In occasione del quarantennale della morte di Mao, sul sito Foreign Policy è comparso un articolo dal titolo provocatorio: “Mio nonno è sopravvissuto alla Rivoluzione culturale. Perché ama ancora Mao?” È scritto da un giovane cinese che studia all’università di Yale, negli Stati Uniti, ed esemplifica perfettamente il gap generazionale e la cesura epocale tra la Cina di ieri e di oggi: da un lato il nonno ottantaseienne che “ancora ama Mao”, dall’altro il jiulinghou (nato negli anni Novanta) futuro probabile haigui (rimpatriato) che studia all’estero per poi, magari, rientrare in Cina e spendere le proprie competenze in un lavoro possibilmente redditizio. Figlio di una storia travagliata, dolorosa, ma anche gloriosa, il primo; figlio unico, oggetto delle attenzioni morbose di due generazioni alle sue spalle e beneficiario degli investimenti familiari, il secondo.
Il giovane Dong Yifu racconta che “nonno Yao”, preside di una scuola nella provincia del Liaoning, fu ripetutamente picchiato durante “l’agosto rosso” del 1966, umiliato, spedito in campagna a rieducarsi, picchiato di nuovo. Ancora oggi ne porta gli acciacchi. Tuttavia, mentre racconta di questi momenti sul suo blog, l’arzillo vecchietto scrive anche post celebrativi del Partito mentre canticchia le “canzoni rosse” che innalzano le lodi del presidente Mao. “Perché?”, si chiede il nipote un po’ perplesso.
La risposta sta nel fatto che il nonno, classe 1930, se l’era vista molto più brutta prima, durante l’occupazione giapponese della Manciuria – di cui è originario –, quando era stato costretto a confrontarsi con la miseria, la vita da profugo, la morte dei familiari per malattia e indigenza, e la dittatura nazionalista. Fu lì che nonno Yao decise di diventare comunista. Quell’epoca ha plasmato la sua visione del mondo, che le sofferenze ingiustificate e gli abusi della Rivoluzione culturale non possono cancellare. La sua gratitudine verso Mao e il Partito non è solo quella del cinese che ha riconquistato l’orgoglio di esserlo grazie alla vittoria comunista, ma anche quella del padre che ha visto i figli divenire ceto medio e i nipoti – il giovane Yifu – studiare nelle migliori università del mondo: “Nonno Yao, come molti altri fedeli membri del Partito che hanno sofferto sotto Mao, si rifiuta semplicemente di credere che la causa a cui ha dedicato così tanto si sia rivelata un’illusione. Ritiene, invece, che gli individui – ma non Mao – abbiano sovvertito gli ideali comunisti per accaparrarsi potere e denaro”.
Fin qui un comprensibile atteggiamento del vecchio comunista. Ma attenzione, il giovane non lo liquida, rispetta il nonno e in lui cerca un insegnamento: “Anche le idee in cui crediamo ci possono tradire, se il potere di esercitarle rimane incontrollato e illimitato. Spero che la mia generazione, mano a mano che crescerà gradualmente nei ranghi della leadership, possa ricordare le lezioni dei nostri nonni”. Una chiosa che si presta a diverse interpretazioni: presa di distanza dagli ideali del nonno, parzialmente ammorbidita dall’affetto per lui; la consapevolezza che qualsiasi “idea”, anche quelle in voga oggi – individualismo, competizione e arricchimento – possa fare danni se non è moderata; una critica velata alla leadership di Xi Jinping, quel potere “incontrollato e illimitato”.
Una coppia di giovani amici cinesi si divide sull’interpretazione della Rivoluzione culturale e, più in generale, del passato maoista. La donna, figlia e nipote di militari, è legata anche affettivamente all’immagine di quel Mao nella cui Cina non ha mai vissuto: “Ha fatto grandi cose”. Per lei ha creato Xinhua, la nuova Cina, e ha mantenuto sempre in uno status elevato quell’Esercito popolare di liberazione di cui la sua famiglia fa parte. L’uomo, figlio di intellettuali e “vecchi comunisti” considera invece il Grande timoniere poco meno di un criminale: “Mio nonno ha sofferto tantissimo in quel periodo, mio padre ha dovuto ricominciare da capo”. Ma questo amico è lo stesso che ora magnifica il presidente Xi Jinping, che a molti dispensatori della vulgata occidentale ricorda (erroneamente) proprio Mao Zedong: “Il presidente Xi è quello che ci vuole, un uomo forte”.
