L’ammontare totale del debito in Cina è uno dei temi più controversi e misteriosi. Le informazioni di dominio pubblico sono piuttosto scarne e i dati ufficiali – quando disponibili – tendono ad essere incompleti e quasi mai attuali. Economisti e studiosi sono costretti a una rincorsa contro il tempo, e spesso arrivano in ritardo. Investitori stranieri che volessero basarsi sui dati disponibili non agirebbero molto diversamente da chi acquistasse azioni o obbligazioni di aziende il cui bilancio più recente risalisse a un paio di anni addietro, e con l’aggravante di contenere un ammontare significativo di dati mancanti. Si naviga, insomma, a vista.
Ciò posto, occorre considerare che: 1) a livello locale, quasi tutti i governi provinciali hanno un deficit strutturale, ma ciò non comporta automaticamente che esista un serio problema di rigore fiscale nelle varie province cinesi (ma neppure lo esclude); 2) nell’analizzare il rischio di insolvenza di una nazione attraverso il rapporto debito/Pil, non bisogna guardare soltanto al debito detenuto dal governo, ma anche ai debiti privati a carico di cittadini e aziende – e qui la Cina (anzi i cinesi) devono stare in guardia; 3) in caso di crisi finanziaria, non è sempre vero che la crisi può essere più facilmente affrontata e risolta quando i creditori sono investitori nazionali; spesso avere investitori nazionali crea più problemi che soluzioni. Questo fenomeno può rendere una possibile crisi del credito in Cina più complessa di quanto si possa immaginare; 4) spesso e volentieri, le cosiddette ristrutturazioni del debito (sovrano o aziendale) non sono altro che default occulti. La Cina sta avviando un programma di ristrutturazione del debito locale che potrebbe nascondere problemi più seri. Ma, come detto all’inizio, con dati parziali si lavora su ipotesi. La principale tra queste è che se la Cina fosse un’economia di mercato, il problema del debito sarebbe abbastanza preoccupante. Nei momenti di crisi, aiuta invece essere un’economia pianificata – e la Cina resta ancora oggi un’economia largamente pianificata, nonostante i grandi cambiamenti recenti.
Nel breve spazio di questo articolo è impossibile affrontare in dettaglio tutti gli aspetti legati a queste quattro problematiche; proviamo quindi a fissare alcuni concetti e a fornire dati che possano servire per ulteriori riflessioni.
Con pochissime (ma significative) eccezioni, i governi di tutte le province cinesi hanno, almeno negli ultimi 15 anni, sempre avuto un disavanzo fiscale. Il rapporto deficit/Pil è quindi stato negativo e in molti casi in modo abbastanza elevato. La Figura 1 mostra tale rapporto per le 31 province/municipalità dal 1998 a oggi. Per motivi puramente illustrativi – il paragone è forzato – sono stati applicati i criteri di Maastricht a ciascuna delle 31 province e municipalità, e colorati in rosso quei rapporti deficit/Pil che superano il 3%. Il confronto è puramente illustrativo dal momento che in Cina, al contrario che in Europa, parte delle tasse viene trasferita al governo centrale mentre gran parte delle spese restano a carico dei governi locali. In particolare, sul budget nazionale totale, il 50% dei ricavi resta nelle casse dei governi locali, mentre il rimanente 50% va al governo centrale. Per quanto riguarda le spese, l’85% della spesa nazionale totale è a carico delle province, mentre soltanto il rimanente 15% è a carico del governo centrale, che risulta anche avere un surplus fiscale. È proprio questo sistema fiscale semi-centralizzato che tende a sovvenzionare chi ha più bisogno e che è riuscito a mettere una toppa laddove i rapporti deficit/Pil hanno raggiunto valori da “Grecia” e oltre, come si evince dalla Figura 1, con cifre che si aggirano attorno al 10-15% e persino ben al di sopra del 20% nelle aree più povere del paese. In Tibet, per esempio, le spese sono circa dieci volte i ricavi: anche supponendo una trattenuta fiscale al livello locale del 100% delle entrate, per tale provincia sarebbe assolutamente impossibile auto-finanziarsi senza aiuti esterni.
