Alla fine di aprile, Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti erano ormai il nuovo focolaio principale della pandemia di Covid-19. Gli Stati Uniti, con 800.000 casi circa, erano già diventati il singolo paese con il maggior numero di persone infette. Come avrebbe reagito l’Occidente a tale massiccio coinvolgimento in una pandemia scoppiata solo pochi mesi prima in una lontana regione della Cina? Fin da quando la rapida progressione dei contagi in Italia, tra febbraio e marzo, aveva inoppugnabilmente confermato la natura globale della pandemia in atto, fu infatti chiaro che essa non poneva soltanto un enorme problema di sanità pubblica, ma introduceva anche ulteriori elementi di tensione nei rapporti tra Cina e paesi occidentali, in particolare tra Cina e Stati Uniti. Il severissimo lockdown imposto dal governo cinese, aspramente criticato dagli stessi cinesi nel corso dei mesi di febbraio e marzo, era tuttavia riuscito ad abbattere assai rapidamente la curva epidemica. I dati relativi a contagi e decessi si sarebbero assestati a fine marzo su cifre presto ampiamente superate dall’esplosione dei contagi in Europa e in USA: 81.554 casi totali, 3.312 decessi[1]. Cinque mesi dopo, i dati ufficiali delineano una situazione ancora sostanzialmente sotto controllo: 89.863, 4.721 decessi[2]. Ma nei principali paesi occidentali, e in particolare quelli dell’anglosfera, le cose sarebbero andate molto diversamente. Regno Unito, Australia e Stati Uniti faticheranno molto di più ad abbattere la curva epidemica, innescando polemiche tuttora non sopite attorno alla questione delle origini della pandemia e alle responsabilità del governo cinese rispetto al suo inefficace contenimento nelle primissime e fondamentali settimane del suo sviluppo. Una volta palesatosi il carattere globale della pandemia, il governo cinese ha cercato di giocare d’anticipo enfatizzando mediaticamente il successo del proprio modello di contenimento e contrasto della pandemia, nonché la propria generosa disponibilità ad assistere i paesi più colpiti in Europa, a cominciare dall’Italia, che è stato il primo paese occidentale in cui il Covid-19 ha cominciato a mietere vittime, con una progressione impressionante nei mesi di febbraio e di marzo.
Due giorni dopo la dichiarazione dello stato di pandemia globale da parte dell’Oms l’11 marzo scorso, una delegazione della Croce rossa cinese, coordinata dal suo vicepresidente Sun Shuopeng, ha risposto all’appello del Ministro degli esteri Di Maio fornendo all’Italia i primi aiuti internazionali, con l’arrivo a Fiumicino di 31 tonnellate di materiale sanitario (compresi 40 ventilatori) e di una piccola task force di nove medici specializzati. La Croce rossa cinese ha scelto di dare la priorità a medici specializzati afferenti alla sezione della Provincia del Sichuan, che per l’Italia prova particolare gratitudine, in ragione degli aiuti ricevuti nel 1988, quando il nostro paese regalò alla Provincia un ambulatorio di primo soccorso con attrezzature all’avanguardia, e nel 2008, in occasione del tragico terremoto di Wenchuan, quando la Croce rossa italiana inviò un’intera squadra di medici e tecnici specializzati[3]. Una settimana più tardi arriverà un’altra delegazione di medici ed esperti cinesi, con un altro carico di aiuti, questa volta provenienti dalla regione del Zhejiang, da cui proviene la stragrande maggioranza dei cinesi d’Italia. Un gesto concreto, a testimonianza di un rapporto fitto di legami di parentela, d’amicizia e d’affari: legami profondi di cui non sempre il nostro paese è consapevole. L’assistenza cinese ha goduto tendenzialmente di una buona stampa in Italia, seppure non siano mancati pareri molto critici[4] e malgrado il generale scetticismo dei media più vicini all’opposizione nei confronti dell’operato del governo Conte. Una vignetta disegnata dalla giovane liceale napoletana Aurora Cantone, in cui un’operatrice sanitaria italiana e un medico cinese sorreggono insieme un’Italia color rosso sangue, ha fatto presto il giro del mondo, rilanciata su Twitter anche alla portavoce del Ministero degli esteri cinese Hua Chunying il 14 marzo.
