[ThinkINChina] Cina e America Latina: complementarietà o dipendenza?

Nella sua edizione di marzo ThinkInChina – un forum di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea – ha ospitato Matt Ferchen, Professore del Dipartimento di Relazioni internazionali della Qinghua University di Pechino. Ferchen ha presentato i risultati delle sue ricerche, recentemente pubblicate in un articolo sul Chinese Journal of International Politics, sull’analisi dei crescenti flussi di interscambio tra Cina e America Latina, un tema sempre più attuale come dimostrano i numerosi rapporti e studi ad esso dedicati negli ultimi mesi.

La Cina è oggi uno dei principali partner commerciali per la regione latino-americana. Secondo un recente rapporto della Commissione Economica dell’Onu per i paesi dell’America Latina e dei Caraibi (Cepal), Pechino è ormai il primo mercato di sbocco delle esportazioni di Cile e Brasile e il secondo per Argentina, Perù e Cuba.

Secondo alcuni osservatori si tratta di un legame virtuoso, caratterizzato da un rapporto “complementare” da cui tutti traggono beneficio: l’America Latina ricca di risorse naturali fornisce alla Cina le materie prime necessarie al suo sviluppo, in un ciclo positivo di crescita reciproca che garantisce equilibrio e stabilità. Il governo cinese e i suoi think-tank prediligono questa chiave di lettura, inserendola nel quadro della cooperazione “Sud-Sud” tra paesi in via di sviluppo, una relazione equa di natura ben diversa rispetto a quella predatoria che si sottolinea aver spesso caratterizzato i rapporti “Nord-Sud”.

Altri analisti ritengono invece che i rapporti tra Cina e America Latina siano caratterizzati molto più dalla dipendenza tipica dei tradizionali rapporti “Nord-Sud” che dalla complementarietà di cui parla Pechino. Un rapporto così imperniato sulla compravendita di commodities sembrerebbe, infatti, rafforzare quelle distorsioni nel processo di sviluppo dei paesi latinoamericani contro le quali essi stessi hanno lottato negli ultimi decenni.

Sia i teorici della “complementarietà” che quelli della “dipendenza” compiono però, secondo Ferchen, un importante errore analitico: associando la creazione dei legami commerciali con l’America Latina al processo trentennale di riforma economica in Cina – e alla sete di risorse che ne deriva – tendono ad attribuire a questo rapporto una longevità e una solidità improprie. Nell’analisi di Ferchen, infatti, se è vero che il rapporto tra Cina e America Latina si fonda ormai principalmente sull’acquisto di commodities da parte di Pechino, un’attenta osservazione dei dati (Figura 1) consente di notare come questo processo abbia avuto origine tra il 2001 e il 2003 e non con l’avvio della riforma denghista alla fine degli anni ’70 del secolo scorso.

Per Ferchen il big-bang deriva dalla svolta compiuta dall’economia cinese intorno al 2000, con il passaggio da un modello di crescita industriale fondato sull’industria leggera a bassa intensità di capitale, inaugurato all’inizio dalla riforma denghista, a un modello basato sull’industria pesante bisognosa di capitali, energia e commodities.

Come mostra uno studio realizzato nel 2007 da Daniel H. Rosen e Trevor Houser, se tra l’inizio della riforma economica e il 2001 il Pil cinese cresceva ad una media del 9% annuo e la richiesta di energia cresceva del 4% l’anno, dal 2001 si verificò un picco improvviso del 13% nella crescita della domanda di energia, un segnale chiaro della svolta industriale in corso in Cina.

Questa svolta, secondo Ferchen, non fu il prodotto di una scelta precisa da parte del governo ma il risultato di una “tempesta perfetta” creata da una combinazione di andamenti del mercato e politiche governative. A livello macroeconomico la combinazione tra bassi tassi di interesse e alti livelli di risparmio nel settore corporate crearono un’enorme disponibilità di capitali, soprattutto nelle aziende di stato, per investimenti che furono riversati nell’industria pesante. Questo processo fu ulteriormente favorito dai sussidi forniti dalle amministrazioni provinciali cinesi per attrarre investimenti e aumentare i tassi locali di sviluppo. Come spiega lo studio appena citato, questa combinazione di fattori provocò un’impennata nei margini di profitto dell’industria pesante che da quasi zero alla fine degli anni ’90 salirono al 4-7% in settori come l’acciaio, il vetro o il cemento, superando di molto quelli garantiti dai settori dell’industria leggera.

Ferchen individua dunque le origini della crescita dell’export di commodities dei paesi sudamericani nel boom dell’industria pesante in Cina avviatosi all’inizio dello scorso decennio e promosso dagli investimenti statali nelle infrastrutture. I nuovi investimenti infrastrutturali e le iniezioni di liquidità, compresi nel pacchetto di stimolo all’economia promosso dal governo cinese in risposta alla crisi finanziaria del 2008, hanno rafforzato questo meccanismo e approfondito ulteriormente il legame tra Pechino e l’America Latina.

Questo legame, sottolinea Ferchen, rischia di diventare insidioso per i paesi latinoamericani nel momento in cui i settori dell’economia cinese trainanti per la richiesta di commodities, come quello dell’acciaio o dell’edilizia, potrebbero essere esposti a correzioni imposte dal mercato o da interventi di riforma da parte del governo.

Se nei paesi dell’America Latina le allettanti prospettive di crescita promesse dal mercato cinese sembrano offuscare i rischi rilevati da Ferchen, in Cina, sia a livello accademico che a livello governativo, sembra esservi maggiore consapevolezza di questi squilibri. La creazione di un rapporto economico più equilibrato con i paesi dell’America Latina rientra nell’obiettivo di Pechino, recentemente espresso dal Comitato centrale del partito nell’ambito della formulazione del 12° piano quinquennale, per la creazione di una ‘comunità di interessi’ con le diverse aree del mondo, un obiettivo che dovrebbe ispirare la nuova politica cinese nel prossimo decennio.

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