Nel luglio 1995, mentre l’Europa si preparava alle vacanze estive, in Bosnia Erzegovina continuava una terribile guerra, l’assedio di Sarajevo straziava la città, e un genocidio si compiva alle porte di casa nostra.
Coniato nel 1944 per descrivere le terribili sorti della popolazione ebraica durante la Seconda guerra mondiale, il termine ‘genocidio’ indica la metodica distruzione di gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Tutti, nel mondo occidentale e in Europa in particolare, convennero che tali atrocità non sarebbero mai più dovute accadere. Che tale odio, e tale violenza, fossero disumani. Qualche decennio dopo, però, quando la Jugoslavia di Josip Broz, meglio noto come Tito, cominciò a barcollare e i nazionalismi ad avvelenare i cuori e le menti, l’Europa chiuse un occhio. Poi anche l’altro.
A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli “Slavi del Sud” convissero per quasi cinque decenni sotto il grande tetto creato dal Maresciallo Tito: la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, composta da sei repubbliche (Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia) e due province autonome (Kosovo e Vojvodina, parte della Repubblica Socialista di Serbia). La Bosnia ed Erzegovina, soprannominata anche “Jugoslavija u malom” cioè “Jugoslavia in miniatura”, era un luogo peculiare, e non solo per la sua bellezza. A differenza delle altre repubbliche, la Bosnia infatti non aveva una chiara maggioranza etno-nazionale, ma era composta da tre gruppi principali: i Serbo-bosniaci, i Croato-bosniaci, e i Bosgnacchi (Bošnjak). I tre gruppi, tutti riconosciuti come popoli costitutivi, si distinguevano (e si distinguono tutt’ora) sostanzialmente per fede religiosa o cultura tradizionale residua: il Cristianesimo ortodosso per i Serbo-bosniaci, il Cattolicesimo per i Croato-bosniaci e l’Islam per i Bosgnacchi. La Bosnia, tuttavia, era la più secolare di tutte le unità federali, simbolo di coesistenza pacifica tra i suoi popoli.
Alla fine degli anni ottanta, dopo la morte del padre fondatore Tito, il già acuto malessere economico assunse presto toni politici e iniziarono a comparire le prime rivalità tra le sei repubbliche. Nuovi leader politici, come Slobodan Milošević e Franjo Tuđman (rispettivamente Presidente della Serbia e della Croazia negli anni novanta), introdussero il discorso nazionalista nel contesto jugoslavo, rompendo definitivamente con la politica di “Fratellanza e Unità” (Bratstvo i Jedinstvo) tanto cara a Tito. Alla crisi economica, politica e ideologica, se ne aggiunse quindi una identitaria, abilmente creata e fomentata dalla classe dirigente del tempo. Le origini etniche e religiose dei popoli divennero uno strumento di potere, un’arma usata per dividere e alimentare tensioni. Etnia, religione e tradizioni passarono quindi dall’essere componenti dell’identità privata di ciascuno, al rappresentarne in toto l’identità pubblica, creando una pericolosa dicotomia fra “noi e loro”. Nel 1990 la legittimità federale si stava ormai sfaldando e le prime elezioni democratiche segnarono ufficialmente l’ascesa al potere dei partiti etno-nazionalisti. Poco dopo, la transizione democratica si tradusse in un susseguirsi di guerre: le dichiarazioni d’indipendenza di Slovenia e Croazia, nel giugno 1991, portarono allo scontro armato tra l’esercito della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (sotto il controllo serbo) e, inizialmente e per dieci giorni, la Slovenia; il conflitto si spostò poi in Croazia, dove divenne più intenso e durò quattro anni, e in Bosnia ed Erzegovina, dove cessò a fine 1995.