Tuttavia, questo primo dispiegamento della cosiddetta Covid diplomacy cinese a ridosso della dichiarazione dello stato di pandemia globale da parte dell’Oms, si è fin da subito accompagnato – tanto nei media tradizionali quanto nei principali social media internazionali e cinesi – a un blame game, un gioco al rimpallo di responsabilità, dai toni sempre più aspri, che ha progressivamente visto protagonisti opinionisti e politici di spicco in Cina e in Occidente. Questo scambio di accuse reciproche i cinesi lo chiamano shuaiguo (帅锅, lett. “agitare la padella”), e ad alzare il livello dello scontro, secondo i cinesi, sono state le dichiarazioni di Mike Pompeo nel corso di una conferenza stampa del 5 marzo, in cui parla espressamente della “diffusione del virus di Wuhan”. Il giorno seguente, in un’intervista trasmessa dall’emittente CNBC, Pompeo insisterà nell’uso del termine “virus di Wuhan”, con toni che sottolineano inequivocabilmente le responsabilità di Pechino nella diffusione della pandemia. Queste affermazioni scatenano nella settimana successiva un vero putiferio sui social media cinesi, che rilanciano post difensivi o autoassolutori, arrivando a sostenere che le origini del virus siano da rintracciare in USA o addirittura in Italia[5].
Attingendo a questo fertile humus di complottismo e di informazione faziosa[6], sarà il portavoce del Ministero degli esteri cinese Zhao Lijian a rispondere con un proprio “colpo di padella”, insinuando nel suo ormai famigerato tweet del 12 marzo (il giorno dopo la dichiarazione della pandemia da parte dell’Oms) che il virus potrebbe essersi sviluppato negli Stati Uniti, e che siano stati i soldati USA invitati ai Giochi militari globali tenutesi a Wuhan nel mese di ottobre i veri responsabili del contagio. Il giorno successivo, il Dipartimento di Stato americano ha convocato l’ambasciatore della Rpc Cui Tiankui, cui David Stilwell, il principale funzionario diplomatico americano per l’Est Asia, ha presentato la formale protesta del proprio governo per queste affermazioni. Il tweet di Zhao Lijian innescherà inoltre un’aggressiva risposta da parte del Presidente USA, che a partire dalla conferenza stampa del 17 marzo comincerà a riferirsi insistentemente al nuovo coronavirus denominandolo il “virus cinese”. Il governo cinese risponderà con l’espulsione di tredici giornalisti statunitensi: ostensibilmente una reazione alla decisione del governo americano di attribuire ad alcune agenzie mediatiche di stato cinesi attive negli Stati Uniti lo status di “missioni straniere” (che implica maggiori controlli e limitazioni nei loro confronti), ma è stato subito chiaro che si è trattato piuttosto di un’ulteriore escalation nella surriscaldata disputa mediatico-diplomatica tra i due paesi. Nei mesi di marzo e aprile, la pandemia travolgerà gli Stati Uniti con un vero tsunami di contagi e di decessi, mentre le relazioni diplomatiche sino-americane continueranno a deteriorarsi, tanto che alcuni commentatori sia cinesi che occidentali parlano già di una “nuova Guerra fredda”. Alla Covid diplomacy cinese, risponde dunque una politica estera americana sempre più improntata all’antagonismo con la Cina, di cui il Segretario di stato americano Mike Pompeo si è fatto il principale interprete, ma che poggia su un nutrito drappello di “falchi” anticinesi in seno all’amministrazione Trump e attinge a un diffuso sentimento di diffidenza nei confronti della leadership cinese attuale anche in campo democratico. In quest’ottica si inquadra anche la tendenza che vede lo spirito umanitario della Covid diplomacy cedere sempre più frequentemente il passo all’assertività della cosiddetta Wolf Warrior diplomacy (da zhanlang 战狼, lett. “guerriero lupo”, un’allusione al protagonista degli ultra-patriottici film d’azione Wolf Warrior I e Wolf Warrior II), un atteggiamento pugnace ben riassunto dalle parole rivolte da un Ministro degli esteri cinese Wang Yi a un giornalista della CNN: “Non attacchiamo mai briga per primi, non facciamo i prepotenti con gli altri. Ma abbiamo principi e coraggio. Respingeremo ogni deliberato insulto, difenderemo risolutamente il nostro onore nazionale e la nostra dignità, confuteremo ogni infondata diffamazione con l’evidenza dei fatti”.
