Per decenni l’élite birmana ha identificato la minoranza musulmana Rohingya come fonte di una minaccia esistenziale alla propria sicurezza e una politica decennale di trattamento dei Rohingya come estranei – o “altri” – ha nutrito la percezione di questi ultimi come “nemici-altri”. Per questa ragione il conflitto appare senza fine, a prescindere dal regime politico e dalla leadership.
La popolazione Rohingya ha, infatti, alle spalle una lunga storia di emarginazione politica e sociale concretizzatasi in svariate politiche discriminatorie. Nell’ottobre del 1982 l’ex dittatore Ne Win tenne un discorso per presentare la nuova legge sulla cittadinanza e dichiarò che kalar (espressione che indica persone dai tratti somatici simili agli indiani) e cinesi non erano affidabili e quindi, per motivi di sicurezza nazionale, non meritavano lo status e i diritti derivanti dalla piena cittadinanza. L’attuazione di una tale politica di de-nazionalizzazione evidenziò, tuttavia, come l’obiettivo del discorso securitario di Ne Win non fossero tutte le persone di origini indiane (indù, nepalesi, sikh etc.), bensì i Rohingya e i musulmani. Negli anni Novanta, sotto il governo militare, le politiche discriminatorie divennero più sistematiche e i Rohingya vennero dipinti dall’élite del Paese come una minaccia alla sicurezza nazionale, sociale ed economica e definiti “musulmani bengalesi illegali” che miravano a separare lo Stato Rakhine dal Myanmar per istituire uno Stato Islamico. Inoltre, l’élite nazionalista e gli intellettuali hanno spesso reiterato l’accusa di puntare ad accrescere la quota musulmana della popolazione tramite un’azione deliberata di matrimoni misti con donne non musulmane, ponendo così una minaccia all’identità buddista della società Rakhine e del Myanmar. In risposta il governo adottò una serie di misure draconiane tra cui il controllo delle nascite, la restrizione agli spostamenti e la negazione dell’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione superiore. Queste politiche vennero giustificate sulla scorta dell’argomento della minaccia alla sicurezza nazionale e contribuirono a rinforzare la percezione dei Rohingya come “nemico-altro” all’interno della popolazione del Myanmar. Dalle violenze settarie del 2012 questo trend si è intensificato: l’élite definisce pubblicamente la comunità Rohingya come una minaccia con sempre maggior frequenza e senza alcuna opposizione, facendo in modo che tale percezione sia ormai profondamente radicata nell’immaginario collettivo, dal dibattito pubblico alle scuole, dalle testate governative al web. Giornalisti appartenenti ai principali quotidiani, accademici, leader delle comunità, e (cosa ancora più importante) cittadini ordinari, hanno fatto propria la teoria della “minaccia alla sicurezza” addirittura “de-umanizzando” la popolazione Rohingya.
Col tempo si è così istituzionalizzato l’inquadramento della questione dei Rohingya nella sfera della sicurezza e l’élite e la società birmane si sono mobilitate al fine di eliminare quella che viene percepita come una minaccia. In un contesto in cui le minacce esistenziali sono già state interiorizzate, gli attori “securitizzanti”, al fine sia di perpetuare le misure straordinarie, sia di dimostrare la propria capacità nella gestione di minacce specifiche, si allineano alla predisposizione psico-culturale della maggioranza di fronte alla minaccia percepita alla sicurezza. Di conseguenza il dibattito è dominato dalla fonte di tale minaccia esistenziale alla sicurezza (i Rohingya) e dai suoi obiettivi (buddismo, identità etnica, integrità territoriale, economia etc.), e non tollera punti di vista alternativi e contro-argomentazioni ragionevoli provenienti dall’élite o dalla società.
Il passaggio di consegne tra l’ex generale Thein Sein e la leader democratica Aung San Suu Kyi non ha avuto ripercussioni sui Rohingya e non si è verificato un cambiamento di paradigma. Nonostante la retorica fondata sui diritti umani e la riconciliazione, dal momento che Aung San Suu Kyi e la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) condividono le preoccupazioni dei loro predecessori, la questione dei Rohingya resta profondamente dominata dalla dimensione della sicurezza. Inoltre, una riconcettualizzazione di tale prospettiva è particolarmente complicata per tre ragioni principali. Innanzitutto, la percezione del “nemico-altro” è essenziale a perpetuare la “sicurezza ontologica”, ovvero la sicurezza del sé. Poiché la concettualizzazione dei Rohingya è stata inserita come minaccia all’interno della narrazione politica del Paese, fino a che la maggioranza buddista manterrà la percezione negativa della minoranza Rohingya come “altro” sarà impossibile modificare tale concezione. In secondo luogo, l’istituzionalizzazione di tale concezione ha significato la sua diffusione in molti settori, rendendo difficile separare la fonte della minaccia dalle identità etniche o religiose, dal territorio, dalla società o dall’economia. Ciò crea una situazione di “tutto o niente” in cui opporsi alle pressioni sociali diventa troppo costoso o rischioso. Infine, la percezione della comunità Rohingya come minaccia alla sicurezza si autoalimenta: coloro che perpetuano l’idea rimangono incontrastati e godono del supporto di tutti gli strati della società, rendendo difficile contestarli o intaccare la loro influenza politica.
Prendere di mira la comunità Rohingya come una minaccia alla sicurezza è diventata quindi l’opzione “corretta” e “razionale” per la maggior parte dei leader politici birmani, e per la società più in generale, rendendo lunga e complessa la strada verso il cambiamento.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini
*Questo articolo è una versione aggiornata di un’analisi precedentemente pubblicata sul portale East Asia Forum.
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