Il 30 novembre scorso, ThinkINchina ha ospitato il Professor Zhang Jian della School of Government dell’Università di Pechino per discutere di nazionalismo in Cina, un tema esplosivo che è al centro del dibattito sulla Cina contemporanea sia all’interno del Paese che all’estero.
Un dibattito acceso, che prende spesso direzioni diverse a seconda dei contesti all’interno dei quali si svolge. In Occidente, ad esempio, il doloroso ricordo dei nazionalismi bellicosi del XX secolo, unito ai dubbi sul futuro ruolo della nuova potenza cinese, tende a concentrare il dibattito sul potenziale aggressivo del nazionalismo cinese e sulle sue pulsioni revisioniste nei confronti di un sistema internazionale dominato dalle potenze occidentali. In Cina, invece, emerge più spesso una prospettiva “interna” che punta a individuare le origini e i tratti distintivi del concetto di nazione cinese: ricerca complessa, date le profonde trasformazioni causate dall’impetuoso sviluppo economico e dall’integrazione del paese nel sistema internazionale.
Zhang Jian condivide questa seconda prospettiva e presenta il concetto di nazionalismo cinese come una categoria prettamente contemporanea. Zhang sostiene che la storia dinastica della Cina non offre alcuna precisa nozione di Stato cinese: essere cinese significava in epoca imperiale semplicemente essere “suddito” della dinastia al potere. Secondo Zhang, dunque, la nozione di Stato in senso westphaliano e il concetto di nazionalismo ad essa associato sono da considerarsi per lo più un prodotto dell’era repubblicana (1912-1949). È in quest’epoca che emerge il nazionalismo moderno cinese, di matrice multi-etnica o, meglio, post-etnica, in quanto, a differenza dei nazionalismi tibetano o uiguro che ad esso si contrappongono, non fa alcun riferimento all’appartenenza etnica.
Secondo Zhang il Partito comunista cinese (Pcc) rappresenta la massima manifestazione di questo moderno concetto di nazionalismo multi-etnico poiché mira alla creazione di una nuova nazione cinese che includa tutte le nazionalità in un progetto di fedeltà alla Repubblica popolare. Secondo quest’ottica, condivisa peraltro dalla maggior parte degli studiosi, il nazionalismo cinese è anzitutto un “nazionalismo di stato”. Sin dalla fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949 il Partito comunista ha derivato gran parte della sua legittimazione dalle sue credenziali nazionaliste, ossia dalla sua capacità di ridare dignità, attraverso la rivoluzione, all’identità nazionale del Paese, chiudendo definitivamente il secolo di umiliazione (bainian chiru) segnato dall’oppressione da parte delle potenze imperialiste.
I danni economici e sociali creati dal Grande balzo in avanti prima (1957-61) e dalla Rivoluzione Culturale poi (1966- 1976) interruppero questo percorso e misero in crisi la legittimità del Partito. Le riforme economiche d Deng Xiaoping avviate alla fine degli anni „70 cercavano di rispondere a questa crisi di legittimità. L’apertura al mercato, implicando la collaborazione con l’Occidente, impose al Partito di trasformare il suo nazionalismo antagonista – anti-sistemico e anti-occidentale – in un nazionalismo conservatore favorevole allo status quo. Il contemporaneo ammorbidimento delle posizioni cinesi sull’annessione di Taiwan – obiettivo cruciale dell’irredentismo nazionalista cinese – fu il riflesso immediato di questa trasformazione.
Negli ultimi anni la riforma economica ha dunque imposto un ridimensionamento del progetto nazionalista del Partito e, al tempo stesso, creando nuovi spazi per l’espressione della società civile, ha favorito l’emersione di un nazionalismo “popolare” critico nei confronti del Partito e spesso al di fuori del suo controllo, che si è fatto sentire pubblicamente in diverse occasioni, dal bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999 fino alle più recenti manifestazioni anti-giapponesi del 2005 e 2010.
È un nazionalismo che riesce ad influenzare dal basso il Partito, imponendo alla sua agenda, accanto al miglioramento del tenore di vita, anche la promozione del progetto nazionalista. A volte questi obiettivi risultano complementari – come nella polemica con gli Stati Uniti sulla rivalutazione del renminbi – ma spesso entrano in contrasto tra loro, ispirando politiche apparentemente contraddittorie che confondono e preoccupano gli osservatori stranieri – come nel caso della questione coreana o dei rapporti con Tokyo.
L’economia cinese ha avuto una buona tenuta di fronte alla crisi finanziaria globale, specie se confrontata con le gravi difficoltà in cui si dibattono le economie occidentali. La posizione relativa di Pechino ne è emersa rafforzata, consentendo al Partito un approccio più deciso in politica internazionale, come nei confronti del Giappone in occasione della crisi delle isole Diaoyu/Senkaku. Se in Occidente la retorica nazionalista di Pechino suscita timori e preoccupazioni, vista dall’interno questa retorica sembra contenere un elemento virtuoso: essa rafforza il ruolo dirigente del Partito e riduce il radicalismo del nazionalismo popolare, riconducendolo nell’alveo del processo di riforma e di apertura che per oltre trent’anni ha favorito la pacifica integrazione della Cina nel sistema internazionale.
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