Nonostante le donne partecipino, da sempre e a vario titolo, a conflitti armati in tutto il mondo, esse tendono a scomparire dai radar durante il periodo di transizione tra guerra e pace. Ciò è particolarmente vero per le donne soldato. Le ex-combattenti non si siedono ai tavoli di pace a cui al massimo sono invitate solo le rappresentanti di organizzazioni di donne più convenzionali che ci si aspetta parlino a nome di tutte le donne e le ragazze. Le ex-combattenti non sono attivamente incoraggiate a partecipare ai programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Disarmament, Demobilisation and Reintegration – DDR), e tanto meno incluse nella loro pianificazione. Mentre i comandanti uomini fanno pressioni per includere i loro uomini e ragazzi, le donne e le ragazze devono cavarsela da sole.
Se da un lato i governi di transizione e gli organizzatori dei programmi di DDR sostengo spesso che rispondere ai bisogni e alle richieste di giovani uomini arrabbiati e annoiati sia la chiave per assicurare pace e stabilità in contesti post-conflitto, dall’altro, le organizzazioni di donne più convenzionali potrebbero suggerire che presentare le donne come costruttrici di pace (e non istigatrici di violenza) sia più vantaggioso per il movimento nel suo complesso – un approccio talvolta incoraggiato anche dagli attori internazionali. In alcuni contesti, come sottolinea Martin de Almagro, le ex-combattenti donne sono emarginate dall’élite delle attiviste, che si rifiutano di lavorare con donne soldato. In altre parole, una ex-combattente donna non è abbastanza civile agli occhi delle organizzazioni di donne. Ma la stessa donna non è abbastanza soldato agli occhi di chi si occupa dei programmi di DDR. Di conseguenza, rimane ignorata.
Per comprendere le realtà delle donne soldato in contesti di conflitto – e quindi poter occuparsi dei loro bisogni post-conflitto – è essenziale includere loro rappresentanti già durante le negoziazioni di pace. Tuttora, però, questo avviene raramente poiché le ex-combattenti continuano a essere considerate inadatte, sia per contribuire ai processi di pace che per contribuire agli sforzi di ricostruzione post-conflitto. È invece ai comandanti maschi che viene regolarmente richiesto di stilare liste di soldati sotto il loro comando, liste che tipicamente favoriscono uomini e ragazzi. Anche le informazioni pratiche sui programmi di DDR sono spesso comunicate attraverso i comandanti maschi, cosa che, di nuovo, comporta il rischio di favorire i soldati uomini a spese di donne e ragazze. A livello programmatico, poi, i criteri di accesso ai programmi di DDR sono tipicamente stabiliti durante i negoziati di pace e, se le donne soldato non sono incluse nelle relative discussioni, tali criteri potrebbero, ancora una volta, sfavorire donne e ragazze che hanno prestato servizio.
Vale la pena notare che consultare una donna qualsiasi, come una rappresentante di una delle cosiddette “organizzazioni locali di donne” (local women’s organisations) non garantisce che gli interessi e i bisogni delle donne soldato vengano soddisfatti. Come osserva Azza Karam, infatti, non è semplicemente l’inclusione delle donne (cioè la quantità di donne), ma l’ideologia delle donne (cioè la qualità), che può fare la differenza. Potremmo quindi chiederci: perché una ONG dovrebbe difendere i bisogni di chi non sostiene la sua ideologia o non fa parte dei suoi diretti beneficiari? Farsi questo tipo di domande è importante perché è dimostrato che i gruppi di interesse – inclusi, ma non solo, i gruppi di donne – tendono a concentrarsi prevalentemente sui bisogni della classe media e delle élite, indipendentemente dagli obiettivi dichiarati o promossi.
Si afferma spesso che le donne devono partecipare ai negoziati di pace per poter creare una pace sostenibile. In queste argomentazioni, però, è la quantità e non la “qualità” (il tipo) di donne che conta. Tuttavia, come sostiene Swati Parashar, non solo questa linea di ragionamento presuppone che la pace sia il risultato naturale della partecipazione delle donne nei processi post-conflitto, essenzializzando i ruoli e le esperienze delle donne, ma serve anche le agende statiste neocoloniali, la modernità neoliberale dell’Occidente, nonché la violenza epistemica e le marginalizzazioni esercitate dai sostenitori dell’agenda “Women, Peace and Security” (WPS).