La spartizione territoriale della Croazia iniziò, tuttavia, già nel 1991 con l’autoproclamazione della Repubblica Serba di Krajina (Republika Srpska Krajina), con capitale Knin, basata sull’ipotesi che fosse necessario proteggere i serbi residenti in Croazia dal regime ustaša (fascista). Lo stesso accadde poi in Bosnia: nel novembre 1991, Mate Boban, un politico croato-bosniaco, autoproclamò la mai riconosciuta Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia (Hrvatska Republika Herceg-Bosna) nel territorio bosniaco. Qualche mese dopo, nel gennaio 1992, anche il leader nazionalista serbo-bosniaco Radovan Karadžić decise di autoproclamare, sempre in territorio bosniaco, la tutt’ora esistente Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska) con capitale Pale, a 17 km da Sarajevo. Divenuto di fatto serbo e sotto il controllo di Milošević, l’esercito federale jugoslavo, si spostò dunque in Bosnia. Alla fine del 1991 era già chiaro che mentre Milošević e Tuđman si scontravano in Croazia in una guerra rovinosa, al contempo si accordavano segretamente per spartirsi la Bosnia ed Erzegovina, uno stato al tempo stesso di tutti e di nessuno per via della sua peculiare composizione etnica che divenne, quindi, una terra di mezzo, da dividere e smembrare.
Poiché la politica si prostra spesso all’adagio machiavelliano del “fine giustifica i mezzi”, insieme ai bombardamenti, la pulizia etnica divenne il mezzo principale per eliminare il problema. L’istituzione di campi di detenzione, i massacri e le stragi continuarono senza interruzioni, dalla fine del 1991 – quando i primi carri armati serbi entrarono in Bosnia – alla firma dell’Accordo di pace di Dayton, nel novembre 1995. L’inizio ufficiale della guerra in Bosnia è tuttavia datato 6 aprile 1992, giorno in cui la Comunità Europea riconobbe ufficialmente l’indipendenza degli stati di Slovenia, Croazia, e Bosnia ed Erzegovina. Iniziarono così i bombardamenti e l’assedio di Sarajevo, un tempo emblema della coesistenza tra popoli poi divenuta simbolo di distruzione, nonché vittima dell’assedio più lungo della storia moderna, durato più di mille giorni.
Mentre l’assedio e i bombardamenti su Sarajevo continuavano nell’intento di “far esplodere il cervello” ai suoi abitanti – come dichiarò Mladić stesso –, mentre giovani e vecchi morivano in campi di detenzione come quello di Omarska, e mentre moltissime donne venivano ripetutamente e sistematicamente violentate, i vertici internazionali si riunivano cercando una soluzione al conflitto. L’obiettivo era evitare una tragedia simile all’Olocausto, tuttavia molti governi europei preferirono non intervenire direttamente nel conflitto così da non sconvolgere i rapporti di forza già esistenti. Passarono, così, quattro lunghi anni. Poi la storia si ripeté.
Il genocidio avvenne nella cittadina di Srebrenica l’11 luglio 1995, davanti agli occhi passivi del contingente olandese della missione di peacekeeping UNPROFOR, incaricato di tutelare la zona, dichiarata “area protetta” dalle Nazioni Unite nel 1992. Sotto il sole di luglio, mentre il leader nazionalista serbo-bosniaco Ratko Mladić rassicurava l’UNPROFOR, gruppi di paramilitari massacravano la popolazione di Srebrenica: più di ottomila Bosgnacchi, prevalentemente maschi, furono ammazzati nel giro di qualche settimana. Ciò che accadde a Srebrenica rappresentò solo il culmine, l’apoteosi di un piano – quello della pulizia etnica – attuato per tutto il periodo di guerra e volto a “purificare” i territori da presenze “scomode”. Lo stupro etnico ne fu un altro palese esempio: esercitato metodicamente e sistematicamente, aveva lo scopo di “contaminare” le donne non serbe, spesso detenute in campi di prigionia speciali affinché non potessero interrompere la gravidanza.
Con l’Accordo di Dayton, siglato nel 1995, si pose fine alle sanguinose guerre e venne riconosciuta la presenza di due distinte entità territoriali in Bosnia ed Erzegovina: la già menzionata Republika Srpska fondata da Karadžić nel 1992, che costituisce il 49% del territorio ed è abitata in maggioranza da Serbo-bosniaci, e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Federacija Bosne i Hercegovine) che occupa il restante 51% del territorio ed è abitata in prevalenza da Croato-bosniaci e Bosgnacchi, sebbene sia suddivisa in dieci cantoni (unità amministrative) prevalentemente monoetnici. Nel 1999 fu garantita poi l’autonomia al Distretto di Brčko, territorio nel nord-est del paese dunque non facente parte di nessuna delle due entità bosniache. La città di Srebrenica è oggi parte della Republika Srpska.
