Storia di un partito dimenticato: il Partai Komunis Indonesia a oltre cent’anni dalla sua fondazione

Le celebrazioni per il centenario di un partito politico possono svolgere, in base alle specificità e alle fortune dello stesso, funzioni assai diverse: in alcuni casi e Paesi diventano mera propaganda, in altri ripensamento e analisi storica, in altri ancora motivo di vergogna, raramente ci si trova di fronte a un processo di intenzionale rimozione in patria e di scarsissima attenzione all’estero. Il più vecchio partito comunista dell’Asia fuori dai confini della Russia zarista, quello indonesiano, è una di quelle eccezioni, non in quanto completamente dimenticato ma poiché, almeno per quanto riguarda la Repubblica di Indonesia, la sua memoria è usata da oltre cinquant’anni come spauracchio evocato ogniqualvolta qualsiasi forma di pensiero critico tenta di far breccia nell’arcipelago[1].

La nascita del movimento comunista indonesiano

Il 23 maggio del 1920 veniva fondata l’Associazione comunista delle Indie Orientali olandesi che avrebbe cambiato nome l’anno successivo in Partai Komunis Indonesia (PKI). Il PKI non nasceva certo dal nulla[2], ma da quasi un ventennio di diffusione del pensiero socialista nell’arcipelago da parte di uno sparuto gruppo di olandesi che, nel 1914, aveva creato la prima associazione di sinistra a Giava, insieme a un’unione sindacale dei lavoratori delle ferrovie. Uno dei principali agitatori del sindacato era Henk Snevlieet, comunista olandese che perderà la vita nella resistenza ai nazisti[3]. Almeno nella fase iniziale, l’associazione, guidata dallo stesso Snevlieet, aveva come base pochi intellettuali eurasiatici e pochissimi indonesiani che avevano avuto la possibilità di studiare all’estero. Solo successivamente, grazie soprattutto alla capacità di infiltrazione nei sindacati islamici, i gruppi di sinistra iniziarono ad avere un seguito tra quell’embrionale classe operaia che si era formata nell’arcipelago. Il carattere rivoluzionario di tali gruppi li rese invisi non solo ai dominatori coloniali, ma anche a una parte importante del nascente movimento nazionalista.

Il rapporto dei comunisti indonesiani con le altre principali forze politiche fu contraddittorio fin dall’inizio. Il pensiero islamico, con la miriade di associazioni a esso ispirate, rappresentava nei primi decenni del Novecento un punto di riferimento obbligato per chiunque avesse intenzione di avviare un discorso di opposizione al colonialismo in Indonesia. Nel 1909 era nata la prima associazione sindacale con chiara matrice islamica, la Sarekat Islam (Lega musulmana), con l’obiettivo iniziale di proteggere gli interessi dei commercianti musulmani dall’eccessivo potere di quelli cinesi ed eurasiatici. In seguito, tale forma germinale di sindacato assunse un carattere quasi classista allargando le lotte ai contadini e ai lavoratori delle fabbriche e dei trasporti. Esattamente per questi motivi, i primi socialisti indonesiani decisero di infiltrarsi all’interno di queste organizzazioni che per forza di cose avevano un seguito maggiore. Semaun, il primo presidente del PKI, si rese protagonista nella creazione all’interno della Sarekat Islam, di una sezione fortemente comunista che fino alla sua espulsione organizzò scioperi violentissimi, soprattutto a Giava[4].

Elemento caratterizzante del pensiero marxista indonesiano fu, fin dall’inizio, l’alternarsi di una concezione radicale volta a uno scontro diretto e autonomo contro le forze coloniali con una posizione che può essere ricompresa all’interno delle teorie dei fronti unitari sviluppatesi sia in Asia sia in Europa nel periodo tra le due guerre[5].