In effetti, esaminando meglio i processi di pace, diventa evidente come solo un certo tipo di “essere donna” (womanhood) – conforme alle pratiche discorsive e comportamentali della “comunità internazionale” – ha accesso ai tavoli negoziali. Una donna o ragazza soldato, per non parlare di una comandante – che ha commesso atrocità inimmaginabili ed è rude, nelle parole e nei fatti – non si allinea all’immagine della “madre amante della pace” e, quindi, non è nell’interesse di un’organizzazione locale né in quello di un comandante uomo promuovere la partecipazione delle ex-combattenti: una combinazione tragica che richiede maggiore ricerca. Mentre le organizzazioni locali di donne hanno come incentivo quello di approfittare dell’illusione di una femminilità armoniosa e del vittimismo, i comandanti tipicamente desiderano accontentare le proprie cerchie clientelari più prossime, cioè i (giovani) combattenti maschi.
Le sfide poste dal dare priorità alla quantità rispetto alla qualità si manifestano anche quando l’approccio ai programmi di DDR si riassume in “armi, campi e soldi”: poiché molte risorse sono veicolate nelle società post-conflitto attraverso processi di DDR, la questione riguarda essenzialmente il controllo (gatekeeping) e il potere. Gli standard dell’ONU del 2006 che guidano i processi di DDR sul campo in contesti post-conflitto, gli Integrated Disarmament, Demobilisation and Reintegration Standards (IDDRS), forniscono un buon esempio in questo senso.
La sezione intitolata “Donne, genere e DDR” dell’IDDRS afferma che: “Women who are familiar with the needs of female fighters, veterans and other community-based women peace-builders should attend and be allowed to raise concerns in the negotiation process. In circumstances where the participation of women is not possible, DDR planners should hold consultations with women’s groups during the planning and pre-deployment phase and ensure that the latter’s views are represented at negotiation forums” (p. 7).
Anche se è positivo il fatto che le donne che parlano a nome delle combattenti dovrebbero conoscerne i bisogni (“be familiar with the needs of female fighters”), non è chiaro perché non siano citate le rappresentanti delle donne soldato. Anche l’espressione “essere autorizzate a sollevare preoccupazioni” (“be allowed to raise concerns”) è degna di nota. Ci si aspetta quindi che siano i “gruppi di donne” a fare pressioni a nome delle donne soldato. Come è stato evidenziato precedentemente, però, non è detto che le organizzazioni di donne abbiano abbastanza incentivi per farlo, non essendo le donne soldato tra i loro stakeholder principali. Inoltre, non ci sono le basi per essere certi che le organizzazioni di donne abbiano tutte le informazioni sulle politiche di genere all’interno delle fazioni in conflitto solo in virtù di alcune somiglianze biologiche.
Gli IDDRS contengono anche diverse incongruenze. Una delle contraddizioni più significative riguarda i criteri di ammissibilità ai programmi di DDR per le donne soldato inattive (non-active female soldiers). Se nell’introduzione alla sezione “Donne, genere e DDR” si afferma che le donne soldato inattive non dovrebbero essere avvicinate (“should not be approached”), più avanti, nella stessa sezione, si sostiene che le ex-combattenti (cioè donne soldato inattive), le sostenitrici e le persone a loro carico, dovrebbero essere incoraggiate a partecipare (“should be encouraged to participate”) ai processi di DDR attraverso campagne di informazione. Per rendere la questione ancora più confusa, le linee guida consigliano anche di consultare le donne nella comunità in merito alle donne soldato “auto-reintegrate” per rendere più probabile la loro partecipazione ai programmi di DDR. In pratica, la scelta di cosa fare con le donne soldato dipende da quale parte del documento si legge.
