 2021, N.d.R.), Rung e altri giovani attivisti sono stati arrestati per lesa maestà. Detenuti in custodia cautelare, hanno iniziato uno sciopero della fame. La pandemia è diventata un’alleata preziosa del governo nella repressione del dissenso. Ma il silenzio è stato rotto, il tabù delle critiche al Re è stato infranto. Nel Sud-Est asiatico, la cultura pop dei “bambini digitali” può riscrivere il passato e, forse, disegnare un nuovo futuro.
[1] Nel maggio del 2014, il Consiglio nazionale per la Pace e l’Ordine (the National Council for Peace and Order, NCPO), un organismo militare guidato dal Generale Prayut, ha assunto la guida del Paese destituendo il Primo ministro eletto Yingluck Shinawatra, sorella dell’ex Premier Thaksin Shinawatra, a sua volta rimosso nel 2006 con un colpo di Stato militare. Sul ruolo politico dei militari nel Sud-Est asiatico si veda, ad esempio, Montesano, M.J., Chong, T. e Kongkirati, P. (a cura di) (2020), Praetorians, Profiteers or Professionals? Studies on the Militaries of Myanmar and Thailand. Singapore: ISEAS – Yusof Ishak Institute.
[2] Cit. in Ivarsson, S. e Isager, L. (a cura di) (2010), Saying the Unsayable: Monarchy and Democracy in Thailand. Copenhagen: NIAS Press, p. 12. Si veda anche Borwornsak, U. (2006), Ten Principles of a Righteous King and the King of Thailand, Bangkok: Chulalongkorn University.
[3] Baker, C. e Pasuk, P. (2005, II ed.), A History of Thailand, Cambridge: Cambridge University Press, pp. 176-177.
[4] Bolotta, G. (2021), Belittled Citizens: The Cultural Politics of Childhood on Bangkok’s Margins, Copenhagen: NIAS Press, pp. 36-39.
[5] Ibid., p. 47.
[6] Beech, H. (2020), “In Thailand, Students Take on the Military (and ‘Death Eaters’)”, The New York Times, 11 agosto, disponibile online al link https://www.nytimes.com/2020/08/11/world/asia/thailand-student-protest-military.html.
[7] Farrelly, N. (2021), “Asia’s Youth in Revolt: In Thailand, Myanmar, and Hong Kong, Asia’s Brave Youth Go Toe-to-Toe with History”, The Diplomat, 1° aprile, disponibile online al link https://thediplomat.com/2021/03/asias-youth-in-revolt/.
[8] Sinpeng, A. (2020), “Twitter Analysis of the Thai Free Youth Protests”, Thai Data Points, 29 agosto, disponibile online al link https://www.thaidatapoints.com/post/twitter-analysis-of-the-thai-free-youth-protests.
[9] Cfr. Thongchai, W. (2020), Moments of Silence: The Unforgetting of the October 6, 1976, Massacre in Bangkok, Honolulu: Hawai’i University Press.
[10] Rap Against Dictatorship [YouTube video], disponibile online al link https://www.youtube.com/watch?v=VZvzvLiGUtw.
[11] Cit. in Prosperi, A. (2021), Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Torino: Einaudi; si veda anche Lotman, J.M. e Uspenskij, B.A. (1975), Tipologia della cultura, trad. it., Milano: Bompiani.
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