Dopo l’evacuazione di circa 36.000 cittadini cinesi dalla Libia nel 2011, le autorità di Pechino sono consapevoli dei crescenti rischi per gli investimenti e il personale cinese in Africa settentrionale e in Medioriente. Nel febbraio 2012 25 lavoratori cinesi sono stati rapiti in Egitto e altri 29 in Sud Sudan. Più recentemente, fra il 16 e il 17 maggio 2014, un gruppo di lavoratori cinesi è stato coinvolto in uno scontro a fuoco fra soldati camerunensi e uomini di Boko Haram nei pressi di un cantiere al confine fra Nigeria e Camerun. Uno dei lavoratori è stato ferito e di altri dieci si sono perse le tracce. Pochi giorni dopo, il 21 maggio, tre ingegneri cinesi sono stati rapiti a Bengasi, in Cirenaica.
Due sono stati rilasciati, uno ucciso dai rapitori. Nondimeno, vari indicatori mostrano un immutato interesse da parte cinese per la regione che il Ministero degli Esteri di Pechino denomina 西亚北非 (Xiya Beifei), Asia occidentale e Africa settentrionale, cogliendo istituzionalmente l’intima connessione tra i due quadranti. Secondo i dati per il 2012 riportati negli annuari statistici cinesi (da cui provengono anche i dati menzionati in seguito), circa 40.000 cittadini cinesi sono presenti in Algeria, 12.000 in Sudan e più di 15.000 in Iraq, mentre nella penisola arabica se ne contano oltre 50.000. Per quanto riguarda gli investimenti, il China Global Investment Tracker 2014 della Heritage Foundation mostra come ingenti capitali cinesi siano affluiti negli ultimi anni in Iraq, Sudan, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Anche le relazioni commerciali sono in continuo aumento: nel 2012 gli scambi commerciali tra la regione Xiya Beifei e la Cina hanno raggiunto i 250 miliardi di dollari USA, superando quelli Cina-Africa. Considerato che il commercio Europa-Cina transita quasi interamente dal Golfo di Aden e dal canale di Suez, circa il 21% del commercio estero cinese è interessato dalle dinamiche geopolitiche e di sicurezza di alcune delle aree più instabili al mondo.
Pechino ha sinora mantenuto un basso profilo, astenendosi da intraprendere operazioni politicamente impegnative per proteggere le imprese e ai lavoratori cinesi attivi in queste zone. Sul terreno, ingegneri, medici e, in numero limitato, militari dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) operano soltanto sotto l’egida delle Nazioni Unite. La marina militare cinese partecipa dal dicembre 2008 alle missioni antipirateria nel Golfo di Aden; tuttavia, le navi dell’Epl possono operare per un massimo di sei mesi prima di dover rientrare in Cina. Questo impone all’Epl di organizzare fra le due e le tre spedizioni all’anno. Per quanto i governi di Djibouti e Seychelles abbiano segnalato la loro disponibilità ad ospitare basi militari cinesi, Pechino mantiene un atteggiamento attendista.
Le grandi imprese cinesi sono invece più dinamiche e, per colmare il divario fra crescente presenza di interessi economici cinesi e scarso presidio di sicurezza, hanno iniziato ad ingaggiare operatori privati cinesi. La loro presenza è stata registrata in Algeria, Egitto, Djibouti, Afghanistan (sito in cinese), Sudan, a bordo delle navi cinesi nel Golfo di Aden e in Iraq. Secondo Qi Luyan, ex ufficiale dell’Epl e fondatore della Huawei International Security Management, le crescenti minacce contro i cittadini e le società cinesi all’estero porteranno a un rapido sviluppo del settore della sicurezza privata in Cina. Chen Yongqing, amministratore delegato di Genghis Security Services, ha aggiunto che la riluttanza del governo cinese a inviare soldati all’estero costringerà sempre più imprese ad affidarsi alla protezione offerta da società del ramo. Queste aziende forniscono anche servizi di consulenza e addestramento di personale per la sicurezza all’estero.
C’è un ovvio legame fra questi operatori privati e lo Stato cinese: solitamente i contractor cinesi hanno un passato nelle forze armate e ricevono un ulteriore addestramento da ex istruttori militari, anche stranieri, in caserme di proprietà dell’Epl. Il vice presidente della Commissione per gli Affari esteri della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, Han Fangming, ha dichiarato che è necessario permettere alle società cinesi attive nel settore della sicurezza di espandersi anche all’estero seguendo il modello dell’americana Blackwater, operatore assurto a notorietà globale durante la fase postbellica nell’ultima guerra in Iraq, e oggi attivo sotto altro nome dopo gli scandali relativi all’uccisione di civili iracheni nel 2007. È però un fenomeno ancora agli inizi. In una recente intervista (sito in cinese) per il Global Times, Zhang Donghui, contractor attualmente in Iraq, ha raccontato come ai cinesi, a differenza di altri operatori privati della sicurezza stranieri presenti in zona, sia per ora proibito portare armi da fuoco per evitare tensioni con la popolazione locale. Per questo motivo le ditte cinesi solitamente si affidano ad almeno due livelli di protezione. Il primo è formato da guardie locali armate, a volte addestrate dai contractor cinesi. Il secondo, all’interno dei compound, è organizzato dagli stessi contractor. Se necessario, c’è anche un terzo livello di protezione, esterno, garantito dalle forze armate del paese ospite. Il contatto con operatori stranieri e personale locale viene quindi limitato il più possibile.
Come messo in evidenza da Andrew S. Erickson (US Naval War College) e Mathieu Duchâtel (Sipri), infatti, problemi diplomatici potrebbero nascere nel caso in cui uno degli operatori cinesi venisse ucciso o causasse la morte o il ferimento di civili nel contesto in cui opera. Inoltre, se uno di questi contractor venisse scambiato per un soldato dell’Epl, e quindi un soldato straniero a tutti gli effetti, ci sarebbe il rischio di inimicarsi la popolazione e i governi locali. Secondo Erickson e Duchâtel, la mancanza di un chiaro quadro legale e diplomatico in cui i contractor cinesi possano operare non fa che aumentare questi rischi. Va inoltre sottolineata un’apparente ridondanza: soldati privati sulle navi mercantili cinesi incrociano nelle acque al largo della Somalia, dove stazionano anche unità della marina militare cinese. Le compagnie di navigazione cinesi non hanno forse sufficiente fiducia nei confronti della protezione effettivamente offerta dalla marina militare di Pechino, ma potrebbe trattarsi anche di una soluzione ufficiosa scelta d’intesa con le autorità cinesi per aumentare la protezione del naviglio senza sostenere in questa fase maggiori costi economici e diplomatici, ad esempio quelli legati all’installazione di basi navali all’estero. Infine si tratta di capire se questi operatori privati avranno un ruolo – e quale – nello sviluppo delle capacità di intelligence per la protezione degli interessi cinesi all’estero descritte da Chen Xiangyang, vice direttore della ricerca presso l’autorevole think tank Cicir, affiliato al Ministero della Sicurezza dello Stato della Rpc.
“The Chinese leadership has likely assessed that the Americans will keep up the pressure, so holding back is pointless. China is therefore likely prepared... Read More
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