Date le incongruenze all’interno degli IDDRS, i valori e gli atteggiamenti individuali degli operatori di DDR sul campo avranno inevitabilmente un peso significativo nella selezione di chi parteciperà a un programma di DDR. In base agli IDDRS, la responsabilità principale per i processi di screening è del personale militare. Anche se ci si aspetta che operatori civili supportino i militari nella fase di valutazione e che le decisioni su chi può accedere a un programma di DDR si basino su liste di criteri prestabiliti, le criticità notate in precedenza non possono che lasciare ai militari una notevole autorità decisionale.
Anche nel caso in cui una donna soldato sia a conoscenza dell’esistenza di un processo di DDR e del suo diritto a farne parte, il quadro normativo e gli operatori di DDR supportino la sua partecipazione, e non ci siano altri ostacoli, lei potrebbe comunque decidere di non partecipare per ragioni pratiche che hanno a che fare con la sua vita quotidiana. Tali ragioni includono questioni logistiche, come la distanza fisica dal luogo del disarmo, la mancanza di trasporti o le cattive condizioni delle strade. Altre ragioni rilevanti sono quelle di natura economica: non solo il viaggio verso il luogo del disarmo comporta delle spese, ma la perdita di reddito potrebbe rappresentare una criticità sia per la donna/ragazza che per la sua famiglia. In merito all’economia domestica, poi, le donne tipicamente svolgono diverse funzioni di cura all’interno della propria famiglia, accudendo figli, parenti malati o anziani. In sintesi, una donna soldato/veterana potrebbe non potersi permettere l’iscrizione al programma, specialmente se non ci sono garanzie sulla sua effettiva partecipazione. La paura della stigmatizzazione è un altro fattore di ostacolo alla partecipazione delle donne soldato nei processi di DDR. Un’ex-combattente potrebbe non aver neanche svelato ai parenti più stretti il suo passato da donna soldato e potrebbe quindi non voler rischiare di perdere o compromettere le sue reti sociali, nonostante i potenziali benefici economici. Questo tipo di motivazioni sono quelle più spesso menzionate sia nei circoli accademici che in quelli politici. È però importante riconoscere che, per quando questi ostacoli pratici siano importanti, risultano comunque piuttosto facili da risolvere, almeno in confronto alle sfide di tipo ideologico su cui mi focalizzerò ora.
La Liberia è un ottimo esempio di come i fattori ideologici possano ostacolare la partecipazione di donne e ragazze ai processi di DDR. La Liberia è spesso indicata come una storia di successo dell’attivismo pacifista femminile. Tuttavia, come osserva Martin de Almagro, l’enfasi sul movimento pacifista di alcune donne rende irrilevanti o invisibili le esperienze di guerra e di ricostruzione post-conflitto di altre, e questo è proprio quello che è successo in Liberia. All’indomani delle due guerre civili, il processo di DDR diede priorità alla partecipazione dei giovani uomini – costantemente presentati come la principale minaccia alla sicurezza del paese – e le ex-combattenti non trovarono poste neanche nel movimento per la pace delle donne. Così, molte donne soldato decisero di disarmarsi, smobilitarsi e reintegrarsi in modo autonomo, al di fuori di qualsiasi accordo formale. Come mi ha confidato Theresa, un’ex-combattente, nel 2012: “Quando la tensione era alta, ho deciso di gettare la mia arma nel fiume e così sono diventata una civile”.
Il paradosso qui è che la Missione delle Nazioni Unite in Liberia, UNMIL, è stata la prima operazione di peacekeeping nella storia dell’ONU con un mandato che esplicitamente richiedeva l’integrazione della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU su donne, pace e sicurezza. Secondo il Consiglio di Sicurezza, inoltre, il processo di DDR liberiano avrebbe dovuto prestare particolare attenzione ai bisogni di bambini e donne soldato.
