Le elezioni presidenziali e parlamentari svoltesi a Taiwan a gennaio hanno segnato l’avvio del lungo ciclo elettorale (o, quantomeno, di rinnovo della leadership) globale che ci attende in questo 2012. La robusta conferma dell’uscente presidente Ma Ying-jeou per un secondo mandato contribuisce a porre le basi per un nuovo quadriennio di distensione tra le due sponde dello Stretto di Taiwan nell’anno in cui ricorre il centenario dalla fondazione della Repubblica di Cina, dopo il crollo della dinastia Qing (1644-1912).
L’attenzione si sposta ora su altre competizioni elettorali determinanti per i futuri assetti globali e per gli equilibri dell’Asia orientale in particolare: Russia (marzo), Iran (marzo), Myanmar (aprile), Grecia (aprile), Francia (aprile-giugno), Cina (autunno) Stati Uniti (novembre) Corea del Sud (aprile e dicembre). In particolare, entro la fine dell’anno si riunirà a Pechino il 18° Congresso del Partito comunista cinese (Pcc), l’istituzione che dal 1949 detiene il monopolio del potere politico e militare nella Repubblica popolare cinese (Rpc).
Benché il condizionale resti d’obbligo, essendo quello cinese un regime autoritario caratterizzato da eccezionale opacità quanto ai meccanismi decisionali interni, l’attesa è per un rinnovamento importante dei leader chiamati a ricoprire le posizioni apicali. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso si è instaurata una prassi di progressiva istituzionalizzazione dei processi di selezione della dirigenza cinese, che ha inciso profondamente sull’approccio tradizionale a trazione clientelare (o, meglio, centrato sull’intersezione tra sensibilità ideologiche e 关系, guanxi, le reti di relazioni inter-personali e clanico-familiari su cui si fonda la società cinese).
Se le dinamiche cui si è assistito in occasione del XVI e XVII Congresso del Pcc (nel 2002 e 2007) rimarranno valide, i leader di età superiore ai 68 anni dovranno uscire di scena. Nel novero degli uscenti figurano, in ordine gerarchico, il presidente della Rpc e segretario generale del partito (Hu Jintao) e i vertici dell’Assemblea popolare nazionale (Wu Bangguo), del Consiglio di Stato (Wen Jiabao) e della Conferenza consultiva politica del Popolo cinese (Jia Qinglin).
Complessivamente, dovrebbero essere sostituiti sette dei nove membri del Comitato permanente del Politburo, il supremo organo decisionale del partito e, di conseguenza, della Rpc. Allargando lo sguardo all’intero Politburo, sono 14 su 25 i leader che supereranno i limiti di età. Le decisioni prese nell’ultimo biennio durante le sessioni plenarie annuali del Comitato centrale del Pcc – tra le cui fila sono scelti i membri dei due più ristretti organi sopra citati – indicano che la successione è in pieno svolgimento. Essa è destinata ad essere pilotata a monte del prossimo Congresso, che tende a ratificare equilibri definiti in anticipo dalle varie anime del partito, pur potendo introdurre “variazioni sul tema”.
Dopo la scomparsa di Deng Xiaoping, unico timoniere de facto della Rpc tra il 1978 e il 1992, il Pcc non è più dominato da un soggetto capace di concentrare in sé il ruolo di decisore di ultima istanza, come era già avvenuto con Mao Zedong prima dello stesso Deng. Benché detentore della triplice carica di segretario generale del Pcc, presidente della Rpc e presidente della Commissione militare centrale, infatti, l’attuale Capo di Stato Hu Jintao va considerato un primus inter pares, punto di equilibrio tra le anime eterogenee che coesistono nel Pcc.
È questa una caratteristica strutturale del partito, che sin dalla sua origine è diviso in fazioni (in lingua cinese “partito” si traduce con 党, dang, che significa anche “fazione”). Le riforme economiche introdotte da Deng dopo la fase acuta della collettivizzazione autarchica di matrice maoista hanno portato a una proliferazione delle fazioni, avendo liberato (seppur solo parzialmente) forze di mercato che tendono gradualmente ad alterare la struttura degli incentivi nella società cinese. L’economia di mercato, per quanto nella variante “socialista con caratteristiche cinesi” contemplata dal vocabolario ufficiale del Pcc fin dal XIV Congresso del 1992, non può che estendere anche alla Cina le logiche di creazione di vincitori e perdenti – anche in senso relativo – tipiche del mercato globale, producendo tensioni prima ignote in una società quasi egualitaria (in epoca maoista il reddito nelle zone urbane era comunque ben superiore rispetto a quello della popolazione rurale). Il coefficiente Gini, usato per misurare il tasso di uguaglianza (0) o disuguaglianza (1) all’interno di una società è passato da 0,16 nel 1978 a 0,47 nel 2010.
La sempre più acuta consapevolezza di tali disuguaglianze ha spinto alcuni leader a farsi interpreti di quelle che vari osservatori considerano come “piattaforme” politiche in competizione, secondo logiche talvolta descritte ottimisticamente come forme prototipiche di “democrazia intra-partitica”. Dalla cacofonia di voci più o meno rappresentative possono essere distillate quattro dialettiche, pur se con lineamenti necessariamente arbitrari.