La crescita dell’organizzazione, in un periodo di forte crisi economica, portò i dirigenti di metà anni Venti a una decisione pagata successivamente a caro prezzo. Tra il dicembre del 1926 e il gennaio del 1927, dopo una lunga discussione svoltasi ai piedi del tempio induista del Prambanan a Yogyakarta, il PKI si sollevò contro il dominio coloniale olandese. Tale decisione, in contrasto con il volere di Mosca e in contemporanea con altre disfatte in Asia, come ad esempio il massacro dei comunisti cinesi a Shanghai a opera del braccio militare del Guomindang nell’aprile del 1927, determinò la prima sconfitta del movimento comunista nell’arcipelago e lo sviluppo di una piccola forza sotterranea costretta a trincerarsi e ad aspettare momenti più propizi per risorgere. Migliaia di comunisti furono imprigionati, altri costretti all’esilio, altri ancora trovarono la morte. Inoltre, in seguito a tale repressione, il PKI perse la guida del movimento indipendentista indonesiano a favore dei nazionalisti[6].

Dalla rinascita all’affermazione degli anni Sessanta

Allo stesso modo il partito rivide la luce alla fine della Seconda guerra mondiale, durante i concitati giorni della rivoluzione, ponendosi inizialmente all’interno delle forze unitarie della Repubblica e trovandosi di nuovo sconfitto e schiacciato nel 1948 a Madiun[7], questa volta dall’esercito indonesiano, non appena si trovò ad appoggiare lo scontento di alcune milizie che propendevano per la promozione di una lotta più improntata alla creazione di uno stato comunista[8].

Dalla sua ennesima rinascita nel 1951, sotto la guida di un giovanissimo gruppo dirigente formato da Aidit e altri, la strategia e la tattica del partito furono improntante a una via parlamentare, legalitaria e indirizzata a raggiungere il massimo numero di iscritti[9]. Tale approccio portò il partito ad allontanarsi da un’impostazione classista di stampo ortodosso e basata sull’esaltazione maoista del ruolo dei contadini, per poi naufragare lentamente nei meandri del “Fronte nazionale indonesiano” creato da Sukarno, il primo presidente dell’Indonesia indipendente. La ricerca continua dell’appoggio delle forze laiche e nazionaliste dell’arcipelago, considerate parte di quella borghesia nazionale rivoluzionaria da contrapporre alle forze musulmane conniventi con il capitalismo internazionale, diede la possibilità al PKI di rafforzarsi numericamente e diffondersi tra le élite educate delle città e in parte tra i contadini, seguendo tuttavia più le linee dei vecchi rapporti di potere presenti nel substrato etnico e culturale del Paese anziché un’impostazione della lotta di classe di matrice sovietica o maoista[10].

A ciò si aggiunse la consapevolezza della necessità di trovare protezione all’interno dell’establishment di Giacarta in quanto le grandi masse che si cercava di politicizzare non permettevano ancora la fiducia in una reale mobilitazione in caso di necessità. Per questo il partito si andò allineando sempre più sulle posizioni del presidente, interpretate come coerenti con la lotta anticoloniale e per il socialismo, oltre che tendenzialmente sempre più allineate con Pechino[11]. Almeno dal 1951, dunque, la lotta dei comunisti fu per la vittoria all’interno dello stato nazionale indonesiano più che contro di esso e per il prosieguo di quella rivoluzione iniziata anni prima e mai completata. A tal fine si sviluppò un’organizzazione capillare che comprendeva i settori più disparati e puntava precipuamente sull’educazione, la cultura e il dibattito politico[12].

Ciononostante, parziali o brevi tentativi di lotte maggiormente improntate a uno scontro di classe furono messi in campo in svariate occasioni, sia nel 1960 in uno dei tanti apici dello scontro con l’esercito ultraconservatore e filooccidentale, sia nel caso delle “azioni unilaterali” legate a una reale applicazione di una riforma agraria soltanto propagandata dal governo e mai attuata. Fu indubbiamente in questi momenti che il partito diede per la prima volta prova della sua incapacità di gestire i quadri regionali in una ferrea disciplina. Infatti, quando alla fine del 1964, su richiesta di Sukarno, il comitato centrale cercò di porre fine alle azioni per la riforma agraria, molti esponenti a livello locale disobbedirono agli ordini delle alte sfere di Giacarta[13].