Sullo sfondo di quest’antagonismo dai toni sempre più accesi, a fine aprile una delle più interessanti figure di intellettuale pubblico cinese, la storica delle relazioni internazionali americane Zi Zhongyun, già direttrice dell’Istituto di studi americani dell’Accademia cinese delle scienze sociali, ha pubblicato online un breve saggio[7] che è anche un intenso cri de coeur, firmandolo con lo pseudonimo Zhonghua Nüxiansheng (中華女先生, “una professoressa cinese”). Intitolato gēngzǐnián de yōusī (庚子年的優思, “L’inquietudine dell’anno gēngzǐ”), il saggio esplora le ossessioni e le paure che accomunano il clima culturale e politico di due anni demarcati dal medesimo binomio di caratteri ciclici (gēng 庚, il settimo dei dieci “tronchi celesti” unito a zǐ 子, il primo dei dodici “rami terrestri”) entro il tradizionale calendario sessagesimale cinese, il 1900 e il 2020[8]. Zi Zhongyun suggerisce che al cuore di entrambi questi anni – ricordiamo che il 1900 è l’anno della Rivolta dei boxer – c’è una questione fondamentale, che tormenta l’identità nazionale cinese da oltre un secolo: come distinguere tra “vero amore per la patria” e “tradimento della patria”? Il sollevamento popolare ferocemente antioccidentale di centoventi anni fa era “patriottico”, o piuttosto una minaccia per l’impero? L’imperatrice reggente Cixi, dopo qualche tentennamento, scelse fatalmente di schierarsi con i boxer, segnando così tanto il destino della rivolta (sanguinosamente repressa dalla coalizione delle principali potenze del tempo), quanto quella della dinastia mancese (cui i sudditi cinesi non perdonarono l’ennesima capitolazione di fronte agli stranieri). Così anche oggi sembra che i cinesi siano costretti all’abiura dell’Occidente per dimostrare il proprio amor di patria, quasi che l’antico grido di battaglia dei boxer fú Qīng miè yáng (扶清灭洋, “sosteniamo i Qing, eliminiamo gli stranieri”) debba oggi inevitabilmente riproporsi come fú “Huá” miè yáng (扶「华」灭洋, “sosteniamo la Cina, eliminiamo gli stranieri”). Proprio come allora, la sinofobia dell’Occidente e la xenofobia della Cina tendono ad alimentarsi vicendevolmente, con il rischio che tali passioni divoranti divampino fino a trascendere la rediviva politica di potenza che ambisce a servirsene per cooptare e compattare il consenso delle masse. L’immensa grancassa costituita dai nuovi media, con la loro capillarità e pervasività, la perversa tendenza degli algoritmi che li governano a “spingere” le controversie e la polarizzazione delle opinioni, amplifica ulteriormente questo rischio. L’autrice vede in questa tendenza una battaglia senza vincitori, ma che, soprattutto, rischia di gettare al vento trent’anni di progressiva globalizzazione della Cina: il decoupling economico, promosso con caparbia ostinazione dalla diplomazia statunitense, rischierebbe dunque di tradursi in una “de-sinizzazione”, ovvero nell’isolamento non solo economico, ma anche politico e culturale della Cina.
Se questa amara riflessione fa emergere le ansie di una parte delle élite culturali cinesi, quantomeno quelle più votate a una sempre più profonda e feconda interazione con il resto del mondo, essa riecheggia parimenti nel complesso stato d’animo di chi rischia di trovarsi nella posizione più vulnerabile di tutte alla violenza di queste ossessioni: i cinesi della diaspora. Soprattutto quelli nati o cresciuti in un paese in cui l’immigrazione cinese ha preso piede a partire dall’età delle riforme, come nel caso dell’Italia, finiscono per trovarsi nell’occhio del ciclone, costretti come sono a navigare acque sempre più mosse e minate da aspettative famigliari e comunitarie, dalla diffidenza e dagli stereotipi della cultura dominante, dalle politiche identitarie della patria ancestrale. Mai come quest’anno, la voce dei giovani sinoitaliani si è fatta notare e sentire, ma, come ha recentemente denunciato Valentina Pedone[9], senza che il paese in cui vivono abbia realmente colto l’importanza della sfida che queste voci incarnano.
