Nel 1975 Deng Xiaoping commissionò uno studio di revisione critica delle politiche scientifiche cinesi. Il rapporto doveva porre le basi per la riforma delle istituzioni di ricerca nazionali, in primis la prestigiosa Accademia cinese delle scienze (Zhoungguo kexueyuan, 中国科学院). Si racconta che nell’affidare il lavoro a uno dei uno dei suoi più stretti sodali, il futuro segretario generale del partito Hu Yaobang, Deng chiosasse: “L’Accademia delle scienze non dovrebbe essere l’Accademia dei cavoli”. Il commento, a prima vista bizzarro, esprimeva una chiara critica nei confronti delle politiche della Rivoluzione culturale allora al tramonto, durante la quale gli scienziati venivano impiegati per lunghi periodi nei campi, anziché nei laboratori o nelle aule universitarie.
Oggi la situazione è radicalmente cambiata: le trasformazioni che hanno interessato il paese in ambito industriale, economico, sociale e politico hanno inciso profondamente sul settore della scienza e tecnologia. In termini quantitativi la produzione scientifica cinese compete con quella dei paesi più avanzati: la Cina è il terzo maggiore produttore di articoli scientifici, dietro a Unione europea (Ue) e Stati Uniti (Usa). Nel 2011 per l’ingegneria era il secondo paese, dietro alla sola Ue. Fra il 2001 e il 2011, il tasso medio di crescita nella produzione scientifica è stato del 15%. La Cina produce attualmente il 20% degli articoli scientifici pubblicati nel mondo, contro il 13% di dieci anni fa. L’impatto delle pubblicazioni cinesi va migliorando, con un progressivo, sensibile aumento delle citazioni e delle ricerche pubblicate su riviste di fascia elevata. Fra gli indicatori della crescente importanza della Cina quale attore nel campo della scienza e della tecnologia è sovente citato il numero dei laureati sfornati dalle università cinesi. Sono oltre sei milioni i laureati ogni anno in Cina, di cui il 40% in discipline scientifiche e tecnologiche. Recenti proiezioni stimano che i laureati cinesi nella fascia d’età tra i 25-34 anni costituiranno nel 2030 il 27% del totale dei paesi Ocse e G20. Un dato che sale al 37% qualora si considerino i soli ambiti scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico. Nel 2010 la Cina ha raggiunto gli Usa per numero di dottorati conferiti, circa 30.000, in buona parte nelle scienze naturali e in ingegneria. Numeri che impressionano se paragonati a quelli di 25 anni fa: nel 1990 i titoli di dottorato attribuiti in Cina erano il 5-7% di quelli Usa.
I giovani ricercatori cinesi beneficeranno con ogni probabilità di investimenti crescenti nel settore ricerca e sviluppo. Da metà anni Novanta gli investimenti sono cresciuti in maniera costante: Pechino destina oggi il 2% del proprio prodotto interno lordo (pil) alla ricerca, contro lo 0,5% del 1996. Pur se inferiore a quelli di Stati Uniti e Giappone, tale valore ha già eguagliato quello dell’Ue, cresciuto più lentamente negli ultimi due decenni. E i finanziamenti sono destinati a crescere ulteriormente: il XIII Piano quinquennale ha posto come obiettivo il raggiungimento del 2,5% del pil entro il 2020. In termini assoluti la Cina occupa il secondo posto per i finanziamenti totali per la ricerca e lo sviluppo, dietro agli Usa (tra i 300 e i 350 miliardi di euro all’anno). Per riprendere la battuta di Deng Xiaoping, appare ragionevole ritenere che gli scienziati cinesi abbiano ben altro da fare oggi, che curarsi della coltivazione dei cavoli.