La composizione etno-territoriale della Bosnia ed Erzegovina post-conflitto è dunque drasticamente cambiata: se prima delle guerre i tre principali gruppi erano amalgamanti tra loro, ora sono invece fortemente separati con evidenti conseguenze sulle dinamiche di convivenza. Questa “territorializzazione dell’etnicità”, rende inoltre difficile il ritorno dei rifugiati ai loro paesi di origine, sebbene tale diritto sia sancito dall’Accordo di Dayton. In assenza di statistiche ufficiali, si stima che siano più di 2 milioni i rifugiati bosniaci che hanno abbandonato le loro case durante una guerra che ha provocato complessivamente quasi 100mila morti, inclusi quelli di Srebrenica. Moltissimi mancano ancora all’appello.
Al termine delle guerre fu istituito il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia), incaricato di indagare sui crimi commessi e punire i colpevoli di tali atrocità. Il Tribunale stabilì che il massacro di Srebrenica, essendo stato commesso con l’intento di distruggere il gruppo etnico dei Bosgnacchi, costituiva un “genocidio”. La questione, tuttavia, rimane ancora oggi spinosa e materia di dibattito e disaccordo tra i principali gruppi – e stati – coinvolti. Ci vollero, inoltre, molti anni prima di arrestare personaggi chiave come Milošević, Karadžić e Mladić.
Milošević, Presidente di Serbia (1989-1997) e Presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia (1997-2000), fu accusato di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica in Croazia, Bosnia e Kosovo, ma morì nel carcere dell’Aia prima della sentenza. Mladić, comandante militare dei Serbo-bosniaci, soprannominato “il macellaio di Bosnia”, fu arrestato nel maggio 2011 in Serbia dopo sedici anni di latitanza. Accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, fu condannato all’ergastolo il 22 novembre 2017. Infine, Karadžić, Presidente della Republika Srpska (1992-1996), dopo una latitanza durata fino al 2008, fu accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e condannato in primo grado nel marzo 2016 a quarant’anni di reclusione; il 20 marzo 2019, invece, la sentenza finale è stata commutata in ergastolo.
Nonostante la valenza storica di questi processi, i negazionisti – così come gli ultranazionalisti – non mancano. Primo fra tutti Milorad Dodik, Presidente della Republika Srpska dal 2010 al 2018, definì più volte i fatti di Srebrenica come “falsi, un inganno”, definì Mladić “un eroe”, intitolò a Radovan Karadžić la casa degli studenti universitari di Pale nel 2016 e, in vista delle elezioni di ottobre 2018, chiese l’annullamento di un rapporto ufficiale del 2004 che rappresentava il primo riconoscimento formale da parte dei Serbo-bosniaci della portata del massacro di Srebrenica. In occasione del ventesimo anniversario del massacro, Aleksandar Vučić, oggi Presidente della Repubblica di Serbia, si recò nel luglio 2015 al memoriale di Srebrenica-Potočari dove, però, fu aggredito dalla folla: Vučić, già Ministro dell’Informazione sotto Milošević è, infatti, tristemente celebre per la promessa fatta durante la guerra di “vendicare la morte di ogni Serbo con cento Musulmani”. In tempi più recenti, Vučić ha spiccato un mandato di arresto internazionale per Naser Orić, ex ufficiale militare bosniaco a comando delle forze dell’Armata della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina in difesa dell’enclave di Srebrenica, nel 1995. Vučić , inoltre, partecipò al respingimento di una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sui fatti di Srebrenica. Per la Serbia, la parola ‘genocidio’ resta difficile da pronunciare. Tuttavia, sebbene possa trattarsi solo di una strategia politica, va riconosciuto il passo in avanti compiuto dal Presidente serbo, il quale si è dichiarato ben disposto a cooperare con la Bosnia in ottica di riconciliazione.