Martin de Almagro ha identificato tre forme di “donne partecipanti” (women participant) generate dall’agenda globale WPS: 1) l’attivista – una donna istruita e preparata, di casa nei circoli internazionali, scelta e prodotta dalle ONG internazionali come sostenitrice delle loro cause; 2) la mediatrice – una donna del posto, con poca o nessuna educazione formale, selezionata per partecipare a una serie di corsi di formazione generalmente organizzati dall’ONU, con il compito di risolvere i conflitti locali adottando le norme stabilite dagli attori internazionali; e 3) la donna soldato. Come notato da Martin de Almagro, quest’ultima categoria fa riferimento sia alla quota di donne nelle forze di sicurezza – un espediente che potrebbe contribuire al rischio di essenzializzare le capacità e competenze delle donne che forniscono un diverso tipo di sicurezza, accudimento e cura – sia alla figura, fastidiosa e invisibile, delle ex-combattenti.
Etichettare contemporaneamente le ex-combattenti come vittime per via del loro sesso (come fa la comunità internazionale) e come carnefici con cui è impossibile cooperare (come fanno le organizzazioni di donne), costringe le veterane a un limbo di oblio: non sono abbastanza soldati per accedere a un processo formale di DDR, ma non sono nemmeno abbastanza civili per unirsi alla causa di molte organizzazioni di donne.
Già nel 1984 Chandra Talpade Mohanty, nel suo romanzo “Con gli occhi dell’Occidente” (“Under Western Eyes”) ci mise in guardia sui rischi di inquadrare le “donne del Terzo mondo” come un soggetto monolitico. Anche se diverse studiose femministe continuano a sottolineare che il funzionamento delle dinamiche di genere e conflitto è sempre specifico di una determinata zona di guerra, nell’ambito dell’agenda WPS le donne del Sud del mondo continuano a essere inquadrate principalmente come vittime e costruttrici di pace, ignorando così le realtà e i bisogni di quelle donne che hanno partecipato al conflitto.
Dati i numerosi ostacoli pratici e le sfide ideologiche che le ragazze e le donne soldato devono affrontare per accedere a un programma formale di DDR, non sorprende la loro tendenza ad “auto-smobilitarsi” e reintegrarsi spontaneamente: è quindi urgente comprendere meglio questo fenomeno di “DDR offstage” e le sue dinamiche di genere. Le donne che optano per processi di DDR autonomi e spontanei continuano a finire nel dimenticatoio e a perdere il supporto di cui avrebbero certamente diritto. Ogni ragazza o donna che riesce a iscriversi a un programma di DDR è un piccolo miracolo. Ma è ancora più stupefacente l’ex-combattente donna che, attraverso un processo di DDR, riesce a raggiungere la stabilità fisica, mentale ed economica per ricominciare la propria vita – come una veterana, ricordando il suo passato da soldato senza esserne perseguitata.
*Questo articolo è una versione ridotta e tradotta in italiano del capitolo “Not Enough Soldier, Not Enough Civilian: The continuing under-representation of female soldiers in Disarmament, Demobilisation, and Reintegration (DDR) programmes” di Leena Vastapuu contenuto nel Routledge Handbook of Feminist Peace Research (2021) curato da Tarja Väyrynen, Swati Parahshar, Êlise Féron e Catia Cecilia Confortini.
Per saperne di più
Karam, A. (2000) “Women in war and peace-building: The roads traversed, the challenges ahead”, International Feminist Journal of Politics, 3. Disponibile su: https://doi.org/10.1080/14616740010019820
Martin de Almagro, M. (2018) “Producing participants: Gender, race, class, and women, peace and security”, Global Society, 32(4). Disponibile su: https://doi.org/10.1080/13600826.2017.1380610
Parashar, S. (2019) “The WPS agenda: A postcolonial critique”. In: Davies, S.E., True, J. (ed.) The Oxford Handbook of Women, Peace and Security. Oxford UP.
Vastapuu, L. (2028) Liberia’s Women Veterans: War, roles and reintegration. Illustrated by Emmi Nieminem. Zed Books.
Vastapuu, L. (2019) “How to find the ‘hidden’ girl soldier? Two set of suggestions arising from Liberia”. In: Drumbl, M., Barret, J. (ed.) Research Handbook on Child Soldiers. Edward Elgar.
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