La prima fa perno sull’estrazione del ceto politico e vede contrapporsi i 团派, tuanpai, leader che provengono dalla base del partito e in particolar modo dalla Lega della Gioventù comunista, ai 太子党, taizidang, i “principi rossi” la cui influenza si fonda sui legami di parentela con alti dirigenti del partito delle generazioni precedenti. Al primo gruppo appartiene Hu Jintao e, tra i potenziali futuri leader, l’attuale vicepremier Li Keqiang; al secondo sono riconducibili Xi Jinping, attuale vicepresidente della Rpc e accreditato come erede di Hu in autunno, e Bo Xilai, l’ambizioso segretario del Pcc per la municipalità di Chongqing. Si tratta di due tipi diversi di leader sia per provenienza geografica – dalle zone interne e più povere della Cina i primi, dalle metropoli costiere i secondi – sia per i legami con i grandi interessi imprenditoriali (maggiori nel caso dei secondi rispetto ai primi).
Una seconda categorizzazione rinvia ai diversi modelli di sviluppo perseguiti dai leader, desumibili da un’analisi delle loro politiche. In questo caso gli allineamenti si modificano: Li Keqiang e Bo Xilai vengono a trovarsi insieme su un fronte diverso rispetto, ad esempio, a Wang Yang, segretario del Pcc per la provincia del Guandong. Sia Li che Bo vogliono ridurre l’enfasi sulla crescita per dare maggior spazio a politiche redistributive: il primo, in quanto di fatto “premier in prova”, sta incontrando difficoltà a introdurre programmi nazionali di edilizia popolare, riforma del sistema sanitario e maggiore sicurezza alimentare (ciò potrebbe peraltro pregiudicarne la successione a Wen Jiabao). Bo Xilai, in evidente competizione con Li, propone la municipalità di Chongqing come città-modello per la costruzione di un sistema di welfare a protezione dei cittadini, con frequenti richiami retorici a principi e slogan dell’epoca maoista. Su una piattaforma molto diversa, indipendentemente dal suo provenire dalle file della Lega della Gioventù comunista, si muove Wang Yang, per il quale la crescita economica sostenuta rimane punto di partenza insostituibile per qualsiasi sforzo redistributivo. La sua politica di “svuotare la gabbia per far spazio a nuovi uccelli” (騰籠換鳥, teng long huan niao), secondo un vecchio detto popolare, punta a riqualificare il tessuto industriale della provincia trasferendo le fabbriche a minor valore aggiunto nell’entroterra, e sostituendole con produzioni più avanzate e servizi nelle zone costiere più sviluppate. Su una lunghezza d’onda analoga è Wang Qishan, vicepremier riconducibile al gruppo dei taizidang, il quale rimane la voce più autorevole (seppur piuttosto isolata) a favore di una prosecuzione delle riforme economiche a livello centrale, specialmente in campo finanziario.
C’è poi una terza categorizzazione possibile dei leader in lizza per le posizioni di vertice nella Cina post-2012. Le posizioni di cui sopra sono talora ricondotte a uno spettro politico-ideologico per certi versi speculare rispetto a quello occidentale. Nel caso dei dibattiti sulla politica estera quanti si collocano sull’estrema sinistra (noti come “nuova sinistra”, “neo-maoisti”…) sono sì propugnatori di politiche redistributive, ma anche di una politica più assertiva nei confronti dell’Occidente – secondo la prima tradizione maoista – e propensa a coltivare alleati “tradizionali”, come Corea del Nord e Pakistan. Sull’estremo opposto (la “nuova destra”, i “neo-liberali”…) si collocano quanti sostengono che la Cina deve continuare a integrarsi nel sistema economicofinanziario globale, cooperando con le istituzioni internazionali e i principali stakeholders dell’ordine internazionale. Un terzo raggruppamento, descritto come “neo-confuciani”, trae ispirazione dai valori tradizionali della cultura cinese, con una propensione a interpretarli in senso patriottico o a immaginarne una universalizzazione oltre i confini dell’universo culturale “sinico”.
Infine, una quarta dialettica tra i diversi attori della transizione di potere a Pechino verte sulle priorità determinate dalla burocrazia del Pcc, la quale è plasmata nel medio periodo come funzione del consenso raggiunto dai principali leader sugli obiettivi fondamentali da perseguire. In quest’ottica ai “riformisti” (come Wang Qishan, o i vertici della Banca centrale), che sono un gruppo minoritario, si contrappone una coalizione trasversale ben più forte di tutori della stabilità, secondo la parola d’ordine della “società armoniosa” che ha caratterizzato il doppio mandato quinquennale di Hu Jintao e Wen Jiabao. L’influenza crescente di apparati come il Dipartimento della propaganda e l’articolato sistema di sicurezza interna (ma anche la crescente visibilità dell’Armata popolare di liberazione) testimoniano la netta predominanza dei fautori della stabilità. è quindi molto probabile che anche dopo un primo biennio di assestamento (2012-2014), i nuovi leader della Rpc – chiunque essi siano – continueranno ad operare in un contesto politico ben poco favorevole a incisive riforme economiche o politiche.
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