Nei media italiani le pulsioni xenofobe e sinofobe in Italia sono spesso sminuite, ridotte a un problema di mera “correttezza politica”. Non soltanto nella stampa di destra: nel dibattito sempre assai acceso attorno alla gestione dell’emergenza sanitaria da parte del governo Conte, perfino uno studioso autorevole e d’area progressista come il sociologo Luca Ricolfi, ha criticato aspramente la decisione di molti amministratori locali e politici italiani “di incoraggiare i contatti con la comunità cinese (scuole e ristoranti)”, il tutto – secondo Ricolfi – “in ossequio al sacro terrore di apparire razzisti, discriminatori, o politicamente scorretti”. Invece quella breve ma intensa stagione di attivismo anti-sinofobia è stata importante, ha dato un segnale di riconoscimento e di affetto, qualcosa di cui questi giovani hanno bisogno come dell’aria per respirare. Messi doppiamente a dura prova da una pandemia che prima si è accanita sui loro parenti in Cina, e poi sulle proprie famiglie in Italia, i cinesi d’Italia hanno reagito con stoicismo e generosità, avviando raccolte fondi per portare assistenza prima alla Cina, poi all’Italia[10]. Il tutto mentre le loro attività imprenditoriali, in massima parte concentrate nel settore della ristorazione e del commercio, hanno accusato più di tutte le altre l’urto del Covid-19. A febbraio, in ragione della “paura dell’untore cinese”, poi per via del lockdown, infine oggi per la difficoltà di conciliare imprese della ristorazione e del commercio di prossimità con il decorso di una pandemia ancora tutt’altro che debellata. Come l’Italia e l’Unione europea si sforzano di costruire una propria alternativa al muro-contro-muro tra Cina e USA, così i cinesi d’Italia si sforzano di conciliare il proprio mondo di relazioni quotidiano con il gran calderone delle contrapposte passioni e affinità in cui vanno precariamente forgiandosi le variegate identità sinoitaliane.
Documenti di policy in primo piano
Comitato centrale del V Congresso nazionale del Partito comunista cinese, “Gào Táiwān tóngbāo shū” [Messaggio ai compatrioti di Taiwan], Taipei, dicembre 1978, disponibile all’Url http://www.china.org.cn/english/7943.htm
Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, “Tuīdòng dìfāng chuàngshēng zhèngcè” [Promuovere la politica di rivitalizzazione regionale], Taipei, dicembre 2018, disponibile all’Url ndc.gov.tw/en/
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[1]Dati elaborati dalla Commissione nazionale per la salute della Rpc, al 31 marzo 2020 [http://www.nhc.gov.cn/yjb/s7860/202004/28668f987f3a4e58b1a2a75db60d8cf2.shtml].
[2]Dati elaborati dal Johns Hopkins University & Medicine Coronavirus Resource Centre, al 30 agosto 2020 [https://coronavirus.jhu.edu/map.html].
[3]Cfr. Ma Suping, Yuánzhù Yìdàlì: gěi rén, gěi wù, gěi jīngyàn [Aiutare l’Italia: donare persone, materiali, esperienza], Southern Weekend, 24 marzo 2020 [http://www.infzm.com/contents/179907].
[4] Si veda per esempio l’aspra critica alla presunta eccessiva sinofilia del governo in carica espressa da Giulia Pompili, cfr. Giulia Pompili, “Ma quali aiuti dalla Cina, è tutta roba che compriamo”, Il Foglio, 12 marzo 2020.
[5] Molti post cinesi si rifanno alle dichiarazioni di alcuni medici italiani, in particolare quelle rilasciate dal direttore dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, Giuseppe Remuzzi, in occasione di un’intervista con La7, che riportano un’anomala ondata di polmoniti atipiche in diverse zone della Lombardia già ad ottobre 2019. Nessuno di questi medici, tuttavia, ha mai suggerito che il SARS-CoV-2 abbia avuto origini in Italia.
[6] Zhao Lijian sembra essersi ispirato soprattutto a un articolo pubblicato su Global Research, un sito complottista canadese, che ha poi rilanciato in un ulteriore tweet.
[7] Per un ottimo commento e traduzione, cfr. Géremie Barmé, “Viral alarm: 1900 & 2020 — an old anxiety in a new era”, China Heritage, 28 aprile 2020 [https://chinaheritage.net/journal/1900-2020-an-old-anxiety-in-a-new-era/].
[8] Ciascun binomio di caratteri ciclici si ripete ogni sessant’anni, per cui gli anni gēngzi 庚子 degli ultimi centoventi anni sono stati il 1900, il 1960 e il 2020.
[9] Un’efficace ed esaustiva rassegna dell’espressione culturale sinoitaliana al tempo della pandemia si trova in Valentina Pedone, “(Non) Fai rumore. Il silenzio intorno all’espressione culturale sinoitaliana durante la stagione Covid-19”, Sinosfere, 30 luglio 2020 [https://sinosfere.com/2020/07/30/valentina-pedone-non-fai-rumore-il-silenzio-intorno-allespressione-culturale-sinoitaliana-durante-la-stagione-covid-19/].
[10] L’esperienza sinoitaliana della pandemia è stata raccontata con grazia e sommessa fierezza in un reportage fresco di stampa, cfr. Lala Hu, Semi di Tè (Milano: People, 2020).
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