La Bosnia ed Erzegovina è oggi attraversata da una profonda ferita che fatica a guarire. A più di vent’anni dalla fine del conflitto, le questioni più delicate riguardanti la guerra, il genocidio e in generale gli accadimenti degli anni novanta rimangono non solo irrisolte, ma spesso manipolate. La purificazione della memoria collettiva, attuata tramite un efficiente lavoro di revisionismo storico e propaganda, rappresenta infatti il primo comandamento del nazionalismo. Nel contesto bosniaco ciò spesso si traduce in campagne elettorali volte a rivangare le ferite di guerra per giochi politici e di potere, talvolta mettendo in dubbio fatti realmente accaduti, primo fra tutti il genocidio. Simili dinamiche si riversano anche in un sistema mediatico ed educativo volti a plasmare le menti secondo la subdola logica del “vittimismo”, negando tanto i fatti quanto le responsabilità. La politicizzazione dell’identità, riflessa nella manipolazione della storia e della memoria, finisce col produrre becere retoriche secondo cui non solo il numero delle vittime diventa uno strumento politico ma, a seconda del gruppo etnico di appartenenza, le vittime stesse diventano “di serie A e di serie B”. Inutile dire come tutto ciò impatti la vita sociale e culturale del paese, contribuendo a distanziare ancora di più i gruppi, fomentando odio e favorendo la crescita del germe nazionalista anche e soprattutto tra i più giovani.
La strada verso una democrazia consolidata e inclusiva appare quindi ancora lunga e in salita: c’è molto lavoro da fare. In particolar modo, la cooperazione tra le autorità politiche e giudiziarie bosniache e degli altri stati coinvolti nel conflitto andrebbe ulteriormente migliorata al fine di identificare e punire i criminali di guerra. L’identificazione dei corpi – o di quel che ne rimane – così come la ricerca delle fosse comuni, restano operazioni difficoltose nonostante il lavoro della Commissione internazionale per le persone disperse (International Commission on Missing Persons). Nonostante ciò, i parenti delle vittime e dei dispersi non si arrendono e associazioni come quella delle Madri di Srebrenica svolgono un lavoro incessante benché doloroso per la ricerca della verità e il ritrovamento dei loro cari. I governi dovrebbero affrontare le questioni aperte assumendosi le proprie responsabilità, senza cadere nel negazionismo o nel nazionalismo, aiutando il popolo bosniaco e soprattutto le generazioni più giovani a raggiungere quel necessario equilibrio tra memoria e oblio. A tal proposito, un ruolo fondamentale può essere svolto dal sistema educativo che oggi è purtroppo etnicamente diviso e ampiamente strumentalizzato: la scuola dovrebbe diventare non solo più inclusiva, ma essere in grado di educare i giovani al passato, includendo nei testi scolastici testimonianze veritiere degli eventi passati, senza connotazioni etno-politiche.
Il genocidio di Srebrenica non fu un incidente: esso fu l’attuazione di un piano concepito da leader nazionalisti per spartirsi la Bosnia ed Erzegovina, eliminando il problema tramite la pulizia etnica. Il genocidio di Srebrenica, come già detto, rappresentò solo il culmine di una violenza disumana e brutale, perpetrata contro il popolo bosniaco ininterrottamente per quattro lunghissimi anni. È solo attraverso una cosciente presa di responsabilità da parte delle élite politiche e degli stati coinvolti che le generazioni future, in Bosnia ed Erzegovina ma non solo, potranno liberarsi dall’odio, dalla paura e dalla schiavitù del nazionalismo. Solo così potranno ricordare il passato, liberandosi del suo enorme peso, e guardare al futuro.
Per saperne di più:
Andjelić, N. (2003) Bosnia Herzegovina. The end of a legacy. Frank Cass.
Sekulić, T. (2002) Violenza etnica, Carocci.
Pirijevec, J. (2001) Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi.
No man’s land, film diretto da Danis Tanović (BIH), 2001
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