Malgrado la presenza di tali aspetti, l’ascesa dei comunisti sembrava irrefrenabile. La linea seguita in questa fase portò, almeno momentaneamente, i suoi frutti. Nel 1965 il PKI propagandava di avere 3,5 milioni di iscritti e più di 20 milioni di simpatizzanti affiliati alle varie organizzazioni a esso legate, risultando il movimento comunista più numeroso al mondo dopo quelli di Cina popolare e Unione Sovietica (URSS). Inoltre, in caso di possibili elezioni le forze a esso ostili paventavano un risultato dell’oltre il 25%, proiettando il PKI come prima forza elettorale del Paese. Tale avanzamento era legato a svariati aspetti. Innanzitutto, alle grandi capacità organizzative, ma va sottolineato come, in un Paese perennemente afflitto dalla corruzione, fosse visto come un gruppo dai sani principi, improntato a una ferrea disciplina e immune da tali scandali. A ciò vanno aggiunte le continue richieste comuniste relative all’ottenimento di maggiori tutele e diritti per i lavoratori, all’aumento del salario e ad altre conquiste sociali che facilmente facevano breccia in un popolo affamato.

Questa continua affermazione sia in termini numerici sia di peso politico nei nuovi organismi rappresentativi portò gradualmente il PKI a radicalizzare il linguaggio politico e ad aumentare l’offensiva interna, arrivando a chiedere l’armamento di milioni di operai e contadini. Contemporaneamente, il capo del Comitato centrale D.N. Aidit organizzò una cellula segreta indipendente dal partito con il compito di infiltrarsi nelle Forze armate, monitorarne le attività e stabilire un piano di azione nel caso la situazione si fosse fatta pericolosa[14].

Tali azioni furono il risultato della situazione politica indonesiana di metà anni Sessanta. Il fragile equilibrio creatosi tra le tre principali forze politiche del Paese stava per rompersi irrimediabilmente. Il perno di quella apparente armonia tra nazionalismo, religione e socialismo era Sukarno, le cui condizioni di salute destavano preoccupazioni in tutti i gruppi circa la sua successione. All’interno dell’Esercito, l’ala conservatrice stava preparando da tempo le proprie contromisure, oltre a cercare un pretesto per attaccare i comunisti e prendere il potere. Questi ultimi, all’apice del consenso ma privi di una qualsivoglia organizzazione militare, cercavano confusamente alleati tra i soldati progressisti. Sia le potenze occidentali sia il governo di Pechino tentavano in tutti i modi di interferire nella vita politica del Paese. Tale clima di tensione stava per concludere una delle partite più importanti della Guerra fredda in Asia[15].

Il “Movimento 30 Settembre”, la caduta politica e il massacro

Il 1965, che sembrava poter essere il momento di maggior forza per i comunisti indonesiani, al punto da far temere al mondo occidentale la perdita definitiva dell’Indonesia al socialismo, fu segnato invece dall’ultima, più tragica e definitiva sconfitta del PKI dopo quelle del 1926 e del 1948. La notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre di quel fatidico 1965, un gruppo di militari progressisti, autoproclamatosi “Movimento 30 settembre”, rapì sette generali dell’Alto comando dell’Esercito e, successivamente, ne uccise sei, dichiarando di agire per proteggere il presidente Sukarno e l’Indonesia stessa da un possibile colpo di stato militare appoggiato dalla CIA. Questo maldestro tentativo di spostare gli equilibri della politica indonesiana terminò nell’arco di ventiquattro ore con la sconfitta di tale gruppo e con l’ascesa del generale Suharto che governerà il Paese fino al 1998. Nei giorni successivi lo stesso Suharto, appoggiato dalla frangia più conservatrice dell’esercito e dalle forze religiose, oltre che dal mondo occidentale, accuserà senza prova alcuna il PKI di essere il vero artefice del golpe[16]. In seguito a tale accusa si avvierà nell’arcipelago una vera e propria caccia all’uomo che porterà all’uccisione di oltre cinquecentomila persone e all’imprigionamento di diversi milioni di indonesiani, rei di essere membri o simpatizzanti del PKI ma che nessuna parte avevano avuto nel presunto colpo di stato[17].