Tra di loro preferiscono non parlare di questo passato che li divide e crea una potenziale tensione emotiva. Del resto, la formula coniata da Deng Xiaoping all’inizio degli anni Ottanta per cui l’operato di Mao sarebbe stato “per il 70 per cento buono e per il 30 per cento cattivo” – che si dice sia stata oggi riveduta su un più equilibrato 60-40 nei corridoi del potere – è ecumenica il giusto. Si può scegliere il Mao che si preferisce: il carismatico condottiero che ha sconfitto giapponesi e reazionari creando la Cina contemporanea e dando dignità a milioni di oppressi; o quello che ha messo i cinesi uno contro l’altro e provocato milioni di morti negli eccessi del suo volontarismo rivoluzionario.
In questo atteggiamento, la giovane coppia asseconda perfettamente la versione ufficiale del Partito, che risale al 1981, secondo cui la Rivoluzione culturale “non è stata in nessun modo una rivoluzione o una forma di progresso sociale”. Fu al contrario “un periodo caotico a livello nazionale, erroneamente lanciato da un leader, sfruttato da una cricca contro-rivoluzionaria, che ha arrecato gravi disastri al Partito, al paese e alla gente di tutte le nazionalità”.
Mao ha sbagliato, la Banda dei quattro ha cavalcato l’errore, abbiamo tutti sofferto. Punto. La ricorrenza dello scorso maggio è stata “celebrata” dai media di Stato con un solo, ripetuto messaggio: “La Rivoluzione culturale non tornerà più”.
Queste storie personali ci ricordano soprattutto una cosa: i giovani cinesi, a cui è stata negata la rilettura critica del “decennio di caos” 1966-1976, ne percepiscono echi soprattutto nelle storie familiari e in base a quelle si formano un giudizio. Al tempo stesso hanno colto il messaggio che viene dall’alto: ci sono stati degli errori, ma è fuorviante ritornare sul passato; ora bisogna guardare avanti.
La generazione che salirà al potere dopo l’attuale leadership, presumibilmente nel 2022, è quella di Tian’anmen ’89. Non necessariamente i protagonisti di quella primavera pechinese, naturalmente, ma la generazione che ha vissuto le riforme e le aperture degli anni Ottanta da adolescente, il movimento degli studenti da giovane, il compromesso impostato sulla rinuncia alla politica in cambio del benessere da adulta. Anche in quel futuro prossimo, probabilmente, non assisteremo ad alcuna rilettura critica. La Cina cambierà, come sempre ha fatto nella sua storia recente, attraverso percorsi carsici. Eludendo divisioni e tensioni emotive, come la giovane coppia di Pechino. Rispettando gli antenati, come il giovane studente di Yale. È questa la Cina post-politica nata dalla trasformazione dello stesso Partito comunista, la demaoizzazione nel nome di Mao.
Eppure, fuori dalla versione ufficiale – a cui ben pochi credono, mentre molti non sanno a cosa credere – ci sono alcuni individui legittimati a parlare di quel passato che scotta. Sono ex guardie rosse, ormai tra i 60 e i 70 anni, che la Rivoluzione culturale hanno vissuto in prima persona. Al momento delle ricorrenze dello scorso maggio si sono volentieri lasciati intervistare. Hanno raccontato di come per loro quel 1966 fu allo stesso tempo sia un momento liberatorio – di critica e distruzione di ciò che li opprimeva –, sia una tragedia di cui si resero conto troppo tardi, sulla propria pelle. Sono molto più politici delle generazioni successive, continuano a coltivare la forma mentis di allora, leggono il passato e il presente, scrutano, criticano. Erano così da giovani, sono così oggi, solo più ironici, cinici o distaccati.
Sono potenziali mine vaganti? La sensazione è che non lo siano. Svolgono una funzione catartica e soddisfano le esigenze della stampa occidentale. Servono anch’essi a chiudere con quel passato. Sono figure di un oblio controllato, che lascia trasparire qualcosa senza risvegliare gli spettri del passato.
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