L’economia cinese sta attraversando un periodo critico, di transizione verso un tasso di crescita decisamente più basso di quello a cui ci ha abituato negli ultimi 35 anni. Molti sono gli indicatori economici che puntano verso una crescita che rallenta e che mettono in dubbio il potenziale della domanda interna. Tra questi indicatori, ne esiste uno che viene spesso frainteso e che invece va analizzato con cura, onde evitare di trarre conclusioni errate. Questo indicatore è l’andamento delle importazioni di merci dal resto del mondo in Cina.
Dall’inizio del 2015 si è verificata una diminuzione nel valore delle importazioni che è passato da una media mensile di 163 miliardi di dollari a una media – per i primi nove mesi del 2015 – di 137 miliardi, un calo di circa il 16%. Questo calo del valore delle importazioni ha alimentato – se mai ce ne fosse bisogno – le preoccupazioni sulla tenuta dell’economia cinese. Tuttavia, nonostante la situazione sia delicata e il rallentamento dell’economia cinese sia già in atto, non bisogna cadere nel tranello di pensare che le cose siano peggio di quel che sono. Spesso analisti ed economisti peccano di un eccesso di ottimismo (“il Partito è capace di garantire una crescita economica sostenuta per i prossimi decenni”) o di pessimismo (“dietro l’angolo ci aspettano un crash-landing e rivolte sociali”). Meglio analisi meno inclini a conclusioni estreme.
Proviamo a fare un ragionamento su tre livelli di analisi. In primo luogo, in una situazione in cui i prezzi delle commodities hanno una tendenza al ribasso – così come è stato negli ultimi mesi – è ragionevole attendersi un declino delle importazioni se misurate in valori (dollari): quindi questo dato, preso così, non ci può dire molto sullo stato di salute dell’economia. La Figura 1 mostra come l’andamento delle importazioni verso la Cina, misurate in valore, sia bruscamente cambiato dall’inizio del 2015. Possiamo con ciò concludere che la domanda interna si stia deteriorando?
Per provare a rispondere a questa domanda, passiamo ad analizzare l’andamento delle importazioni non in termini di valore, bensì di quantità. La Figura 2 e la Figura 3 mostrano il trend delle importazioni in valori e quantità, rispettivamente, per le tre commodities più rappresentative: petrolio, ferro e rame (che sono anche rappresentative di un certo settore dell’attività industriale). Si evince come a fronte di un crollo del valore delle importazioni (petrolio e ferro calano del 50% dai massimi del dicembre 2013), le quantità importate verso la Cina non abbiano per nulla subito quel calo drammatico che si sarebbe pensato guardando ai numeri espressi in valore. Al di là del fatto che gli ultimi dati di settembre mostrano addirittura un aumento notevole di importazioni di rame e ferro (è bene tenere sempre presente che i dati mensili sono, spesso, privi di significato utile per fare previsioni nel lungo termine), il trend generale di medio termine vede una lieve crescita negli ultimi due anni e una performance più o meno stabile negli ultimi dodici mesi. Il problema dell’affievolimento della domanda interna è dunque un problema reale, ma forse non così catastrofico come sembrerebbe. Che i prezzi delle commodities siano poi influenzati al ribasso perché si suppone che la domanda sia debole a causa del rallentamento dell’economia cinese non fa altro che aggiungere un livello parallelo di circolarità logica, che rende ancora più complesso identificare quale sia la causa e quale invece l’effetto. Questo tipo di analisi può essere facilmente esteso alle altre categorie di importazioni, per avere un quadro più completo anche per merci a uso “non industriale”, come ad esempio componenti elettronici ma anche soft commodities quali grano e soia.
Il secondo livello di analisi consiste nell’analizzare quanto di tali importazioni venga utilizzato per soddisfare una domanda interna reale (consumi o investimenti) e quanto invece venga importato per finire in stoccaggio. Un livello “due-bis” separa anche l’uso per consumi dall’uso per investimenti: il nocciolo della questione relativa alla sostenibilità del sistema economico cinese consiste infatti nel chiedersi se gli investimenti siano eseguiti per soddisfare la domanda finale e siano pertanto una speranza in vista di consumi futuri, oppure se vadano sprecati. La Figura 4 mostra questo flusso, che parte dalle importazioni (a cui si aggiunge la produzione interna), per stabilire l’offerta totale. Il risultato di questa analisi di secondo livello consiste nella stima del totale dei consumi o della domanda finale.
In terzo luogo, va considerata quanta parte di tale domanda finale sia costituita da domanda interna e quanta invece da domanda esterna, dunque da esportazioni. A quel punto il sistema (comunque dinamico nel tempo) potrebbe indicare una relazione tra le importazioni e la domanda interna consentendo una triangolazione dei dati, oppure risolvere per differenze, qualora alcuni dei dati – cosa prevedibile – fossero mancanti. L’analisi viene resa ulteriormente complessa dal fatto che la mappatura delle varie categorie di merci nei vari stadi – importazione, investimento, consumi, stoccaggio ed esportazioni – non è univoca: dai dati pubblicati dall’Ufficio statistico cinese non è infatti immediato comprendere, per esempio, per ogni barile di petrolio importato e per ogni tonnellata di rame importata quanto venga poi trasformato in chilometri di autostrade costruite, in nuovi edifici, o in i-Pad.
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