A seguito di quello che è stato definito il più grande massacro della seconda metà del Novecento, il generale Suharto esautorerà Sukarno, salirà al potere per i successivi trentadue anni e bandirà il PKI e il pensiero comunista dall’Indonesia. La vittoria dei militari porterà all’apertura del Paese al libero mercato, a un suo riallineamento nel campo occidentale e allo sviluppo di un regime clientelare e repressivo che favorirà soltanto l’entourage di Suharto. Inoltre, lo schema seguito dall’esercito indonesiano – sotto l’egida statunitense[18] – diventerà il modello per tanti altri colpi militari nel resto del mondo, uno su tutti quello cileno del 1973[19]. Tentare di interpretare questi eventi nebulosi è stata l’ossessione di tantissimi storici negli ultimi cinquant’anni, ma senza l’apertura degli archivi indonesiani e con una classe dirigente reticente, in quanto ancora legata al vecchio regime, appare praticamente impossibile dare una spiegazione totalmente accettata.

Non è compito di questo articolo addentrarsi nell’analisi delle varie spiegazioni date agli eventi; tuttavia, è possibile fornire una ricostruzione solo approssimativa, almeno finché non si avranno nuove fonti. Una parte della dirigenza del PKI, terrorizzata dalle conseguenze di una possibile morte di Sukarno e dalle ingerenze occidentali, tentò di allearsi con un gruppo di militari progressisti per spostare gli equilibri politici del Paese e prevenire un colpo di stato conservatore attraverso il rapimento dei generali. La mancanza di coordinamento tra queste due forze portò al fallimento dell’azione e offrì un pretesto all’ala conservatrice dell’esercito per compiere quel piano di conquista del potere preparato da tempo con l’appoggio statunitense[20]. I militari avviarono un programma genocidiale volto a estirpare completamente dall’Indonesia non solo il PKI, ma anche l’intera sinistra indonesiana con tutto il suo bagaglio di pensiero critico[21].

Il PKI tra eredità e memoria

Dal 1966 il PKI è sopravissuto per qualche tempo in esilio con l’appoggio finanziario delle due principali potenze socialiste, la Cina popolare e l’URSS, soffrendo anch’esso la scissione di quel campo. Entrambi i gruppi elaborarono documenti di autocritica e di accusa alla vecchia dirigenza per non aver saputo portare avanti un programma serio per la conquista del potere, rinnegando in parte le caratteristiche peculiari del pensiero marxista indonesiano[22]. Ormai, per motivi biologici e politici, quel PKI è seppellito da tempo. Cinquant’anni di dura repressione e la paura anche solo di raccontare il passato da parte dei sopravvissuti alle giovani generazioni hanno fatto sì che si sia perso il ricordo di un enorme partito impegnato in tanti campi, ma spazzato via dalla storia.

Ciononostante, nel trentennio di regime del “Nuovo Ordine” (Orde Baru) tanti movimenti giovanili ebbero memoria delle pratiche sviluppate dai comunisti precedentemente, ma la utilizzarono inconsapevolmente e senza capacità di analisi. Alla teoria elaborata dall’Esercito della “massa fluttuante”, ovvero l’allontanamento dei cittadini indonesiani dalla politica attiva e il loro fungere da meri soggetti economici per lo sviluppo, si contrapposero le aksi (azioni), gli scioperi, l’organizzazione dal basso per la costruzione di reti sociali indipendenti, eredità delle lotte sociali degli anni Cinquanta e Sessanta. L’evolversi di queste lotte, insieme alla crisi finanziaria asiatica del 1997-1998, portò alla caduta del regime di Suharto il 21 maggio 1998[23]. L’entusiasmo per il ritorno alla democrazia non è però bastato ad avviare un recupero della memoria storica del PKI e l’anticomunismo è ancora un elemento fondante della società indonesiana.