L’ascesa cinese nell’ambito della scienza e della tecnologia suscita spesso sorpresa, anche tra osservatori ben informati. Una reazione a ben vedere ingiustificata: come in altri ambiti (economia, industria, geopolitica), la Cina sta riacquistando il ruolo di primo piano che ha lungamente ricoperto nel corso della storia. La tradizione storiografica attribuisce alla Cina le cosiddette “quattro grandi invenzioni” (si da faming, 四大发明), ovvero carta, stampa, polvere da sparo e bussola. Se è possibile che quelli cinesi non ne fossero in assoluto i primi esempi (con l’eccezione della polvere da sparo), è assodato come tali rivoluzionarie invenzioni si siano sviluppate in Cina quantomeno in un’epoca coeva alla loro introduzione nel mondo europeo e arabo. L’epopea dei missionari gesuiti (XVII secolo), d’altro canto, dimostra come in epoca moderna la Cina sia diventata un luogo privilegiato di scambi intellettuali e scientifici. Lo stesso periodo generalmente identificato con la decadenza cinese (dalla prima Guerra dell’oppio nel 1839 alla fondazione della Repubblica popolare nel 1949) fu segnato da numerosi tentativi di sostenere l’innovazione scientifica e tecnologica. A prescindere dalla natura del regime politico (tardo-imperiale, repubblicano, nazionalista), in questo periodo le élite attribuirono grande valenza alla scienza e alla tecnologia quali strumenti per rafforzare l’autorità statale e perseguire obiettivi strategici. Il periodo comunista non si discosta da questa tendenza, con l’eccezione della già citata perturbazione rappresentata dalla Rivoluzione culturale (1966-1976). Ne è dimostrazione il successo del programma nucleare, che pure a fronte di un crescente isolamento internazionale e della scarsità di risorse, raggiunse obiettivi di grande rilievo con la prima bomba atomica cinese testata già nel 1964. D’altro canto, è evidente come l’avvio delle riforme sul finire degli anni Settanta abbia segnato una forte cesura, innanzitutto dal punto di vista politicoideologico. L’avvio ufficiale del programma delle “quattro modernizzazioni”, in particolare, contribuì a far sì che la scienza e la tecnologia divenissero parte integrante del discorso politico del Partito comunista cinese (Pcc), puntellando una struttura ideologica indebolita dalla Rivoluzione culturale.
In tempi più vicini a noi la valenza politica e ideologica del discorso scientifico è andata, se possibile, rafforzandosi. Significativa in tal senso è l’espressione “visione scientifica dello sviluppo” (kexue fazhan guan, 科学发展观) coniata da Hu Jintao e Wen Jiabao per sottolineare la necessità di bilanciare crescita economica, sviluppo sociale e protezione ambientale. Parimenti, le trasformazioni post-riforme hanno comportato un cambiamento radicale nell’impiego della scienza e della tecnologia, coerente con l’apertura ai meccanismi di mercato e al mondo esterno. Se in precedenza il maggiore campo di applicazione per la ricerca avanzata era quello della difesa, dopo il 1979 questo si è allargato includendo l’intero spettro dei settori fondamentali a sostegno dello sviluppo economico del paese. Non è un caso dunque che a tutt’oggi le materie ingegneristiche siano quelle in cui più si distingue la ricerca cinese: la sete di energia, infrastrutture, attrezzature industriali hanno inciso a lungo sulla logica dell’allocazione delle risorse umane e finanziarie nei decenni appena trascorsi. Pur rimanendo questo il tratto dominante della ricerca cinese, negli ultimi anni sono comparsi elementi di novità di estremo rilievo.
La discontinuità maggiore è individuabile nell’accento posto sulla ricerca quale motore principale dello sviluppo economico. Coerentemente con tale approccio, maggiore rilievo viene attribuito alla ricerca di base. Un fattore presente anche fra gli obiettivi del XIII Piano quinquennale, approvato di recente (2016-2020).
In parallelo, la priorità delle politiche attuate da Pechino sembra essere decisamente orientata verso la qualità della ricerca anziché verso la quantità, come è invece avvenuto sino ad anni recenti. In un numero dedicato l’estate scorsa alle prospettive di sviluppo della scienza e della tecnologia in Cina, la rivista Nature individuava fra i settori emergenti le neuroscienze, la biologia, l’ingegneria dei raccolti, la fisica delle particelle, la genetica, la fisica quantistica, le scienze ambientali e, non da ultime, le esplorazioni nello spazio (assieme a quelle polari e dei fondali oceanici). Come illustrato negli articoli a firma di Roberto Coisson e Epaminondas Christofilopoulos, le trasformazioni in atto sono legate a doppio filo con le sfide socio-economiche e le trasformazioni recenti affrontate dal paese. I progressi registrati nell’ambito delle scienze ambientali e dell’ingegneria dei raccolti sono in particolare la cartina di tornasole della pressante crisi ambientale nel paese. L’enfasi sull’innovazione va, d’altro canto, inquadrata nel contesto del rallentamento dell’economia cinese e della progressiva ristrutturazione del suo tessuto industriale verso lavorazioni ad alta tecnologia e ad alto valore aggiunto. In generale, l’emergere di questi settori è indice di una notevole vitalità della ricerca cinese, nonché della sua rilevanza in ambiti della conoscenza destinati a incidere sulla vita dell’intera umanità. Vere e proprie frontiere, sia dal punto di vista tecnico-scientifico che etico.