Il sistema di divisione delle entrate è molto complesso in Cina e l’allocazione tra governi locali e centrali è oggetto di vari studi. Senza voler trarre conclusioni affrettate, è bene notare come le uniche province con un rapporto deficit/Pil accettabile anche à-la-Maastricht siano – a parte i singolarissimi casi di Shanghai e Pechino – lo Zhejiang, il Jiangsu e il Guangdong, vale a dire le tre province con il più alto valore di esportazioni nette. Le tre province non godono di rapporti nominali di allocazione fiscale con il governo centrale diversi da quelli standard, anche se i pesi delle varie voci possono essere diversi da quelli di altre province. È quindi ragionevole supporre che esista una certa relazione tra i più “fiscalmente virtuosi” e il contributo delle esportazioni nette (o bilancia commerciale) all’economia locale. Da analisi preliminari si evidenzia che tale correlazione esiste realmente e, quindi, province con rapporto deficit/Pil più contenuto sono associate a un rapporto tra esportazioni nette e Pil più elevato. Tale relazione è ancora più forte tra il rapporto decifit/Pil e le esportazioni lorde, che per province come Guangdong, Zhejiang e Jiangsu costituiscono rispettivamente il 61, 40 e 33% del Pil provinciale.
Per quanto riguarda l’analisi di insolvenza di un paese, i media (ma anche i dibattiti tra esperti) spesso si concentrano sul rapporto tra debito pubblico e Pil. Da qui gli ormai noti rapporti di 140% per l’Italia, 180% per la Grecia, circa 100% per la Francia e 80% per la virtuosissima Germania. Al contrario della Cina, si spera che queste cifre corrispondano esattamente alla realtà (ma si sa che ciò non sempre è vero) – in ogni caso, prendiamole per tali. La Cina, sin dall’inizio della crisi del 2008 si è sempre vantata di detenere un bassissimo rapporto tra debito pubblico e Pil, che – anche includendo i probabili errori nelle stime del debito dei governi locali – si attesta intorno al 55%. Sembrerebbe dunque più virtuosa della Germania.
Tuttavia, un’analisi della solvibilità di un paese che si basi soltanto sul rapporto tra debito pubblico e Pil rischia di non tenere conto di alcuni fattori importanti. In primis, esistono due errori concettuali fondamentali nell’utilizzo di tale rapporto. Un paese è costituito fondamentalmente da tre entità separate: il governo, le aziende e i cittadini. Nell’usare questo rapporto, si mette al numeratore il debito di una sola di esse (il governo), mentre il denominatore è il valore prodotto da tutte e tre le entità. Il modo più corretto è quindi utilizzare il debito globale del paese (debito pubblico + debiti aziendali + debiti dei cittadini) diviso per il Pil. Il secondo errore riguarda il fatto che il debito va ripagato in cash, alla scadenza, mentre il Pil è un valore prodotto ma non si può “vendere” per monetizzarlo. Quindi qualsiasi rapporto tra debito e Pil pecca di “liquidity consistency”: si calcola cioè il rapporto tra un debito in cash e un credito (il Pil). In altre parole, qualunque sia il rapporto debito/Pil, esso non può essere usato per valutare la solvibilità di un paese. Sarebbe meglio, per esempio, usare il rapporto debito/tax revenue. Ci sarebbe anche da correggere il debito, sottraendo il valore delle attività di un paese anche dal debito netto e non lordo di un paese per comprenderne appieno il grado di solvibilità. Picketty ne discute a fondo nel suo recente libro. Ciò posto, cerchiamo di correggere almeno uno dei due errori e utilizziamo il rapporto tra debito globale del paese e Pil. La Figura 2, frutto di un lavoro del McKinsey Global Institute, confronta il rapporto debito globale nazionale/ Pil della Cina e di cinque paesi europei. Nel grafico si evidenziano anche le tre componenti, una delle quali – il debito aziendale – è a sua volta scomposta in debito di aziende finanziarie e aziende non finanziarie. Si nota come la Cina, virtuosa sulla barra blu (debito del governo al 55% del Pil), si attesti a un valore di 282% sommando le altre due componenti, vicino a quello registrato dalla Grecia (320%) e dall’Italia (335%). Valori molto pericolosi, tanto più che il rapporto era 215% nel 2011 e 170% nel 2008.
In finanza, si parla spesso di de-leveraging. Anche in questo caso si tratta di un termine spesso frainteso, ma con un significato molto semplice: trasferire il debito da dove è più abbondante a dove lo è di meno. In Cina, se dovesse esserci una crisi del debito, basta guardare la barra più piccola (quella grigia) per intuire chi dovrà pagare il conto degli ultimi sette anni di stimoli e investimenti non sempre produttivi.
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