In Italia, in Europa e nel resto del mondo si ha ben poco ricordo dei comunisti dell’arcipelago e le motivazioni possono essere tante: una visione eurocentrica della storia, un semplice disinteresse per Paesi lontani decine di migliaia di chilometri da noi, oppure, più semplicemente, la capacità delle forze vincitrici all’epoca dello scontro di non attirare troppa attenzione su centinaia di migliaia di morti in un Paese dove era possibile trarre enormi profitti ed estrarre materie prime a basso costo.

A oltre cento anni dalla sua fondazione e cinquanta dalla sua definitiva sconfitta, risulta doveroso conservare la memoria storica di un partito che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale, politico e sociale dell’arcipelago. Probabilmente esso è già sorto, o sorgerà di nuovo, in altra veste, con differenti metodi di lotta e una diversa terminologia attraverso il movimento operaio, quello studentesco o le organizzazioni non governative che lottano per le questioni ambientali, ma non è consentito dimenticarlo tanto in Indonesia quanto nel resto del mondo.


[1] Heryanto, A. (1999), “Where Communism Never Dies”, Internationl Journal of Cultural Studies, Vol. 2(2), pp. 147–177.

[2] McVey, R.T. (1965), The Rise of Indonesian Communism, Giacarta: Equinox Publishing, p. 44.

[3] Williams, M. (1980), “Sneevliet and the Birth of Asian Communism”, New Left Review, n. 123, pp. 85–86.

[4] McVey, op. cit.

[5] Cribb, R. (1985), “The Indonesian Marxist Tradition”, in Mackerras, C., e Knight, N. (a cura di), Marxism in Asia, Londra: Croom Helm, pp. 251–272.

[6] Ricklefs, M.C. (2001, III edizione), A History of Modern Indonesia since c. 1300, Stanford; CA: Stanford University Press; McVey, op. cit.

[7] Swift, A. (1989), The Road to Madiun: The Indonesian Communist Uprising of 1948, Ithaca; NY: Cornell University Press.

[8] Kahin, G.McT. (1952), Nationalism and Revolution in Indonesia, Ithaca, NY: Cornell University Press.

[9] Hindley, D. (1966), The Communist Party of Indonesia, 195163, Berkeley; CA: University of California Press.

[10] Mortimer, R. (1974), Indonesian Communism under Sukarno, Ithaca; NY: Cornell University Press.

[11] Roosa, J. (2017), “Indonesian Communism: The Perils of the Parliamentary Path”, in Naimak, N., et al. (a cura di), The Cambridge History of Communism, Part 2, pp. 467–490, Londra: Cambridge University Press.

[12] Mortimer, R. (1969), “Class, Social Cleavage and Indonesian Communism”, South East Asia Program Publications, n. 8, pp. 1–20.

[13] Mortimer, R. (1969), “The Dawnfall of Indonesian Communism”, The Socialist Registrer, Vol. 6, pp. 189–217.

[14] Roosa, J. (2006), Pretext for Mass Murder: The September 30th Movement and Suharto’s Coup d’État in Indonesia, Madison; WI: University of Wisconsin Press.

[15] Robinson, G.B. (2018), The Killing Season: A History of the Indonesian Massacres, 196566, Princeton; NJ: Princeton University Press.

[16] Hadi, K., et al. (a cura di) (2017), Kronik ’65: Catatan Hari Per Hari Peristiwa G30S Sebelum Hingga Setelahnya (19631971), Yogyakarta: Media Pressindo.

[17] Cribb, R. (2002), “Unresolved Problems in the Indonesian Killings of 1965–1966”, Asian Survey, Vol. 42(4), pp. 550–563.

[19] Bevins, V. (2020)The Jakarta Method: Washington’s Anticommunist Crusade and the Mass Murder Program that Shaped our World, New York: Public Affairs.

[20] Roosa, Pretext for Mass…

[21] Melvin, J. (2018), The Army and the Indonesian Genocide: Mechanics of Mass Murder, Abingdon: Routledge.

[22] Cribb, “The Indonesian Marxism…”, pp. 251–272.

[23] Lane, M. (2008), Unfinished Nation: Indonesia before and after Suharto, Londra: Verso.


 

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