Basta tutto questo a fare della Cina una superpotenza scientifica? Quasi. Ciò che sembra mancare in Cina è una debita consapevolezza della necessità di inquadrare il progresso scientifico-tecnologico in un più ampio discorso di inclusività sociale, culturale e, in termini più tecnici, disciplinare. Non sarà sfuggito al lettore come non si sia fatto riferimento, nel corso di questo articolo, alle scienze umane e sociali. È pur vero che l’approccio essenzialmente tecnologico alle sfide dell’umanità accomuna i paesi occidentali e la Cina: delegare le soluzioni alla tecnologia è, in fondo, più semplice, oltre che più lucrativo. Detto questo, non si può fare a meno di notare come in Cina sia dato poco rilievo alla necessità di colmare il divario fra scienza, società e comunità. Se in Europa e negli Stati Uniti le pratiche di produzione della conoscenza informate da processi bottom-up (citizen science, partecipazione dei portatori d’interesse e, più in generale, del pubblico) sono da anni oggetto di attenzione da parte di società e istituzioni, in Cina la loro adozione è limitata (essenzialmente alla sfera del monitoraggio ambientale). Meglio, l’atteggiamento della comunità scientifica e dei decisori politici verso tali pratiche rimane in Cina ambivalente.
È infatti ancora radicato in Cina il cosiddetto culto degli esperti (zhuangjia chongbai, 专家崇拜), che tende a stabilire una rigida gerarchia fra i detentori di conoscenze specialistiche (gli “esperti”) e quanti ne sono privi (i “non esperti”). Inoltre, la cultura politica dominante tende a sminuire il ruolo che può svolgere una partecipazione attiva ai processi di produzione della conoscenza, preferendo un approccio tecnocratico. Non v’è dubbio che processi essenzialmente dominati dall’alto in un contesto autoritario o semi-autoritario possano produrre buoni risultati, specie in alcune discipline scientifiche e nelle relative applicazioni: la storia del Novecento è ricca di tali esempi, non di rado perniciosi. Tuttavia, la Cina (come sovente le accade) sembra rappresentare l’apice di tale contraddizione. In una recente dichiarazione, lo stesso presidente Xi Jinping ha riconosciuto, fra le righe, che tra i maggiori problemi della ricerca scientifica in Cina figurerebbero la scarsa autonomia e indipendenza dei ricercatori10. In queste parole riecheggia un dibattito da molti dimenticato, lanciato negli anni Ottanta da Fang Lizhi. Tra i più brillanti fisici della sua generazione, Fang sosteneva una tesi semplice: non vi può essere una conoscenza profonda del mondo che ci circonda senza libertà. O meglio, la libertà di pensiero, unita a un forte senso di responsabilità sociale, è una delle qualità fondamentali di un/a buon/a scienziato/a, poiché questi deve essere quanto più possibile libero/a da condizionamenti esterni, specie di natura politica11. Non è dato sapere in che misura Xi Jinping abbia fatto riferimento in maniera consapevole a Fang (è lecito dubitarne: il fisico fu coinvolto nel movimento pro-democrazia degli anni Ottanta culminato con le proteste di Piazza Tian’anmen). È certo tuttavia che, oltre che dalla lotta a suon di impact factor, finanziamenti e scoperte rivoluzionarie, il futuro della ricerca scientifica cinese sarà definito anche dal modo in cui la leadership e la comunità scientifica affronteranno questa contraddizione.
“Quando è iniziata la dissennata opera di manipolazione della natura da parte dell’uomo? Dal canale di Stalin nell’Unione Sovietica degli anni ’30 del secolo... Read More
Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved